25 gennaio 2008

Una spiegazione "possibile"


La violenza in Kenya può essere terribile, ma non è “barbarie” insensata.

La fantasia esotica che l’occidente ha dell’Africa significa che non riusciamo a capire le reali ragioni che determinano il conflitto nei paesi in via di sviluppo.


Domani sarà la volta di Kofi Annan di arrivare in una tesa Nairobi, seguendo i passi dell’Arcivescovo Desmond Tutu e John Kufuor, il presidente Ganiano e capo dell’Unione Africana, la scorsa settimana, e dei diplomatici USA e dell’ex presidente della Sierra Leone la settimana precedente. Mentre i turisti abbandonano le spiagge del Kenya, il paese è tragicamente diventato la prima destinazione per un nuovo tipo di visitatore – il mediatore internazionale.
Ma finora, tutti loro sono riusciti ad ottenere non più di ciò che potrebbe essere definita una minipausa, rifacendo in fretta le valigie previste per la sosta di una sola notte con niente da mostrare che provasse i loro sforzi.
Il Kenya è ficcato in un pericoloso punto morto, con nessun punto di accordo tra Mwai Kibaki, che ha rivendicato la presidenza nella recente contestata elezione, e il suo oppositore, Raila Odinga, da cui far partire negoziati sulla condivisione del potere. Il paese si tiene forte questa settimana, quando i deputati recentemente eletti dovranno occupare i loro seggi, e si teme che cazzottature possano scoppiare in parlamento.
L’Orange Democratic Movement di Odinga sta meditando se riportare i suoi sostenitori in strada a protestare per ciò che credono essere una ingiusta elezione da parte di Kibaki. A Londra e Washington, per non parlare di Kampala e Kigali, si è vicini al panico. Londra ha bisogno che il Kenya sia una storia africana di successo, ha dato al paese £175 milioni in aiuti. Gli USA hanno assolutamente bisogno del Kenya come stabile alleato per la loro strategia post-11 settembre - è una base vitale per il Corno, lo Yemen, il Golfo e l’Africa Orientale. Allo stesso tempo, i paesi confinanti hanno bisogno del Kenya come aggancio all’economia mondiale; le forniture di carburante già scarseggiano in Uganda e il commercio attraverso il porto di Mombasa dà segni di arresto.
Nessuno sottostima la portata di questa crisi. Mentre in occidente i diplomatici e gli addetti ai soccorsi stanno quietamente digrignando i denti in un insieme di frustrazione e ansietà, la storia dei media – con alcune eccezioni come Peter Kimani, un giornalista keniano di
openDemocracy.net – è stata semplice: totale confusione.
Ecco come la storia è stata incorniciata : il pacifico Kenya che noi conosciamo e amiamo come lo vediamo nelle foto delle nostre vacanze è improvvisamente esploso in una barbarie tribale insensata.
Ci sono due vecchi elementi che sottolineano questa prospettiva. C’è la persistente fantasia occidentale dell’esotico che noi proiettiamo sull’Africa, ma le quiete spiagge orlate di palme dei nostri album delle vacanze (li ho anch’io) sono la creazione della nostra immaginazione turistica, che ci priva di ciò che non possiamo o non vogliamo capire. Esse non hanno niente a che fare con la tumultuosa, violenta e rapidamente mutevole realtà del Kenya negli anni recenti.
In secondo luogo, il servizio di informazione mostra come velocemente l’occidente ritorna al razzismo. Perché la parola “tribale” è usata soltanto quando ci si riferisce all’Africa?
Perché non parliamo delle tribù del Belgio o delle tribù del Medio Oriente? No, soltanto in Africa la violenza inter-etnica viene lanciata come “antico”, immutabile tribalismo, associato, nella mentalità europea, a barbarie e irrazionalità.
E’ un linguaggio di auto-felicitazioni – noi siamo civilizzati, gli Africani no. Altrimenti come sarebbero esplose all’improvviso le ridicole analogie con il Rwanda?
Il Kenya e il Rwanda hanno storie, relazioni etniche ed economie politiche completamente diverse.
Ma questo viene messo da parte come irrilevante, e resta la convinzione che la violenza Africana ha ovunque le stesse basi. E’ come se qualcuno avesse affermato che i sobborghi di Parigi in fiamme nel 2005 erano la nuova Bosnia. La confusione nasce dall’ignoranza. In Gran Bretagna, un affascinante melange di White Mischief, The Flame Trees of Thika di Elspeth Huxley e un safari è passato come “conoscenza” del paese. Ma il Kenya è una società complessa con 48 diversi gruppi etnici e con la più alta popolazione spostata internamente in Africa, in gran parte consistente di somali e sudanesi.
Ha alcune delle più grandi baraccopoli in Africa e la sua popolazione giovane, perlopiù disoccupata, lotta per assicurarsi alcune delle conquiste del recente boom economico. E’ difficile immaginare qualsiasi paese negoziare una tale cronica insicurezza e un rapido mutamento sociale ed economico senza che divampino conflitti di interesse.
Ecco perché un attento osservatore del Kenya come David Anderson, professore di politica africana alla Oxford University, non è particolarmente sorpreso della violenza delle ultime settimane. L’opera recente più importante di Anderson è stata l’analisi di come la violenza è diventata una parte della vita economica e politica keniana.
Nei sobborghi più poveri dove il crimine è endemico e la polizia inefficiente e corrotta, le gangs si sono moltiplicate. Chiedono denaro sottobanco ai commercianti locali e il loro comportamento non si differenzia molto dalla polizia o dalle compagnie di sicurezza private. Come il successo nel commercio consiste nel pagare queste gangs, così in politica il successo dipende dall’abilità di mobilitare il sostegno di “youth wingers”.
Giovani uomini disoccupati sono usati per proteggere i sostenitori ed intimidire gli oppositori. Il loro compito può andare dallo strappare i manifesti di un oppositore a gettare torce nel quartiere vicino. Poiché il prezzo della politica keniana si è alzato, i politici non possono letteralmente permettersi di perdere e le gangs fanno parte della strategia perché questo non accada. C’è sempre la possibilità che le gangs usino il paravento della politica per regolare i loro conti. Questa “economia di violenza”, come la descrive Anderson, può suscitare profondi risentimenti nelle discendenze etniche.
Eldoret, la scena dell’orribile massacro nella chiesa ai primi di questo mese, è famoso come punto di infiammabilità. Questa è la regione in cui i Kikuyu, il più grande gruppo etnico che ha tratto il maggior vantaggio fin dall’indipendenza, ha acquisito terra negli anni ’60 espropriando i Kalenjin – un motivo di risentimento che cova irrisolto da allora.
La conclusione a cui si può arrivare è che la politica kenyana è una combinazione di locale e globale – Odinga stava pianificando di copiare le dimostrazioni di massa di stile ucraino in caso di sconfitta elettorale già da novembre. Ma chiamando i suoi sostenitori (e le sue gangs) in strada, riesce a controllare il suo proprio impeto di frustrazione e di rabbia, in parte generato da dispute sulla terra vecchie di generazioni, mentre altri motivi sono molto più recenti, provocati dalla classe media dei Kikuyu che ha agito a proprio vantaggio sotto Kibaki.
La violenza che risulta è certamente barbarica – si è detto che bambini siano stati ributtati dentro la chiesa che stava bruciando ad Eldoret – ma non si tratta di una primordiale inclinazione africana alla barbarie. In uno studio che tratta della spaventosa violenza in Africa in anni recenti, “Civil War is Not a Stupid Thing”, l’autore, Professor Christopher Cramer, afferma che, in un continente che ha visto più guerre dal 1990 che in tutto il secolo precedente, la violenza può essere una forma di comunicazione a cui si ricorre come ultima possibilità. Quando tutti gli altri canali utilizzati per cercare giustizia per i risentimenti esacerbati in un regime corrotto appaiono essere esauriti, alcuni vedono la violenza come l’unico modo di proteggere i loro interessi. Questo non fa giusta la violenza, ma neppure la fa necessariamente insensata.
Essa può avere la sua propria terribile razionalità. Ciò che stiamo vedendo in Kenya – e in altri instabili paesi in via di sviluppo – è come gli esseri umani si comportano quando si confrontano con la cronica insicurezza che la globalizzazione sta covando in tutto il mondo.
Il cambiamento disorganizzato genera il timore che vecchie identità sepolte diventino una polizza di assicurazione – chi si occupa di te? – o facciano di te una vittima.
L’esito è sempre tragico, e questo è ciò che rende così tanti keniani così ansiosi.

Articolo di Madeleine Bunting apparso su "The Guardian, Lunedì, 14 gennaio, 2008" e tratto da Korogocho.org

Nessun commento: