30 novembre 2007

Una telefonata ti allunga la vita...ma non sempre!


Sospetta morte di un uomo in Corea con il cellulare in fiamme al suo fianco

Un minatore di 33 anni è stato portato in ospedale con ustioni sul petto, costole rotte ed emorragie interne.

Un minatore di 33 anni della Corea del Sud è stato trovato morto con un telefonino in fiamme sul torace. La sua morte potrebbe essere stata causata dall'esplosione del suo cellulare. Ne hanno dato notizia la polizia e il dottore che ha esaminato il cadavere. L'uomo, che è stato dichiarato morto al suo arrivo in ospedale, aveva ustioni sul petto, costole rotte ed emorragie interne, ha dichiarato il medico. «Quando è stato portato al pronto soccorso, aveva il cellulare fuso attaccato alla parte sinistra della sua camicia», ha detto Kim Hoon, medico presso il dipartimento di medicina d'urgenza dell'ospedale universitario Chungbuk.
La polizia sta conducendo le indagini sulla possibile causa della morte dell'uomo, se l'esplosione sia stata innescata da una batteria difettosa, ha riportato l'agenzia Yonhap. Saranno necessari almeno dieci giorni per completare l'inchiesta sulle cause della morte del minatore. «È stato trovato steso vicino ad una scavatrice mentre lavorava in una cava di pietre», ha dichiarato un agente della stazione di polizia di Cheongju Heungdeok, circa 100 chilometri a sud est di Seul. «Era sdraiato al suolo e il suo cellulare stava ancora bruciando così ho dovuto spegnere il fuoco», ha detto alla televisione nazionale Ytn Kwon Young-sup, un testimone della scena.

Articolo tratto da Corriere.it

Sembra abbastanza incredibile come spiegazione...

29 novembre 2007

A volte ritornano


Che fine ha fatto Monica

Siamo andati a ritrovare la ex stagista e gli altri protagonisti dello scandalo che divise l'America.

A dieci anni dal Sexgate, che a Bill Clinton quasi costò la carica di presidente degli Stati Uniti, Monica Lewinsky è rimasta un’ossessione nazionale che aleggia sulla campagna elettorale della ex first lady Hillary. La sua storia ritorna su giornali, radio e tv. Su internet proliferano blog a lei intitolati. I collezionisti danno la caccia agli accessori da lei disegnati tempo fa. E il suo nemico di allora, l’ex speaker della Camera Newt Gingrich, che incriminò Clinton per falsa testimonianza e ostruzione alla giustizia, ammette: «Neppure la figura di Marilyn Monroe si è impressa così nella psiche popolare».
In un decennio Monica e l’America sono cambiate. Lei non cerca più le luci della ribalta dal 2004, quando pubblicò l’autobiografia La mia vita. E Barbara Hutson, il suo press agent, non cerca più i media per reclamizzarne le iniziative (fallite in maggioranza), ma protegge la sua riservatezza. Gli americani, sebbene sempre spaccati sullo scandalo, non la considerano più una peccatrice, ma incominciano a vedere in lei una vittima. Mentre i Clinton haters, gli odiatori di Clinton, continuano a farla oggetto di barzellette oscene, personalità come la giornalista Barbara Walters e l’attrice Whoopy Goldberg la difendono pubblicamente. Quando possono, glissano pure gli stessi repubblicani, bruciati dai recenti Sexgate dei loro parlamentari.
Lo scandalo fu epocale. A cavallo del 1998, Monica, una stagista di 24 anni della Casa Bianca, iniziò una boccaccesca love story con il presidente Clinton. Il Drudgereport, un giornale on-line, la denunciò e il procuratore speciale Kenneth Starr, un repubblicano che indagava su presunti scandali della first lady Hillary, aprì un’inchiesta. Monica ingenuamente si confidò con la falsa amica, Linda Tripp, che consegnò al procuratore oltre 20 ore di conversazioni telefoniche. Interrogato, Clinton negò di aver fatto sesso con la stagista, ma Monica confessò per evitare il carcere. In un rapporto di 445 pagine al Congresso, Starr disse che il presidente aveva mentito e andava incriminato. La Camera obbedì, ma Clinton fu salvato dal Senato di misura.
Senza rendersene conto, Monica Lewinsky aveva provocato una crisi costituzionale, 25 anni dopo le dimissioni del presidente repubblicano Richard Nixon per il Watergate. Il Paese, traumatizzato, non perdonò Clinton (il suo vicepresidente Al Gore pagò per lui due anni dopo perdendo le elezioni) ma formò quadrato attorno a Hillary, la «leonessa» tradita che sfoderò gli artigli in difesa del marito. La stagista divenne il simbolo del male.
Senonché oggi, l’America sembra riabilitarla. Ha scritto Richard Cohen, columinist del Washington Post: «Il suo fu un errore di gioventù. Lo ha scontato. Merita di rifarsi una vita e di essere lasciata in pace».
Il mutamento di umore del Paese è dovuto all’esemplare condotta di Monica Lewinsky negli ultimi tre anni. tesi, “Alla ricerca della giuria imparziale: riflessioni sulle conseguenze della pubblicità prima del processo”, è stata un grido di dolore. «L’abbiamo sacrificata sull’altare del maschilismo», ha protestato Cohen. «Un uomo non passa alla storia per una trasgressione sessuale». E ha aggiunto: «Il principale colpevole del Sexgate fu Clinton, ma fu Monica a soffrirne, perché si illuse che il preNel 2005, l’ex dama bianca di Clinton si è trasferita in Inghilterra. Lo scorso gennaio ha preso una seconda laurea in psicologia sociale alla London School of Economics. La suasidente avrebbe lasciato Hillary per lei». L’America deve rispettarla, concude Cohen: «Dove si trova l’uomo coraggioso capace di sposarla?».
Per qualche mese Monica ha cercato un impiego a Londra, poi è ritornata in America. La scorsa estate, era residente a Portland nell’Oregon, alla cui università si era laureata la prima volta nel ’95, l’anno che entrò alla Casa Bianca. Marjorie Skinner, una disegnatrice, l’ha avvistata a Genes, un noto ristorante, e allo Urban grind bar. «Era con un gruppo di vecchi amici dell’università, l’ho trovata simpatica, disinvolta e in forma, una bella donna». Secondo il quotidiano locale, Monica, che a luglio ha compiuto 34 anni, abita in un condominio del Pearl district, il migliore rione cittadino, e lavora al marketing della rivista Mercury Monthly. Barbara Hutson, la sua press agent, rifiuta di svelare se abbia un compagno o un fidanzato.
Nell’autobiografia La mia vita, l’ex stagista ebbe parole amare per il presidente Clinton: «Quante menzogne, quante ferite», le sue ultime dichiarazioni pubbliche. Monica voleva lasciarsi il Sexgate alle spalle assieme ai fiaschi successivi: le parentesi da stilista, quella di conduttrice alla Fox e il suo infelice monologo a teatro. C’è riuscita. I suoi genitori sono divorziati dall’88, ogni tanto li va a trovare a Los Angeles dove la madre si è risposata. Evita Washington e si astiene dal commentare le elezioni. Con malizia, lo Hill Chronicle, il quotidiano del Congresso, ha scritto che «voterà repubblicano». Whoopy Goldberg è scattata: «Basta strumentalizzarla, non desidera altro che un’esistenza anonima». Esattamente come Linda Tripp, la nemica che non ha mai più visto. Si è nascosta in Virginia ed è rinata. L’italo americana Rose Carotenuto, il suo nome da nubile, era un’alta funzionario del Pentagono, da cui ha ricevuto un risarcimento danni di 600 mila dollari per essere stata licenziata in seguito allo scandalo. A 58 anni, con un divorzio alle spalle e con un figlio adulto, si è risposata con l’amore della sua adolescenza, l’architetto tedesco Dieter Rausch, e ha aperto con lui un negozio di oggetti natalizi a Middleburg. La chirurgia plastica e i consigli della stilista Yuki Sharoni l’hanno trasformata in una signora attraente. Linda non ha mai spiegato perché abbia tradito Monica. Prima ha addotto ragioni morali, poi l’appartenenza al partito repubblicano, quindi la necessità di proteggersi dalle rappresaglie di Clinton, ma è stata assolta dall’accusa di spionaggio a danno della Casa Bianca.
Al contrario, Kenneth Starr imperversa sulla scena nazionale. Avvocato del grande studio legale Kirkland and Ellis e preside della facoltà di giurisprudenza dell’università Pepperdine, in California. Ormai sessantunenne, l’ex procuratore è la punta di lancia dei repubblicani nelle dispute politiche. Starr, ironia della storia, si è specializzato nella difesa dei molestatori sessuali: il suo protetto più discusso è il miliardario Jeffrey Epstein, sospettato di abuso di divette minorenni. Ed è molto richiesto come conferenziere: il Sexgate, lamentano i clintoniani, è stata la sua fortuna.
Come per Matt Drudge, padre del Drudgereport, nel ‘98 un foglio elettronico semisconosciuto della destra, oggi un punto di riferimento indispensabile per tutti i media. Vive di «soffiate» dei repubblicani, e nel tentativo di neutralizzarlo i democratici gli hanno contrapposto lo Huffington Report di Arianna Huffington, l’ex vestale greca dei conservatori, oggi una liberal estremamente combattiva. Drudge lo ha preso come la conferma che a soli 45 anni è un gran sacerdote della politica statunitense. Dopo aver quasi distrutto Bill Clinton, adesso Matt sembra propenso a risparmiare Hillary: tra il cronista d’assalto e la ex first lady, anzi, ci sarebbe un certo feeling. Forse l’indiscreto Matt crede che Hillary sarà eletta presidente e lei pensa che avrà bisogno di lui.

Articolo tratto da Corriere.it

28 novembre 2007

Terroristi camaleontici...


Terrorista si finge sposa: preso

Soldati iracheni svelano il camuffamento del super-ricercato Haidar Mahdi, in abito da nozze.

Per eludere e confondere le forze di sicurezza in Iraq un gruppo di terroristi si è cammuffato da invitati ad una festa di matrimonio. Soldati iracheni hanno tuttavia scoperto in tempo la messa in scena e fermato gli estremisti.
Tra di loro anche il super-ricercato Haidar Mahdi, in abito da sposa. Come riporta il quotidiano di Baghdad «Al-Sabah», a un posto di blocco sulla strada nei pressi della città di Taji è stato fermato nei giorni scorsi un camioncino, addobbato a festa, con tanto di fiori e strascico.
A prima vista, riferisce il giornale, i soldati di pattuglia hanno pensato ad una comitiva di sposi con gli ospiti al seguito. Osservando però attentamente la coppia e i due uomini vestiti a festa all'interno del piccolo furgone, si sono accorti che la «sposa», con tanto di velo in testa e in abito bianco, era in realtà il terrorista Haidar Mahdi mentre gli altri tre occupanti del veicolo erano anch'essi sulla lista dei maggiori ricercati. Tutti e quattro sarebbero stati arrestati, scrive «Al-Sabah».

Articolo tratto da Corriere.it

27 novembre 2007

Attacchi chimici


3000 anni fa gli Ittiti pionieri del bioterrorismo


La storia delle guerre batteriologiche e' costellata di sforzi per introdurre gli agenti patogeni nel campo nemico nei modi piu' diversi: si va dalle coperte infettate con il vaiolo che i cowboys distribuivano ai pellerossa ai cadaveri di appestati lanciati all'interno delle mura nemiche nel Medioevo. Secondo uno studio pubblicato dalla rivista Journal of Medical Hypoteses, i primi vettori di batteri usati intenzionalmente sono state delle pecore, che gli Ittiti, che abitavano l'odierna Turchia, usarono tremila anni fa contro un popolo nemico. Secondo lo studio del microbiologo italiano Siro Trevisanato, il batterio scelto come prima arma di distruzione di massa della storia e' stato il Francisella Tularensis, responsabile della Tularemia, o 'febbre dei conigli', un'infezione ancora oggi presente che se non curata porta alla morte nel 15% dei casi.
Studiando documenti antichi, lo scienziato ha verificato che la prima comparsa della Tularemia in Medio Oriente risale al quattordicesimo secolo avanti Cristo nella citta' fenicia di Symra, ai confini fra Libano e Siria. Gli Ittiti saccheggiarono questa citta' nel 1325 a.C., portando con se' anche animali infetti, che potrebbero aver trasmesso la malattia in tutto il loro territorio:''Potrebbe essere proprio la Francisella la responsabile di quella che viene riportata come 'piaga Ittita' - spiega il ricercatore - un'epidemia di cui ci sono diversi documenti''. Proprio nel momento di massima virulenza della Tularemia, secondo Trevisanato, gli Ittiti sono divenuti oggetto delle 'attenzioni' di una popolazione confinante, che abitava la citta' di Arzawa nell'Anatolia occidentale, decisa ad approfittare della debolezza degli Ittiti per invadere il loro territorio. ''E' proprio in questo periodo, pero', fra il 1320 e il 1318 a.C., che per le strade intorno ad Arzawa incominciarono ad apparire misteriosamente dei montoni - spiega l'esperto - gli abitanti della citta' li catturarono e li mangiarono. Proprio in quegli anni la Tularemia ha iniziato a fare vittime nella citta', tanto che alla fine la popolazione era cosi' debole che la conquista degli Ittiti e' fallita''.
La teoria del microbiologo e' confermata, oltre che dai documenti, dal modo in cui l'infezione si propaga: l'infezione spontanea del batterio si manifesta in 150 mammiferi diversi, dai topi ai conigli alle pecore, e l'agente patogeno puo' essere trasmesso all'uomo facilmente dagli insetti come le zecche e le zanzare. ''Ci sono documenti in cui gli abitanti di Arzawa iniziano a chiedersi se c'e' un collegamento fra i montoni e l'epidemia - conferma Trevisanato - secondo me c'e', e a qualcuno degli Ittiti deve essere venuta l'idea di utilizzare gli animali''.

Articolo tratto da Ansa.it

26 novembre 2007

Resistenza...?


I diari della guerrigliera olandese

Il governo colombiano trova e pubblica i manoscritti di Tanja, laureata di Groningen, ora militante nelle Farc.

P
otrebbero intitolarsi "I diari di una guerrigliera disillusa" e sono i manoscritti di Tanja Nijmeijer, un'ex studentessa olandese che dal 2002 ha abbracciato la causa dei terroristi colombiani delle Farc.In questi diari che sono stati ritrovati lo scorso giugno dalle truppe governative in un ex quartiere generale del gruppo rivoluzionario marxista-leninista, la ventinovenne di Groningen, nome di battaglia “Eillen”, narra la sua stanchezza e il suo disincanto per la lotta armata e il desiderio di tornare alla vita precedente.
Il governo di Bogotà ha deciso di pubblicare alcuni estratti di questi manoscritti per evidenziare il carattere "sessista, brutale e ipocrita" dei capi delle Farc e far notare al pubblico internazionale quanto la vita quotidiana dei terroristi sia lontana dalla mistica romantica della guerriglia armata. Ma
al di là della propaganda politica, la prima cosa che salta agli occhi è la triste storia della Nijmeijer: diligente studentessa universitaria, idealista convinta, pronta a lottare contro ingiustizia e povertà, si laurea in filologia spagnola nel 2001 all'Università di Groningen proprio con una tesi sulla guerriglia delle Farc. L'anno successivo partecipa a una missione-studio in Colombia e conosce la povertà che attanaglia la popolazione sudamericana. Entra in contatto con un gruppo delle Farc e abbraccia la causa dei guerriglieri. Ma ben presto scopre i limiti e le ingiustizie perpetrate da chi si dichiara pronto a sacrificarsi per un mondo migliore.
«Sono stanca della guerriglia, stanca delle persone e della vita in comunità» recita un passo dei diari che sono stati scritti dalla Nijmeijer in spagnolo, inglese e olandese. «Stanca di non poter pensare a me stessa. Almeno sapessimo per che cosa stiamo lottando. La verità è che io non ci credo più». In altre pagine dei manoscritti emerge la consapevolezza dell'inutilità della lotta armata: «Non so dove questo progetto ci porterà» scriveva così la guerrigliera disillusa lo scorso aprile. «E anche se riuscissimo a prendere il potere cosa succederà? Probabilmente le fidanzate dei capi avranno in dono una Ferrari Testa rossa, si rifaranno il seno e mangeranno caviale.
Andrà così». Spesso affiorano i dubbi: «A volte mi sveglio piangendo e con la medesima domanda: sarei stata più felice restando in Olanda, insegnando, traducendo e lavorando per l'Università, sposata e con dei figli?»
Alla fine dai manoscritti appare chiaro che l'organizzazione terrorista più che all'ideologia marxista è legata al traffico di cocaina che arricchisce a dismisura i capi ribelli. Inoltre il potere di quest'ultimi è aumentato dalle continue estorsioni e dai rapimenti politici. «In alcuni circoli europei, c'è ancora chi vede i guerriglieri come dei Robin Hood o dei Che Guevara, che combattono i cattivi per il bene dei poveri» taglia corto il ministro della difesa colombiano Juan Manuel Santos. «Purtroppo la Nijmeijer è caduta in questa trappola». Adesso che
il suo nome e gli estratti dei suoi diari stanno facendo il giro del mondo la situazione dell'ex studentessa di Groninger potrebbe farsi più difficile e c’è chi teme per la sua vita. In una recente intervista Raul Reyes, portavoce dei ribelli delle Farc ha affermato che l'idea che la Nijmeijer sia diventata una sorta di prigioniero è falsa e che se lo volesse, potrebbe tranquillamente tornarsene in patria. I genitori della ragazza non ci credono e smentiscono le dichiarazioni di Reyes con un passo dei suoi diari: «Voglio lasciare questa unità» scriveva l'olandese lo scorso novembre. «Ma adesso sono come una prigioniera. Che cosa posso fare?»

Articolo tratto da Corriere.it

23 novembre 2007

Guerra dimenticata


Somalia, fuga dall'inferno: viaggio nella città degli orrori

Tra bande di ribelli e militari, dove a un anno dall'invasione etiope e dalle bombe Usa regna la più crudele anarchia. Negli ultimi dieci giorni sono scappati in 250mila.

Dopo 14 conferenze di pace, a quasi un anno dall'invasione etiope e dai bombardamenti Usa, giustificati con la necessità di fermare l'avanzata di Al Qaeda in Africa, la Somalia precipita sempre di più nel dramma. Una settimana fa, infatti, dall'Etiopia sono arrivati altri 20 mila uomini e 52 carri armati con un ordine semplice: fare una strage. Comincia da qui il viaggio nell'inferno della Somalia, paese senza pace, dove centinaia di conflitti sono stati coperti dal marchio globale di una guerra civile che dura da 17 anni. I militari del presidente provvisorio sono alla fame, i civili allo stremo (quattromila i morti nel 2007): donne, bambini e vecchi scappano a piedi. Un popolo in fuga dalla capitale e che si rifugia nelle tendopoli. Sperando nell'aiuto della Comunità internazionale.
Adesso, con un lampo strano negli occhi, lo chiamano "la scimmia". Hawo Ali, da due settimane, vive sospeso tra gli spini del secondo ramo di una grande acacia. È il segreto degli sfollati nel campo di Elasha, a sud della capitale. L'eroe dell'ultima battaglia di Mogadiscio ha 11 anni. Per due ore ha trascinato per le vie del grande mercato di Bakara il cadavere di uno dei sette soldati etiopici ammazzati dai ribelli al governo di transizione. La notte prima era stato costretto ad assistere allo sterminio della sua famiglia. Assieme alle vedove del clan è stato scelto dalle milizie degli shabaab, i giovani delle corti islamiche in rotta, per offrire un macabro regalo agli invasori di Addis Abeba.
Nel 1993 era successo con gli americani. Lo choc popolare aveva costretto Bill Clinton a ritirare le truppe. Oggi non è andata così. Gli etiopici hanno arrestato venti maschi somali, rastrellati a caso nel quartiere di Yagshid. Venti uomini vivi in cambio di un cadavere preso a calci dalla folla? Ai mercanti del porto è sembrato che il nemico cedesse. L'errore l'hanno capito l'altra notte. Nel quartier generale dell'esercito governativo è entrata la salma dell'occupante, avvolta in un lenzuolo bianco. Dal carcere sono usciti venti sacchetti di nylon blu, riempiti con i pezzi degli ostaggi, irriconoscibili, mescolati alla rinfusa.
È scattata così l'ultima vendetta etiope contro il popolo somalo, scudo per la nuova resa dei conti tribale. Un ordine semplice: consumare una strage senza limiti, decimare la capitale, seminare il terrore e la disperazione in ogni zolla del Paese. Per questo Hawo Ali ora deve nascondersi da tutti. Il 4 novembre è stato il volto dell'insurrezione ispirata dai fondamentalisti, decisi a innescare una rivoluzione nazionalista. Ha fallito. Ora, per tutti, è solo il colpevole del più crudele massacro del Corno d'Africa dall'inizio della guerra civile in Somalia. È un bambino, ma ha capito. Rifiuta la razione di mais. La sua patria è un altoforno in fiamme, il destino ha spento la sua stella.
Dieci chilometri a nord, poco sotto lo stadio di Mogadiscio, tocca a Fortun Abdullahi Ali Afrah assistere alla catastrofe. Un proiettile le è esploso negli occhi. Ha sedici anni, nessuno ha il coraggio di portarla in un ospedale. La madre al mattino la depone su una sedia, in mezzo alla strada. Se non può vedere, che almeno senta quello che succede a chi può camminare. La città è un misterioso, imprevedibile, deserto campo di battaglia. Tra le macerie, squarci e spazi aperti dai bombardamenti sono vuoti. Negozi, mercati, scuole, uffici, università e porto sono chiusi.
Ciò che resta della popolazione passa il giorno barricato nelle buche scavate sotto il pavimento delle case. Sono quasi tutti maschi, rimasti a difendere le proprietà. Chi deve uscire in cerca di acqua e di cibo, corre ricurvo tra auto bruciate e muri crollati. Cadaveri e feriti vengono lasciati dove cadono. Un'aria spessa, bollente e polverosa, stende su tutto una nebbia affumicata. Negli ultimi giorni non si spara più solo di notte.
Gli insorti combattono in campo aperto. Ore di battaglia intensa cedono a lunghe pause di silenzio. Il terrore dirada gli scontri. Soldati etiopici e squadre fedeli al governo rastrellano però senza sosta, edificio per edificio. Circondano un quartiere e chi è all'interno è perduto. Ufficialmente danno la caccia ai terroristi vicini alle Corti islamiche, in fuga da gennaio. I superstiti raccontano invece un'altra storia. I militari armati dal presidente provvisorio, Abdullahi Yusuf del clan darod, da mesi non vedono un soldo.
Alla fame, come la gente, aggrediscono e rapinano chi non confessa di sostenere la jihad. Chi ammette è giustiziato sul posto, quindi mutilato. Chi resiste viene decapitato. Membra umane sono state appese in una macelleria, come lezione collettiva. Centinaia le donne stuprate davanti ai parenti. Il primo ministro, Ali Gedi del clan hawiya, è stato costretto a dimettersi e a rifugiarsi in Kenya. La capitale torna nelle mani dei "signori della guerra", dei darod che garantiscono a Yusuf il controllo di porto e aeroporto: mezzo milione di dollari al giorno, in contanti. Sindaco e capo della polizia impongono il loro dazio a chi scappa. Per i bambini sotto i 12 anni la tariffa è doppia. I ribelli, non solo fondamentalisti, si preparano ad una lunga resistenza. Nel quartiere "Mar Nero", attorno al grande mercato e a Wahara Adde, si scavano trincee e cunicoli sotto le macerie. Dopo 14 conferenze di pace, a quasi un anno dall'invasione etiope e dai bombardamenti Usa, giustificati con la necessità di fermare l'avanzata di Al Qaida in Africa, la Somalia precipita in un massacro dominato dall'anarchia.
Centinaia di conflitti coperti dal marchio globale di una guerra civile che dura da 17 anni: vendette tra clan, tribù e famiglie; lotte di potere tra generali e criminali che hanno spodestato Siad Barre; contese tra le bande che alimentano il più fiorente mercato africano di armi, droga e scorie nucleari; guerra santa dei fondamentalisti islamici, finanziati dal mondo arabo attraverso l'Eritrea; invasione colonialista dell'Etiopia, appoggiata dagli Usa per assicurarsi il controllo di petrolio e uranio; infine Somaliland e Puntland che reclamano indipendenza, l'irredentismo che riesplode nell'Ogaden, la resistenza nazionalista che spinge il nord contro il centro e questo contro il sud. In mezzo al caos, i caschi verdi dell'Unione africana. Avrebbero dovuto essere 8 mila. Meno di duemila ugandesi invecchiano assediati nelle caserme. Sabato notte i ribelli islamisti hanno obbedito all'appello di uno dei loro capi, Abu Mansur.
Il quartiere generale di Mogadiscio è stato bombardato. Una capitale devastata attende l'ultimo atto della propria tragedia: l'esplosione degli attentati contro i contingenti stranieri, qui come ad Addis Abeba, o nel resto del Corno d'Africa. Per questo una folla sterminata, che aveva fin qui sopportato povertà e dolore come nessun altro, ora scappa. Vede che la criminalità rapace, l'indifferenza e l'idiozia della comunità internazionale, hanno sostituito il fondamentalismo degli islamisti, rinvigorito dall'intervento degli Usa. Il popolo in fuga non tenta solo di sottrarsi alla morte: non accetta di essere testimone passivo dalla propria autodistruzione, come un cuore sul fondo dell'abisso.
Un fiume di scheletri neri, apatici e muti, emerge da quartieri isolati dal mondo. Nella capitale il cibo sta finendo e manca l'acqua potabile. I mercati, con la scusa di tagliare il sostegno popolare alle milizie shabaab, sono stati devastati e chiusi dall'esercito. Donne, bambini e vecchi scappano a piedi. I carretti, trainati da asini, sono colmi di materassi, stracci, pentole. Il racket dei miserabili vende posti su stipati pullmini, schiacciati dalla folla che si arrampica sui tetti. La popolazione si perde tra cammelli, capre, mucche, galline e cani, pure in fuga dalle esplosioni.
Lungo i bordi dell'unica pista allagata, che collega Mogadiscio con il Sud, si affittano alberi per ripararsi dalla pioggia torrenziale. Le donne si fermano nelle pozzanghere per riempire di un liquido fangoso taniche gialle barattate con ciotole di riso. Si cucina, ci si lava, con la melma. Per accendere il fuoco i pochi maschi abbattono piante di cinnamomi e cespugli. Nei canali si ammassano le carcasse degli animali morti.
Per mangiare si spara a branchi di scimmie grigie che, al tramonto, raggiungono la strada adescate con banane verdi. Bande di ragazzi si appropriano delle buche più profonde, le spianano e vi si stendono davanti. Chiedono cibo ai veicoli che scelgono di passarci sopra. I malati, oltrepassata la piazza K7 (sigla che indica la distanza dal centro di Mogadiscio), si fermano appena possono. Verso Lafole, i pozzi di Elasha e fino ad Afgoy, una distesa compatta di ramaglie, coperte con vestiti consumati e letame, protegge i reduci dagli orrori. Cinquanta, forse centomila ripari pieni di fori.
Non si muore solo per l'assenza di cibo, o avvelenati dall'acqua infetta. Fanno strage la malaria, il colera, la tubercolosi e la bilarziosi. Non esistono latrine. Centinaia i feriti da proiettili vaganti, schegge, mine. Makagedi Wasuge è stata centrata alla gola mentre fuggiva con il figlio in braccio. Era nato da sei giorni. Lo ha perduto e chiede agli amici di ucciderla. Poche, generiche, le medicine. Nei campi di rifugiati a Lafole, Alabaray e all'Università di Agricoltura, opera un solo medico. Abdulrahman Abdi Haline, ortopedico, distribuisce sedativi a quasi ottantamila persone. Ne ha poche scatole, manda i vecchi a raccogliere certe erbe tra le dune.
Ribelli vicini alle Corti islamiche e giovani insorti vengono curati clandestinamente. La massa è corrosa dall'odio contro l'Etiopia e contro "un governo agli ordini di Bush" che non controlla più nemmeno Villa Somalia, la propria sede dopo l'originaria a Baidoa. Fadumo, un anno fa, avrebbe impiccato chi le aveva imposto il velo integrale e chiuso caffè, cinema, radio e discoteche. Da questa mattina è volontaria tra i giacigli degli insorti. Fascia le ferite di chi, nel nome di Allah, le ha sgozzato il padre e un fratello.
Tra la capitale e Afgoy la tendopoli misura ormai cinquanta chilometri. Negli ultimi dieci giorni i fuggiti all'inferno di Mogadiscio sono stati oltre 250 mila. Mezzo milione da gennaio, un milione negli ultimi due anni. Un milione di esseri umani che hanno perso tutto, privi di un luogo dove vivere. Da fine ottobre i civili uccisi sono circa 500, duemila i feriti. Quattromila le vittime della guerra nel 2007, oltre 10 mila i feriti. Solo in novembre, ogni giorno, a Mogadiscio sono morti 25 abitanti. Quasi sempre madri con i figli. Si avvicinano ai mercati in cerca di cibo, vengono freddati dai cecchini. Ieri sera è capitato anche a Madina Elmi, famosa come "general". Ai tempi di Aidid era la donna dei "signori della guerra" che taglieggiavano gli innocenti.
Pentita, ha dedicato la vita alla pace. È stata colpita alla schiena mentre distribuiva pomodori agli orfani, ammassati poco fuori città. "Se la comunità internazionale non si sbriga - dice Tahlil Mahamud - tra un mese non avremo più sabbia per seppellire i cadaveri". È il capo di 2200 rifugiati, nascosti tra i cespugli che la stagione delle piogge fa rifiorire di giallo in un deserto rosso. Nelle ultime due settimane le 422 famiglie del suo clan hanno ricevuto 5 chili di riso e 10 di mais. I convogli umanitari sono al centro di un fuoco incrociato. L'esercito governativo li blocca per impedire i rifornimenti di cibo agli insorti. I fuggitivi li assaltano per una manciata di farina. I ribelli li rapinano per barattare cibo con armi. Sospesa tra guerra santa, conflitto civile, battaglia tribale e insurrezione patriottica, la Somalia è sconvolta dal compimento della più temuta catastrofe umanitaria del mondo.
Il futuro, la prevedibilità degli eventi, si estendono ad un paio di ore. "Non vogliamo il ritorno delle Corti islamiche - dice il vecchio Sheikh Osman Hamsow-Abd vicino alla moschea di Al Idayha, nella capitale - ma i responsabili di questa carneficina se ne devono andare".
Nelle ultime ore gli sfollati sono sempre più deboli. Mogadiscio si svuota. Per accorciare la marcia i più vecchi passano dalla spiaggia affacciata sull'oceano indiano. Camminano fino a Merca, cento chilometri a sud. Questa notte tre anziani sono morti sulla riva. I corpi, secchi come conchiglie spezzate, giacciono accanto ad una scuola mobile, allestita sotto una tenda per i figli dei rifugiati. I bambini, accanto, continuano a giocare a pallone prendendo a calci una sfera di alghe. In una capanna, costruita con i carapaci delle testuggini giganti, è riunita la "polizia".
Affitta scorte alle organizzazioni non governative che tentano di fronteggiare l'emergenza. Ora stanno concordando le tariffe, come fossero taxi. Ma la polizia, in Somalia, non esiste. Milizie claniche controllano porzioni di territorio. Se cambia la zona, cambia la scorta, composta da poveracci alla fame, in ciabatte, con il kalashnikov in mano. Tutto dipende da chi possiede più armi. Un terrorista delle Corti può finire a spalleggiare un "signore della guerra", passando dai ribelli all'esercito governativo, o viceversa. Si cambia casacca per una cesta di manghi, nessuno ci bada. Al riparo dei gusci di tartaruga i capi attendono l'annuncio del nome del nuovo primo ministro. Sarà un hawiya, Nur Hassan Hussein, della famiglia Abgal. Domani decideranno a chi passa la sicurezza e chi tocca fuggire. "Per parlare di riconciliazione - dice il sultano Moaim Adnan Osman - è necessario che un nuovo governo dialoghi con l'opposizione, coinvolgendo tutti i clan, aprendo ai moderati delle Corti islamiche ed emarginando i fondamentalisti. Gli invasori etiopici, i loro amici della Cia, se ne devono andare, consentendo l'invio delle forze di pace africane delle Nazioni Unite. Solo così, con il sostegno di Unione europea e Lega araba, potremo arrivare al disarmo, all'elezione di istituzioni autorevoli e alla ricostruzione del Paese".
Sembra un sogno, tutti lo raccontano come automi, nessuno ci crede. Chiudere i mercati e il porto di Mogadiscio significa scegliere di annientare la propria gente. Sparare sulla folla in fuga vuol dire rendere insuperabile l'odio tra Somalia ed Etiopia, tra mondo islamico e Occidente. Hassan Mursal lo sa. Per questo ieri mattina è partito. Ha un bastone, un camicione bianco e rigido come fosse di calce. Ad Afgoy dice di cercare la famiglia di suo fratello, scomparsa da aprile. Perché è rimasto solo, perché va verso sud, dove pensa di arrivare digiuno e a piedi scalzi, cosa deve annunciare ai nipoti? Non risponde alle domande. Alza le spalle, come andasse di fretta ad un appuntamento.
Tutti, qui, capiscono che saranno i loro corpi, la loro carne, a dare infine un senso fisico all'essenza del destino. Dietro ad Hassan inizia a muoversi un popolo. Non sa dove andare: ma forse, scappando in massa dall'orrore, protestando con il sacrificio estremo di se stesso, rifiutandosi di morire, sta trovando la sua strada.

Articolo tratto da Repubblica.it

22 novembre 2007

Birmania: la repressione è stata dichiarata "deplorevole"


Birmania, Ue e Asean: «Liberate subito i prigionieri»


Dopo la risoluzione non vincolante dell'Onu che condanna la Birmania, giunge la dichiarazione congiunta di Unione europea e Asean (l'Associazione dei Paesi del Sud-est asiatico), riuniti a Singapore, che chiedono la liberazione dei detenuti politici nel Paese e il rafforzamento delle relazioni economiche, ma senza fissare scadenze. «Accogliamo con favore la decisione del governo della Birmania per un impegno con le Nazioni Unite e un dialogo con San Suu Kyi, ricordando che un tale dialogo dovrebbe essere effettuato con tutte le parti interessate e i gruppi etnici», si legge nella dichiarazione congiunta del vertice Ue - Asean.
Il vertice, cui ha partecipato, per l'Italia, il sottosegretario agli affari esteri, Gianni Vernetti, si è tenuto in occasione dei 50 anni dalla nascita dell'Ue ed a 40 anni dalla creazione dell'Asean. Presenti capi di Stato e di governo, ministri degli Esteri e viceministri dei 27 Paesi dell'Ue e dei 10 Paesi dell'Asean.L'Unione Europea, con la recente nomina di Piero Fassino a inviato speciale, e l'Asean, di cui la Birmania è membro, sono impegnate in una soluzione pacifica della crisi. Alla condanna dell'Unione Europea, che è stata accompagnata dall'inasprimento delle sanzioni nei confronti del regime birmano, ha fatto riscontro la ferma posizione dell'Asean, che adottato per la prima volta lo scorso 27 settembre a New York una dichiarazione di riprovazione per la violenta repressione delle dimostrazioni antigovernative in Birmania.
La
giunta militare birmana era stata condannata anche dall´Onu il 20 novembre, con un documento in cui tra l´altro si chiede di «riprendere senza indugi il dialogo con tutti le parti», di liberare i prigionieri a partire dal premio Nobel Aung Sann Suu Kyi e si esprime sostegno all'inviato delle Nazioni Unite Ibrahim Gambari. È stata la prima condanna espressa al Palazzo di Vetro. Le divisioni in seno al Consiglio di Sicurezza avevano costretto ad ammorbidire la dichiarazione finale che si limitava a «deplorare» la repressione.

Articolo tratto da L'Unità.it

Dei passi da gigante...la prossima presa di posizione sarà dichiarare "monello" il regime militare?!

21 novembre 2007

Libera informazione e libera concorrenza


La rete segreta del Cavaliere che pilotava Rai e Mediaset

Nelle intercettazioni tra 2004 e 2005 allegate all'inchiesta sul fallimento della Hdc dell'ex sondaggista Crespi, la prova che alla concorrenza si era sostituita la complicità.

"Media-Rai". Le due superpotenze nazionali della tv, che dovrebbero competere aspramente per la conquista dell'audience, fare a gara nella pubblicazione di servizi esclusivi, in realtà si scambiano informazioni sui palinsesti. Concordano le strategie informative nel caso dei grandi eventi della cronaca. Orchestrano i resoconti della politica. Su tutto, la grande mano di Silvio Berlusconi e dei suoi collaboratori, che quotidianamente tessono la tela, fanno decine, centinaia di telefonate, si scambiano notizie, organizzano fino ai più piccoli dettagli. È il quadro che emerge dalle intercettazioni telefoniche - realizzate tra la fine del 2004 e la primavera del 2005 - allegate all'inchiesta sul fallimento della "Hdc", la holding dell'ex sondaggista del Cavaliere, Luigi Crespi. E in particolare dai resoconti, redatti dalla Guardia di Finanza, delle conversazioni telefoniche di Debora Bergamini, ex assistente personale di Berlusconi e, all'epoca, dirigente della Rai, e di Niccolò Querci, pure lui ex assistente di Berlusconi e, all'epoca, numero tre delle televisioni Mediaset.
La "ragnatela" avvolge e intreccia le vicende della tv di Stato con quelle di Mediaset. I direttori di Tg1 e Tg5 (all'epoca Clemente J. Mimun e Carlo Rossella) fanno, testuale, "gioco di squadra". Il notista politico del Tg1 informa la Bergamini e la rassicura sul fatto che le notizie più spinose saranno relegate in coda al servizio di giornata. Fabrizio Del Noce cuce e ricuce, assicurando che Bruno Vespa, nella sua trasmissione, accennerà "al Dottore in ogni occasione opportuna". Querci, insieme al gran capo dell'informazione Mediaset, Mauro Crippa, cuce sul versante opposto. E arriva fino ad occuparsi delle vicende del festival di Sanremo (quell'anno affidato a Paolo Bonolis), cioè della trasmissione di massimo ascolto dell'azienda che dovrebbe essere concorrente. E poi ancora, le fibrillazioni in due fasi delicate: la morte del Papa e le elezioni amministrative dell'aprile 2005.
L'allora presidente Ciampi è pronto per una dichiarazione a reti unificate per onorare Giovanni Paolo II? La Bergamini allerta prima l'assistente personale del Cavaliere e poi Del Noce per preparare una performance parallela dell'inquilino di Palazzo Chigi. E ad essere allertato è anche il "rivale" Crippa. Le elezioni sono andate male? Bisogna "ammorbidire" i resoconti sui risultati elettorali. La Bergamini contatta Querci e con lui concorda la programmazione televisiva. La ragnatela avvolge tutto, pensa a tutto, provvede a tutto.

Articolo tratto da Repubblica.it

Il conflitto di interessi non è mai esistito, questo articolo è un'altra invenzione dei "comunisti mangia bambini" e di tutti quelli invidiosi della sagacia imprenditoriale (quale professione...amico di politici, cantante da piano bar, latin lover, operaio, allenatore di calcio...mah!) del povero Silvio!

20 novembre 2007

Campagna anti-droga


Tre anziani fotografati mentre assumono altrettanti tipi di droghe: cocaina, eroina e crack.

E' la pubblicità shock di un centro per il recupero dei tossicodipendenti, realizzata nel Regno Unito.
Il messaggio, elaborato dall'agenzia pubblicitaria londinese "Abbott Mead Vickers Bbdo", è soprattutto un'esortazione: "Gli anziani drogati non esistono. Riprenditi il tuo futuro".

L'idea è chiara: i tossicodipendenti raramente raggiungono la terza età.
In uno di questi scatti, firmati dal fotografo Spike Watson una donna stringe tra i denti un laccio emostatico, mentre si inietta la droga.
Art director di questa campagna sociale contro l'uso delle droghe è Mike Bond.




Tratto da Repubblica.it

GENIALE!!!

19 novembre 2007

Venticello


«In Bangladesh 5-10 mila morti»

Un milione e mezzo di sfollati, danni economici incalcolabili. Il drammatico bilancio della Mezzaluna Rossa locale dopo il passaggio del ciclone Sidr. Il rischio epidemie.

È fra i 5.000 e i 10.000 morti il bilancio del ciclone Sidr che negli ultimi giorni ha colpito la costa del Bangladesh. Lo stima la Mezzaluna Rossa locale che raccoglie informazioni da migliaia di volontari impegnati in tutti i distretti devastati. Ma molte zone del Paese sono ancora irraggiungibili per i soccorritori e il quadro potrebbe essere solo parziale.
Sidr, la tempesta tropicale più devastante che ha colpito il Paese nell'ultimo decennio, ha distrutto decine di migliaia di abitazioni. Secondo il ministero incaricato della gestione dei disastri naturali, sono oltre 1 milione e mezzo gli sfollati che hanno abbandonato i villaggi lungo la costa, mentre 2,7 milioni le persone direttamente colpite da Sidr. Incalcolabili i danni economici considerando i 250.000 capi di bestiame deceduti e i raccolti distrutti. Nella capitale Dacca, molti quartieri sono tuttora privi di energia elettrica e acqua potabile con l'alto rischio che si diffondano epidemie.
Il passaggio del ciclone ha anche provocato un disastro ecologico: Sidr ha devastato la più grande mangrovia del mondo, nella regione di Sunderbans, iscritta nel patrimonio mondiale dell’umanità e riserva naturale di migliaia di specie di animali rari.

Articolo tratto da Corriere.it

16 novembre 2007

Un passo avanti


Pena di morte, sì alla moratoria


La Terza commissione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato ieri sera ad ampia maggioranza la risoluzione che chiede una moratoria internazionale sulla pena di morte. Il voto è stato di 99 Paesi a favore, 52 contrari e 33 astenuti. Le probabilità di passaggio erano aumentate con la bocciatura di tutti gli emendamenti posti sul suo cammino. La decisione apre adesso la strada a una presa di posizione dell'intera Assemblea generale entro fine anno.
«È una vittoria di tutta l'Italia - ha commentato il ministro degli Esteri, Massimo D'Alema - l'Italia conferma di essere in prima linea nel mondo in materia di tutela dei diritti umani». Sulla stessa lunghezza d'onda l'ambasciatore italiano al Palazzo di Vetro, Marcello Spatafora, che subito dopo il voto ha dichiarato: «Quella vinta oggi è una battaglia di cui tutti dovremmo essere orgogliosi». L'Italia ha svolto infatti un ruolo di primo piano nella campagna e nei negoziati per far avanzare la risoluzione, divenuta una priorità di politica estera.
Il testo, dopo due giorni di teso dibattito, è rimasto invariato con ben 14 emendamenti, spesso presentati con l'intento di far deragliare la risoluzione, tutti respinti. La commissione aveva aperto i lavori mercoledì, per proseguirli giovedì mattina: gli emendamenti sono stati bocciati in media con 80 voti contro 70, una ventina di astensioni e altrettanti non partecipanti alle deliberazioni. Le dichiarazioni di voto sulla risoluzione sono cominciate verso le tre di pomeriggio ora di New York, dopo che anche un ultimo tentativo degli oppositori di far votare la risoluzione punto per punto era fallito. L'approvazione richiedeva soltanto una maggioranza semplice dei Paesi votanti.
La decisione della Terza commissione rappresenta un passo molto importante ma ancora non definitivo per la risoluzione.
L'appuntamento, infatti, è ora con l'Assemblea generale, probabilmente a metà dicembre, per un voto sulla moratoria: se varata dai 192 Paesi la risoluzione acquisterà un immmediato valore morale, anche se non sarà vincolante. Negli anni Novanta due proposte di risoluzione, che tuttavia chiedevano l'immediata abolizione della pena di morte anziché una moratoria, si erano arenate.
Il voto in commissione è giunto al termine di una saga già rivelatasi lunga e difficile: la moratoria era rimasta ostaggio di richieste di porre l'accento sull'eliminazione della pena capitale e di controproposte per ammorbidire il testo. La risoluzione alla fine presentata e ieri approvata invoca una moratoria in vista di una futura eliminazione.
Il testo sottolinea che la pena capitale «danneggia la dignità umana», che «non esistono prove conclusive del suo valore deterrente» e che «qualunque errore giudiziario nella sua applicazione è irreversibile e irreparabile». Inizialmente 72 Paesi, fra cui l'Italia e tutte le nazioni dell'Unione Europea, avevano sottoscritto il testo, un elenco in seguito allungatosi a 87 firmatari. I sostenitori comprendono ad oggi una dozzina di capitali latinoamericane e otto Paesi africani, dal Brasile all'Angola.
Le più strenue obiezioni sono arrivate da Paesi mediorientali, asiatici e caraibici. Tra i critici più convinti della risoluzione si è distinto Singapore, ma resistenze sono emerse anche da Botswana, Barbados, Iran, Egitto e anche Cina. Iran, Cina, Stati Uniti, Pakistan e Sudan vantano oggi il 90% delle esecuzioni al mondo.
Alcune delle obiezioni, sintomo delle polemiche che dividono l'Onu sulla pena di morte, hanno anche sollevato lo spettro del colonialismo e dell'interferenza negli affari interni di singole nazioni. «Abbiamo visto - ha detto il rappresentante di Singapore Kevin Cheok - simili episodi in passato. C'era un tempo in cui le nostre vedute venivano ignorate». Cheok ha dichiarato che il dibattito sulla pena di morte minaccia di «avvelenare» il clima alle Nazioni Unite. L'ambasciatore italiano Marcello Spatafora ha respinto simili accuse e ha risposto che l'iniziativa per la moratoria è internazionale.

Articolo tratto da IlSole24Ore.com

15 novembre 2007

Italian Style


Fiat 500 Auto dell'Anno 2008

Premiata la più amata

E' ufficiale, la piccola del gruppo torinese ha vinto il titolo più ambito. Ma la comunicazione della giuria è attesa solo per lunedì prossimo.

E' ufficiale, la Fiat 500 ha vinto il premio Auto dell'Anno 2008. La comunicazione della giuria è attesa solo per lunedì prossimo ma sono già iniziati i festeggiamenti. La 500 infatti ha già fatto incetta di premi, da quello di "Auto più bella del mondo" a quello di "EuroCarBody" (il più prestigioso riconoscimento a livello mondiale per la carrozzeria).
Premi che, ovviamente, valgono solo sulla carta: alla Fiat interessa sicuramente di più il "premio" arrivato dal grande pubblico. Ossia una valanga di ordini (oltre le più rosee aspettative, 100 mila in 4 mesi) che ha "costretto" la Fiat ad ampliare il suo stabilimento di Tychy, in Polonia, per aumentare la produzione della 500 di una cifra oscillante tra le 40.000 e le 60.000 unità l'anno.
Un'operazione che costerà circa 275 milioni di euro per potenziare l'impianto, ma la stessa cifra dovrà essere investita anche nel 2008. Così entro il 2009 lo stabilimento avrà una capacità produttiva di mezzo milione di automobili. Un bel record...
Ma torniamo al premio: la 500 ha polverizzato la concorrenza dei 33 concorrenti e delle altre finaliste (Ford Mondeo, Kia cee'd, Mazda2, Mercedes C-class, Nissan Qashqai e Peugeot 308).
I 58 giornalisti europei membri della giuria non hanno insomma avuto dubbi, probabilmente per salvaguardare la stessa dignità del loro premio: se avessero fatto perdere l'amatissimo "cinquino" avrebbe gettato un bel po' di fango sull'autorevolezza di un titolo comunque molto ambito dalle case. Insomma, cronaca di un successo annunciato...
E iniziano ad arrivare la prime reazioni: "E' un magnifico segnale, bisogna dare grande merito a Marchionne".
Così Franzo Grande Stevens, presidente della Compagnia di San Paolo e segretario del consiglio di amministrazione della Fiat, ha commentato la decisione di proclamare la 500 auto dell'anno.
"Per la prima volta la distanza fra la prima e la seconda eletta è enorme", ha aggiunto a margine della presentazione della mostra Trilogia dell'automobile.

Articolo tratto da Repubblica.it

14 novembre 2007

Effetti della burocrazia italiana


L'Italia esclusa dallo sviluppo di Google Android

A pochi giorni dal lancio di Android, il sistema operativo mobile open source di Google, ovvero la concretizzazione delle voci che parlavano da mesi dello sbarco del colosso di Mountain View nella telefonia, l'azienda ha messo in rete il kit per gli sviluppatori. Il sito è reperibile all'indirizzo http://code.google.com/android. Per incentivare la partecipazione alla piattaforma open source di Google, con la possibilità di creare applicazioni che vanno dal social networking alle funzioni di chi vuole avere l'ufficio in tasca, è previsto un premio di dieci milioni di dollari. C'è però un particolare che non farà felici gli sviluppatori italiani: il concorso in Italia non è attivo. Sul regolamento si legge infatti che «il concorso è escluso ai residenti in Italia e Quebec a causa di restizioni locali». La notizia è stata notata da alcuni blogger poco dopo che Google ha dato la notizia sul blog ufficiale. "Pablo72" ha subito notato l'incongruenza e l'ha segnalata nei commenti, mentre la voce è velocemente rimbalzata sulla rete.
Tra i primi blog ad occuparsene c'è stato Illusion's blog.
Oltre al nostro Paese e al Quebec sono esclusi Cuba, Iran, Syria, North Korea, Sudan, e Myanmar (Burma), per evidenti motivi legati alle leggi americane.

Al di fuori di questi Paesi il totale di 10milioni sarà diviso in due sottopremi da 5 milioni l'uno: la seconda tranche prenderà il via dopo la realizzazione del primo terminale.
Nella prima fase le 50 applicazioni che riceveranno il maggiore consenso saranno premiate con un premio di 25mila dollari, poi partirà una seconda competizione che metterà a disposizione 275mila dollari per i primi dieci e altri 100mila per chi occuperà le dieci posizioni successive.
Intanto Google ha mostrato le prime immagini di come funzionerà Android.
I video messi su YouTube dall'azienda sono due: nel primo a prendere parola è direttamente il co-fondatore Sergey Brin che lascia poi la parola a un ingegnere di Google. Nel secondo si vedono più nello specifico altre applicazioni.
Dai filmati, che mostrano un prototipo, emerge come l'interfaccia sarà semplice e per alcun versi simile all'iPhone della Apple.
Non sarà solo touch screen, ma per alcune applicazioni basterà sfiorare lo schermo con le dita. Fedele alle intenzioni di Google l'apparente semplicità con cui si usa internet sullo schermo del terminale.
Rendere più comune l'esperienza di internet in mobilità è infatti il requisito necessario per far volare la pubblicità online sui telefonini, com'è nelle ambizioni di Mountain View.


Articolo tratto da IlSole24Ore.com



Spiegazione (in inglese)

"Everybody is talking about Google Android and - as usual - there's an interesting context with $10M dollars in prizes.
Excellent news for people and corporates who want to play with innovation.
And as usual Italy is excluded from the competition (and I see Quebec too). Looking at the FAQ, you learn that:

The Android Developer Challenge is open to individuals, teams of individuals, and business entities. While we seek to make the Challenge open worldwide, we cannot open the Challenge to residents of Cuba, Iran, Syria, North Korea, Sudan, and Myanmar (Burma) because of U.S. laws. In addition, the Challenge is not open to residents of Italy or Quebec because of local restrictions.


I say "as usual" since this constantly happens, for instance past year's Sun Grid Developer Challenge had similar rules. You might wonder what are those "local restrictions".
Well, for my country:
  • prizes must be assigned in presence of a notary public and a representative from an acknowledged consumer association;
  • prizes that are not delivered (for any reason, including recipient not picking them) must be donated to some non-profit organizations, explicitly listed in the contest rules;
  • there are some papers to fill in and the contest must be registered to two different Ministries (you know, in Italy there are a lot of Ministries, sometimes it's hard to understand who's doing what) and to the State Monopoly Administration.
But above all:
  • the entity which is organizing the contest must guarantee in advance a security deposit "cash loan" (not sure of the translation here, but I hope you get the point) covering the whole value of prizes.
I mean, the first points are an annoyance, but probably a legal office can carry them out in some ways (of course, with additional expenses and complexity). In any case they are laughable in the context of Web {2,3}.0 and the new economy and whatever.
But the last point would mandate that Google froze $10M in some bank account to "guarantee" that prizes will be really delivered (even though it's extremely unlikely that all the prizes are delivered in Italy).

I realize that, in Google's shoes, I'd take the same decision and exclude Italy from the contest. You give up with a small fraction of the potential targets, but you're freed from such a crazy bureaucracy.
We Italians are so grateful to our lawmakers that in every circumstance make sure that our life is easier and we can compete with the rest of the world." 405849595839

Tratto da
Fabrizio Giudici's Blog

13 novembre 2007

Baby Spiderman...


"Uomo Ragno" di 5 anni salva bebè da rogo

L'incredibile giornata da eroe dei fumetti del piccolo Riquelme Wesley dos Santos. Il baby-eroe che si chiama come il fuoriclasse del Villarreal riceverà un'onorificenza.

Ha
visto fumo e fiamme uscire dalla casa dei vicini e non ci ha pensato un attimo. Ha indossato il costume da Uomo Ragno che ha ricevuto al suo ultimo compleanno, il quinto, e si è precipitato all'interno dell'abitazione che stava bruciando, dove si trovavano una bambina di un anno e la nonna.
Protagonista di un sabato da eroe dei fumetti in una cittadina dello stato brasiliano di Santa Catarina, Riquelme Wesley dos Santos, un bambino di
cinque anni che ha ricevuto il nome in omaggio al fuoriclasse argentino ex Boca Juniors, ora tra gli spagnoli del Villarreal. Quando ha visto la casa dei vicini bruciare il piccolo non ha avuti dubbi: era il momento di intervenire. Così ha raggiunto l'abitazione, dove l'anziana donna era già svenuta e la piccola era ormai minacciata dalle fiamme. Riquelme ha tratto in salvo la neonata, mentre alcuni giovani salvavano la nonna.
«Non
ho avuto paura, mi sono precipitato, solo quando sono uscito che mi sono reso conto di cos'avevo fatto», ha detto Riquelme. «Se non era per lui, mia nipote sarebbe morta», ha detto Sonia Abreu. Adesso il piccolo Uomo Ragno è finito sui giornali brasiliani. Ma non solo: riceverà un'onorificenza dal comune di Palmeira.

Articolo tratto da Corriere.it

12 novembre 2007

L'Africa in mostra


L
'arte contemporanea del continente nero nelle opere della collezione di Jean Pigozzi esposte fino al 3 febbraio alla Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli.


















Articolo tratto da LaStampa.it