27 febbraio 2008

Il retaggio del colonialismo


Kenya, un conflitto per la terra

Gli squilibri nella distribuzione tra le etnie sono all'origine delle divisioni
.

«Quando i missionari ven­nero per la prima volta in Kenya loro avevano le Bibbie e noi ave­vamo la terra, cinquant'anni do­po noi avevamo le Bibbie e loro avevano la terra». Sorride con ironia Uhuru Kenyatta, il figlio di Jomo, quando ricordo queste parole del padre rimaste famose all'epoca della lotta anti-coloniale. «Mio padre - aggiunge Uhu­ru, il cui nome significa "libertà" - però ci ha anche insegnato che bisogna imparare dalla storia ma non vivere nel passato». Uhuru Kenyatta, 47 anni, ministro dei governi locali con Kibaki, è stato rieletto con una valanga di voti al­le ultime elezioni, uno dei pochi dell'antica nomenklatura a non essere stato punito dalle urne. La sua famiglia, simbolo della predominanza dell'etnia kikuyu ma anche del sogno nazionale in­franto, possiede oggi 2mila chilo­metri quadrati di terra arabile sui 113mila del Paese. Ma questo non meraviglia nessuno, dopo i Kenyatta è toccato a Daniel Arap Moi, successore alla presi­denza di Jomo, diventare un grande proprietario e favorire per un ventennio a colpi di puli­zia etnica la sua tribù, i kalenjin. Il capo dell'opposizione, Raila Odinga, rivale del presidente Mwai Kibaki - manco a dirlo un altro latifondista - è un luo, etnia che si è sentita storicamente emarginata dai kikuyu, ma Raila a sua volta è un ricco signore, mi­liardario in dollari, con un passa­to marxista e forti legami con le multinazionali. Il negoziato tra Kibaki e Odinga, con la media­zione di Kofi Annan e ora anche di Condoleezza Rice, è una trat­tativa politica ma anche d'affari: potere e denaro qui sono un'ac­coppiata inscindibile. «Non cerchiamo rivoluzionari dove non esistono - scrive Mukoma Wa Ngugi, poeta e saggista - la maggioranza dei kenyani, che siano luo, kikuyu, luhya o altro, sono poveri, il 60% vive con meno di due dol­lari al giorno e questo riguarda tutti, senza differenze. I ricchi kikuyu prosperano a spese dei poveri kikuyu e lo stesso avvie­ne per gli altri. Il richiamo etni­co viene sfruttato dalle élite tribali, in modo occulto o palese, per nascondere le cause pro­fonde del disagio». Ma la questione della terra ri­mane all'origine del conflitto in Kenya, come in altri stati della regione, dal Ciad al Sudan allo Zim­babwe, e percorre la storia di questo Paese con memorie san­guinose e incancellabili. «La ter­ra è un campo di battaglia, lo era all'epoca dell'occupazione britannica quando a migliaia dovet­tero fare spazio ai coloni occi­dentali, ed è stato così anche do­po l'indipendenza», dice Wangaari Maathai, fondatrice del Green Belt Movement e Nobel per la pace del 2004. Alla fine della prima guerra mondiale l’1°/o della popolazione bianca del Kenya possedeva il 25% delle terre coltivabili. «So­no nata nel 1940 - racconta Wangaari - nella regione centrale, da­vanti al Mount Kenya: i coloni in­glesi arrivarono con i documen­ti che comprovavano la proprie­tà dei terreni migliori e migliaia di abitanti, compresi i kikuyu, furo­no obbligati a trasferirsi nella Rift Valley. All'inizio degli anni '50 circa 40mila coloni, per lo più britannici, possedevano 2.500 fattorie negli Altipiani Bianchi». Deportati allora nella Rift Val­ley, i kikuyu sono stati cacciati via ora da luo e kalenjin nella pu­lizia etnica post elettorale, così come i luo hanno dovuto abban­donate le aree dominate dai kikuyu. Cacciati via ma per tor­nare dove? La mappa del Kenya è stata sconvolta dalla più gran­de migrazione etnica dai tempi del regime coloniale britannico. «Molti tornano nelle aree di ori­gine ma tanti finiranno per in­grossare le periferie, innescan­do un'altra bomba demografi­ca e sociale», sostiene Odenda Lumumba della Kenyan Land Alliance. Davanti ai binari della ferro­via che taglia in due Kibera, uno degli slum di Nairobi teatro de­gli scontri etnici tra luo e kikuyu, è andata in scena una guerra di poveri, a colpi di machete e panga, tra una popolazione dove il 50% è senza lavoro. La maggio­ranza dei 37 milioni di kenyani vi­ve nelle baraccopoli, cioè occu­pa meno del 10% del territorio. La metà delle terre arabili oggi è invece in mano al 15% della popo­lazione, i due terzi possiedono meno di un acro. Certo questo Kenya appare in stridente contrasto con l'imma­gine di terra di safari e vacanze che ha goduto negli ultimi cin­que anni di una crescita annua del 6 per cento. Così come non si può ignorare che rispetto agli Stati vicini, devastati da guerre e conflitti etnici, è l'unico a vanta­re una consistente classe media. «Su una popolazione di circa 37 milioni, quattro milioni appar­tengono alla middle class, con entrate da 2.500 a 40mila dollari l'anno», stima l'economista Ja­mes Shikwati che riceve in un uf­ficio nel quartiere degli affari, se­de di agenzie dell'Onu e multina­zionali, a due chilometri in linea d'aria dagli slum. Ma anche il Kenya affluente risente pesante­mente della crisi. Il turismo, che sta chiudendo un hotel dopo l'al­tro anche sulla costa, rimasta del tutto estranea agli scontri et­nici, ha incassato nel 2007 un mi­liardo di dollari, da lavoro diret­tamente a 25omila persone e so­stiene i bilanci di milioni di ken­yani. Per ogni otto turisti si crea un posto di lavoro e ogni posto di lavoro fa mangiare da sette a dodici persone. La questione della terra conti­nua però a incombere come una maledizione. Così come il passa­to coloniale, a cui si oppose il mo­vimento dei Mau Mau, la confra­ternita dei Kikuyu che negli anni '50 si proponeva la cacciata dei bianchi. Per otto anni condusse­ro una guerriglia descritta dagli inglesi come criminale ed effera­ta: in realtà soltanto 32 bianchi fu­rono vittime dirette dei Mau Mau mentre sui massacri britan­nici calò un velo, sollevato sol­tanto di recente dal libro di Caro­line Elkins, «II Gulag britannico in Kenya», vincitore di un Pulitzer: le vittime kenyane furono dalle 300 alle 400mila, non le 10mila ufficiali, e un milione finì nei campi di concentramento. Il movimento dei Mau Mau riven­dicava la restituzione delle terre ma quando Kenyatta salì al pote­re nel '63 li deluse. Il carismatico Jomo, "la lancia fiammeggian­te", concordò che i coloni inglesi potessero restare nello loro farm oppure vendere le terre all'elite kikuyu. Fu così che iniziò la crisi post coloniale: i kikuyu acquistarono le terre della Rift Valley, un tem­po appartenute ai kalenjin e co­minciarono i guai, proseguiti con Arap Moi, un kalenjin che ha distribuito territori demaniali ai suoi accoliti e favorito la pulizia etnica di quelli che gli davano fa­stidio. Prima di queste disgrazia­te elezioni, nella regione dell'Elgon, ai confini con l'Uganda, c'erano già stati 400 morti e 80mila profughi, vittime della pulizia etnica delle bande dei Sa­baot i difensori della terra. La vera colpa del Governo Ki­baki, che per restare presidente ha imbrogliato più o meno nella stessa misura di quanto è avve­nuto nei feudi di Odinga, è stata quella di non avere saputo rom­pere con il passato, con la corru­zione, con la "mafia" del Mount Kenya. E gli uomini di Odinga non hanno esitato a strumenta­lizzare le bande armate per otte­nere con la violenza etnica quel­lo che non avevano conseguito con il voto. Ma i conflitti sulla ter­ra, tra le etnie, il regionalismo spinto, sono soltanto una parte di questa vicenda, quella più appariscente. Sullo sfondo si agitano la lotta per la conquista del Kenya, le manovre di destabilizzazione dell'Africa orientale, di una vasta area strategica ricca di petrolio e risorse. E la terra africana torna a essere un campo di battaglia, que­sta volta in nome di interessi eco­nomici e politici globali.

Articolo tratto da IlSole24Ore.it

"Studentessi"


Poster choc per gli alloggi studenteschi

Una giovane coppia "costretta" a consumare un rapporto sessuale nel letto matrimoniale occupato dai genitori.

Gli universitari italiani fuori sede lo sanno bene: trovare un tetto per studiare in una grande città non è facile, un po’ per la carenza di strutture, un po’ perché, come raccontato l’ottobre scorso dal Corriere gli affitti sono molto salati e spesso senza garanzie di un contratto regolare. Le cose non vanno meglio per i colleghi francesi, talmente disperati da dover fare l’amore nel letto di mamma e papà: almeno così racconta, provocatoriamente, un poster realizzato dall'Unef, il sindacato degli studenti transalpini, in cui si vede una giovane coppia "costretta" a consumare un atto sessuale nel letto matrimoniale occupato dai genitori (di lui o di lei, poco importa). Significativo anche lo slogan: «Alcuni fanno finta che gli studenti non abbiano problemi di alloggio…».
La campagna che in Italia scatenerebbe sicuramente molte polemiche, in Francia sembra aver già dato i suoi frutti: il ministro dell’Università Valerie Pécresse ha annunciato un piano di investimenti pari a 620 milioni di euro per costruire 5.000 nuovi alloggi e ristrutturarne 7.000 all’anno, fino al 2012. In agguato però c’è lo spettro della recessione, che attanaglia tutta l’Europa, e potrebbe costringere il governo a destinare quei fondi a problemi più urgenti. Il terrore degli studenti è che alla fine si possa ricadere in una soluzione già proposta in passato dal governo: l’affitto intergenerazionale, vale a dire l’ospitalità concessa agli universitari da persone anziane, aiutate così a sbarcare il lunario. Non a caso il poster dello scandalo sembra essere pensato anche per questa opportunità: i due “intrusi” di spalle nel letto in cui si consuma la passione potrebbero essere anche i nonni.

Articolo tratto da Corriere.it

16 febbraio 2008

Gli introiti della pace


KENYA: LA NON NOTIZIA DELLA NONVIOLENZA

Dal primo dell’anno il Kenya non sembrò più lo stesso. Non solo le baraccopoli della mega Nairobi ma anche le periferie hanno conosciuto la pulizia etnica. Il multipartitismo ha cristallizzato le etnie ed appena i capipopolo si sono scontrati sui risultati elettorali è successo, in dimensioni minori, ciò che avevamo visto a ponente del lago Victoria, in Rwanda. Stessi metodi: prima la calunnia, poi la divisione per clan, la lunga paura ed infine la pulizia etnica. 1.000 morti. Economia a picco, sanità al collasso.
Le agenzie stampa nazionali sono più propense a narrare uccisioni o fatti di sangue e meno a raccontare la resistenza civile e nonviolenta di singoli ed organizzazioni di società civile. Mi presto a farlo nei media che sono interessati ad andare oltre gli scoop. La gente del Kenya ha resistito all’avanzata di pochi facinorosi con la nonviolenza. Forse più per interesse che per credo profondo ma sia i commercianti che gli insegnanti non hanno tempo per la guerra. Questa è stata la novità. I kikuyu della Rift Valley, e non solo, volevano riaprir bottega ed i docenti luo di Eldoret tornare all’università.
La forza della quotidianità s’è spostata con forme di nonviolenza attiva e solidarietà concreta affatto trascurabili. A Nyahururu, per esempio, i profughi sono stati ospitati nelle comunità di diversi villaggi anziché in campi anonimi. Le comunità si prendono tutt’oggi cura di loro condividendo il poco cibo mentre la cooperazione fornisce medicine e coperte che possono tornar utili anche agli indigeni. Nulla di strano. Siamo tutti poveri. Gli aiuti transitano nel mercato nero il giorno dopo in quanto il mercato dare-avere risponde meglio ai bisogni dell’Alto Commissario per i Rifugiati. L’ “emergenza su base comunitaria” arricchisce anche i locali e serve come antidoto alla calunnia, divulgata scientificamente e alla separazione etnica che, economicamente, è una stupidaggine. Si può violentare colui di cui ti sei preso cura? Difficile. Si può violentare un tuo fornitore o un tuo cliente? Altrettanto difficile. Semmai spremere ma non certo uccidere.

L’organizzazione per i diritti umani e l’azione non violenta di Saint Martin ha acquistato una pagina del giornale più importante del Kenya “The Nation” il giorno dopo l’acquisto da parte dei due contendenti alla Presidenza: Kibaki e Odinga. Tutti e tre; Presidente, Oppositore e comunità di base a raccontare le proprie ragioni. Tra due versioni di “Ho ragione io” è prevalso un forte: “Lasciateci in pace”. Le risorse per pagarsi la pagine in bianco e nero (il colore costava troppo) sono venute soprattutto dalla comunità. Chi più chi meno. La pace come affare collettivo per riprendere la quotidianità.
Impazzito il trono, dunque, ci provò l’altare. All’equatore il 30 gennaio – in occasione del 60° dalla morte del Mahatma Gandhi – tutte le Chiese, compresa la moschea, si sono incontrare per organizzare la più imponente manifestazione nonviolenta della Provincia, che passò di mercato in mercato anche perchè in Africa tutto è mercato. La marcia ha avuto un’eco “straordinaria” in Europa tanto da guadagnarsi sei righe di una sola agenzia stampa. Nonviolenza – non notizia. Terminata la giornata i sei vescovi / patriarchi / imam si sono autoaccusati di non essersi incontrati prima del conflitto ma solo dopo. Un monito per la futura diplomazia preventiva.
I media locali all’unisono hanno fatto muro comune contro la violenza. Addirittura con editoriali congiunti firmati da più direttori. TV, radio e giornali a dimostrazione che di Radio Mille Colline, che nel ’94 incitò al genocidio, non ve ne saranno più nei Grandi Laghi. Anche la polizia, da sempre tra le più corrotte al mondo, in molti casi s’è distinta per ospitare i profughi all’interno delle proprie caserme prestando i primi soccorsi. Non tutta, certo. Molti militari hanno peggiorato la situazione seguendo la paura diffusa.
A Nairobi mentre gli aerei rimpatriavano i cooperanti stranieri non cessavano le attività di azione nonviolenta e interposizione nelle baraccopoli organizzate localmente da alcune comunità di base. Purtroppo fanno da contraltare “finte” organizzazioni non governative che si stanno arricchendo puntando sull’incapacità dei donatori e singoli a discernere ed incettando fiumi di denaro riversati sull’emotività che l’emergenza crea.
Non solo attività non governative, quindi. Anche Statuali. La presenza immediata di Desmond Tutu, già Premio Nobel per la Pace e di altri mediatori africani e capi di Stato come Museveni dall’Uganda hanno aiutato a non peggiorare le cose. Tutti hanno interessi che la Metropoli ritorni a governare l’Africa dell’est, che Mombasa riapra il suo porto con l’Asia e che le arterie con la Tanzania siano valicate da treni e autotreni. Il “tanto peggio tanto meglio” dei guerrafondai sembra avere le ore contate.
Le stesse multinazionali del turismo come attori di pace. Mombasa, Malindi ed i dieci parchi del Kenya non possono permettersi un’instabilità di più mesi. Compagnie aeree ed agenzia viaggi per la nonviolenza attiva. Ne andrebbe della spina dorsale dell’economia che da decenni non ha mai conosciuto un’impennata così straordinaria dei prezzi.
A livello regionale la coincidenza del vertice dell’Unione Africana nella vicina Addis Abeba ha portato ad una pressione verso le forze politiche affinché si trovi un accordo onorevole. L’Onu ha fatto il suo dovere e sta mediando. La Cina, infatti, rivendica i propri investimenti in Africa e non può permettersi ritardi nello scalzare l’India e l’Europa. Accoglie quindi l’invito di Francia nel Consiglio di Sicurezza per condannare le ampie violazioni. La presenza sia dell’attuale che dell’ex Segretario generale Kofi Annan, anch’egli africano, è determinante per il difficile percorso di pace. I due contendenti a la Presidenza circondati da una pletora di arrivisti si sentono “obbligati” nel trovare una soluzione politica al contenzioso.
Tutti impuniti? Affatto. E’ arrivata una delegazione dell’Alto commissario per i diritti umani per indagare sulle "gravi violazioni” commesse. Il “fare subito chiarezza” senza aspettare che il tempo ricopra di polvere rossa il sangue versato può aiutare il paese a rielaborare le proprie difficoltà. Ipotizzando, da subito, strade meno violente perché sia oggi che domani sarà comunque “impossibile cancellare le macchie di leopardo” (proverbio kikuyu).
Insomma, l’attuale “processo nazionale di dialogo e riconciliazione” lo si deve a tutti i portatori d’interesse. Nessuno escluso. La Pace come vero affare. Forse l’unico. La pulizia etnica una follia inutile. Banale. Nessuno ci guadagna. Ed è per questo che non ha affascinato le masse ma solo pochi esaltati.

Articolo tratto da Korogocho.org

Immagini tratte da InsightKenya

06 febbraio 2008

La guerra tribale come scusa


L’odio ancestrale è una possibile lettura dell’incendio kenyano. La più diffusa e utilizzata da media e analisti in queste settimane post-elettorali, che hanno avvolto il paese in una spirale di violenza. Ma il ricorso all’interpretazione etnicista è la sola? Dev’essere la prevalente?


Per noi, quella esplosa in Kenya resta una crisi politica e sociale, alimentata anche dalle differenze etniche. È vero, la campagna elettorale ha trasformato la mappa tribale del paese in mappa politica. Molti kenyani sono apparsi imprigionati in una logica etnica, che li ha costretti a esprimere fedeltà alle persone della propria “famiglia”, indipendentemente dai loro reati o errori. Tuttavia, l’odio atavico non spiega tutto. Anzi. Il paese, oggi in preda all’incertezza, era andato al voto pieno di speranze, convinto che le vecchie forme di potere stessero per crollare. Speranze imprigionate per troppo tempo in strutture costruite da una classe politica vecchia e inadeguata. Quest’anno il Kenya indipendente compie 45 anni. Ma in tutto questo tempo ha finto di essere un’unica nazione. Il sogno dell’“era kenyattiana” s’è infranto. Quello adottato è solo un nazionalismo imperfetto e incompiuto. Siamo di fronte a un paese dall’identità nazionale incerta. Regnano le dinastie, che ridistribuiscono all’interno della propria corte le fette di potere e di denaro. I coinquilini entrati in conflitto tra loro, Mwai Kibaki e Raila Odinga, appartengono a queste diverse caste. I tatticismi e i divieti reciproci, che i due hanno imposto dal giorno in cui la violenza è diventata un’attrice delle vicende kenyane, ci dicono che Kibaki e Odinga hanno guardato più agli interessi privati e alle lotte di potere che al bene del paese. «Più che di scontri etnici, si tratta di uno scontro di classe. Prova ne sia che la violenza è scaturita negli slum e nelle zone povere del paese», la chiave fornita da Arthur Muliro, kenyano, da più di dieci anni vicedirettore della Society for International Development, che in uno studio sul livello di disuguaglianza degli stati africani piazza il Kenya al quinto posto. Probabilmente, non è molto lontano dal vero chi afferma che le reali “tribù” in questo paese sono solo due: quella dei poveri e quella dei ricchi. Dualismo che disegna un tessuto sociale disgregato. Una spaccatura profonda. Non aveva forse alimentato questo sogno di rinnovamento e di unità l’ascesa alla presidenza di Kibaki nel 2002? Non doveva rappresentare la fine di una dittatura mascherata, rappresentata dai 24 anni di regno di Daniel arap Moi? La candidatura del kikuyu Kibaki — condivisa da una larga fetta di partiti dell’opposizione — doveva rompere il vaso dei favoritismi che si erano perpetuati fin dagli anni ’60 a favore di una certa classe dirigente. Ridistribuzione del potere (con una nuova costituzione) e lotta alla corruzione, i cavalli di battaglia del neo capo di stato. Traditi nei cinque anni successivi, nei quali il paese è apparso, per l’ennesima volta, ostaggio del suo presidente. E non solo perché Kibaki s’è inebriato con i profumi del potere. Ma perché è stato imbrigliato, nelle sue scelte, dalla cosiddetta “mafia del Monte Kenya”, fatta d’intrecci politico-affaristico-criminali, che impedisce un vero cambiamento nel paese. Così, la corruzione ha continuato a farla da padrona (si parla di un miliardo di dollari stornati dalle casse dello stato e finiti nelle tasche degli “amici” di Kibaki). Fino al punto che due ministri chiave dell’esecutivo, quello delle finanze e quello della giustizia, sono stati costretti a dimettersi, travolti da gravi scandali finanziari. Ma poi reintegrati dallo stesso presidente, quando le indagini su di loro non erano ancora state chiuse. Nel disprezzo delle regole democratiche. Così, l’economia del paese continua a rimanere nelle mani di una ristretta cerchia di persone legate al governo. Il populista Odinga, a parole, voleva spezzare proprio questo grumo di potere. Ma la caccia al kikuyu — seguita ai risultati elettorali e, di fatto, da lui avallata — ne ha offuscato l’immagine. Si fa fatica, ora, a spegnere quei focolai di violenza accesi dalla fine di un’illusione. Le vie del compromesso sono lastricate di problemi. Ma il Kenya non può restare “incendiato” per molto tempo. Non è nell’interesse né delle grandi nazioni né dei paesi confinanti. L’Occidente, che per decenni ha coccolato Nairobi, non può accettare la destabilizzazione di quest’ex colonia britannica. Già ci sono troppi problemi nel Corno d’Africa e nel Sudan per poter anche solo ipotizzare l’apertura di un nuovo fronte in Kenya. L’instabilità, inoltre, non sarebbe un bel ricostituente per gli interessi economici occidentali nel paese. Infine, anche Kampala, Kigali e Bujumbura guardano con terrore al perdurare della crisi kenyana, visto che un quarto del Pil dell’Uganda e del Rwanda e un terzo di quello del Burundi passano per il Kenya. Così, se dovesse fallire anche il tentativo dell’ex segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan, di trovare una composizione alla ferita aperta, Nairobi correrebbe il rischio di sanzioni, con l’Unione europea pronta a rivedere le sue relazioni con il paese. Ue e Onu potrebbero assumersi il compito di supervisori di una transizione pacifica, in attesa di nuove consultazioni elettorali. Nel frattempo, si potrebbe riprendere in mano quella riforma costituzionale che prevedeva l’introduzione della figura di un primo ministro forte, per togliere potere e influenza al presidente. Riforma fino a ora sacrificata sull’altare del dio potere.



IL RACCONTO DELLA SPERANZA: "I RIFUGIATI NEL MIO GIARDINO"

La scorsa settimana 150 donne e bambini in fuga dalla violenza tribale del Kenya hanno cercato rifugi
o a casa di Juliet Barnes nella Rift Valley. Questo è ciò che accadde dopo.

"La scorsa settimana forti venti secchi sollevavano la polvere in aria in tunnel vorticosi, attizzando fuochi sulle colline circostanti. Più di 150 donne e bambini arrivarono, e si accovacciarono dietro la mia casa nella speranza che qui avrebbero potuto salvarsi. Perfino i bambini sedevano silenziosi e guardavano gli orizzonti foschi per il fumo Ogni nuova esplosione di fiamme poteva essere la loro stessa casa, i loro averi e il raccolto che finivano in cenere. Io sono nata a Nyeri, vicino al Monte Kenya, dove i miei nonni erano agricoltori. Ora vivo in una casa appartata in un podere nella spettacolare Rift Valley. Giusto più di un mese fa, stavo chiacchierando con tre amici e vicini di tribù differenti, a proposito delle imminenti elezioni. Kamau, un Kikuyu, disse: “Io temo queste elezioni: si dice che il Kenya può diventare come il Rwanda”. “Non lo credo” ho risposto. “I Keniani sono gente di pace”. Kamau era incerto per chi votare. Forse per l’opposizione Orange Democratic Movement (ODM), “perché abbiamo bisogno di un cambiamento”. Mohamed, un Borana del nord, era deciso a dare il voto all’ODM perché il suo leader, Raila Odinga, “ sostiene la gente di tutte le religioni”. Rachel, una Kalenjin, disse che avrebbe votato per il Party of National Unity (PNU), il partito del Presidente Mwai Kibaki, “ perché come facciamo a sapere che anche Odinga non è corrotto?” Io mi sentivo incerta, nauseata dalla nostra storia di chiassosa corruzione e dall’attuale crescente spaccatura tra ricchi e poveri. Di lì a poco tempo un numero record di Kenyani andò a votare in un’atmosfera di fiduciosa eccitazione. Poi seguì l’annuncio della supposta vittoria di Kibaki – e le immediate accuse di brogli da parte dell’opposizione. In paesi e città ebbe inizio la violenza. I Kenyani sono da sempre conosciuti per il loro fascino cordiale. Fu un incredibile shock quando i Kalenjin cominciarono a bruciare, saccheggiare ed uccidere i Kikuyu nel Kenya occidentale. Noi eravamo in lacrime : non era possibile che questo stesse accadendo. Una dozzina di membri della famiglia di Kamau arrivarono dall’ovest. Avevano perso amici, separati dalle spose e dai bambini. “Abbiamo dormito nella foresta per una settimana,” mi disse la sorella di Kamau. “Hanno bruciato le nostre case, tutti i nostri averi, il raccolto e il pollame. Hanno rubato le nostre mucche. Hanno ucciso la gente: i corpi venivano mangiati dai cani perché i parenti non potevano avvicinarsi. Hanno lasciato le teste nelle strade per far capire ai Kikuyu che dovevano andarsene.” Perché persone che avevano vissuto fianco a fianco, pregando insieme e insieme andando a scuola, improvvisamente si erano rivoltati così brutalmente contro i loro vicini? “Sono pagati per uccidere e distruggere”, ha detto il fratello di Kamau, “da un politico dell’ODM.” Nel giro di una settimana Nakuru, habitat di milioni di fenicotteri rosa e il parco più visitato del Kenya, era diventato un’altra tragedia. I Kikuyu avevano preso le armi contro i Kalenjin e questo era ancora più terribile ora che stava accadendo nel paese a noi più vicino. Nella notte di venerdì, 25 gennaio, arrivarono i bambini e la sorella più giovane di Rachel, dopo una camminata di due ore dal villaggio vicino. La sorella di Rachel disse di aver ricevuto minacce, che intimavano ai Kalenjin e ai Luo di andarsene oppure sarebbero morti: “I nostri genitori sono rimasti per proteggere la nostra proprietà, ma dormono fuori per timore di essere bruciati nelle loro case.” Mohamed ci chiamò fuori casa:”Guardate quelle luci.” Eravamo in una strada polverosa sotto stelle brillanti e osservavamo una dozzina di fari che squarciavano il buio delle colline e delle valli circostanti. “Autocarri,” disse Mohamed. “Forse l’esercito è venuto ad aiutarci,”suggerì Rachel. In tutto questo c’era qualcosa di intenzionale ma anche qualcosa di sinistro. Mezz’ora dopo ritornò il buio e il silenzio. Sopra di noi, uno stormo di fenicotteri rumoreggiava socievolmente volando verso il sud. La mattina seguente Rachel andò a prendere sua madre. Ritornò con brutte notizie:“Quegli autocarri nella notte portavano giovani Kikuyu. Sono venuti attraverso il nostro villaggio. Cercano la vendetta. Si dice che un politico del PNU stia sostenendo questo esercito dei Kikuyu.” Circa ogni ora passava un aereo militare che puntava verso Nakuru. Un meccanico arrivò per dirci che un anziano Kalenjin era stato colpito a morte da una gang Kikuyu. La sera seguente cominciarono ad arrivare a piedi donne e bambini che cercavano la salvezza nel piccolo accampamento dietro la nostra casa. Portavano pochi averi e niente cibo o acqua: erano Kisii, Maragoli, Kalenjin, Luo e Borana, che fuggivano dalla violenza delle zone circostanti. Udimmo racconti di bande di Kikuyu che seminavano il terrore nella città di Naivasha, fermando i veicoli, chiedendo l’identità e uccidendo i nonKikuyu. La mattina seguente il cielo era scuro di fumo. Parecchi chilometri lontano la gente si stava ammazzando con archi e frecce e machete. Il pomeriggio seguente il fratello di Rachel arrivò da Naivasha. La sua casa era stata bruciata e indossava gli stessi indumenti da quattro giorni. “Brutte notizie da Naivasha,” disse. La Rift Valley è diventata troppo pericolosa per la gente Kalenjin. Dobbiamo andarcene da qui in fretta prima che uccidano tutti noi – e i nostri bambini.” Altra gente stava arrivando nell’accampamento compresi i Kikuyu, alcuni molto vecchi. Rachel e Mohamed arrivarono con la notizia che la notte scorsa una nonna Kalenjin e suo figlio erano stati colpiti a morte nel villaggio. Un anziano Kikuyu mi parlò brevemente. “Questo non è soltanto per i risultati delle elezioni o il tribalismo,” disse, “si tratta di profondi rancori per la questione della terra.” Trovammo un camion per mettere in salvo le tante persone che ora stavano nel nostro accampamento. Quando se ne andarono, salutandoci e affermando che Dio avrebbe concesso a noi tutti una lunga vita, io infine crollai e piansi per il mio paese. Rachel e la sua famiglia restarono, ma giovedì scorso la sorella di Rachel chiamò da Nakuru per dire che il suo principale era riuscito a noleggiare un camion per condurli via il giorno dopo se ci fosse stato modo di raggiungere la stazione di polizia del villaggio. Rachel era incerta se andare o rimanere e suggerì che noi tutti avremmo dovuto pregare insieme. Stavamo in cerchio sotto le stelle: la famiglia Cristiana Kalenjin, due guardie notturne musulmane ed io, non un seguace di qualche particolare fede. Pregavamo per il Kenya e per un miracolo. Venerdì, nella luce rosa e arancione dell’alba, ci stipammo tutti nella mia Land Rover, trascurando il fatto che un pneumatico stava per sgonfiarsi, e io li condussi alla stazione di polizia. Più tardi appresi che la famiglia di Rachele si era rifiutata di partire sul camion. Incapace di reprimere il mio senso di fastidio, la contattai. “E’ stato perché tutti i nostri vicini Kikuyu ci hanno fermato,” ha detto. “ Sono venuti al camion e hanno scaricato tutti i nostri bagagli, dicendoci che questa è la nostra casa, che non dovevamo partire e che si sarebbero presi cura della nostra casa, dei nostri averi e di noi……E’ un miracolo.”

Articoli tratti da Korogocho.org

Immagini tratte dal blog InsightKenya

02 febbraio 2008

La situazione a Nyahururu


Notizie dall'
AssociazioneSaintMartin di Nyahururu, Kenya.

"Molti
mi hanno chiesto di aiutarli a capire quello che sta succedendo da queste parti: è tutto un po’ confuso, ma provo a dire qualcosa. Prima però vorrei condividere con voi una lettera che ho ricevuto in questi giorni:
"Mi chiamo Cher, sono una giovane donna di 24 anni e sono kalenjin. Sono cresciuta in mezzo a gente kikuyu e i miei amici d'infanzia sono tutti kikuyu. Abbiamo giocato e siamo andati a scuola assieme. Anche adesso la maggioranza dei miei amici sono Kikuyu.Nonostante questo i miei genitori mi hanno sempre racco
mandato di stare attenta ai kikuyu perché anche quando sembrano persone per bene, sono i nostri peggiori nemici. E così, sono cresciuta con la mentalità che questi miei compagni di vita in realtà sono i miei nemici. Ricordo la rabbia del mio papà quando mio fratello iniziò a frequentare una ragazza kikuyu. Diceva che le donne kikuyu uccidono i loro mariti e che non avrebbe permesso in nessun modo che entrasse un nemico in casa. Mio fratello fu costretto a lasciare la sua fidanzata. Ricordo anche il giorno in cui tornai a casa da scuola assieme a due ragazze kikuyu mie compagne di classe. La scuola chiudeva un paio di giorni e loro abitavano lontano e non avevano il tempo per tornare alle loro case. Furono giorni molto belli. Quando tornammo a scuola, le mie amiche mi confidarono i timori che avevano prima di venire a casa mia. Dissero che i loro genitori le avevano messe in guardia molte volte di tenersi alla larga dalle case dei kalenjin perché sono persone pericolose e pronte ad uccidere. Io non ho avuto il coraggio di dire loro che i miei genitori dicevano le stesse cose dei kikuyu. Riconosco nel mio cuore un odio profondo contro i kikuyu per tutto quello che sta succedendo in Kenya. Ne chiedo davvero perdono. In realtà i kikuyu non mi hanno fatto mai nulla di male, ma sento di aver ereditato questo odio dalla mia famiglia. Forse è responsabilità delle persone giovani imparare a perdonarci e ad accoglierci per dimostrare ai nostri genitori che il loro insegnamento impregnato di odio e avversione era sbagliato. Sono convinta che non esista una tribù migliore dell’altra e che siamo tutti uguali...."
Questa lettera di Cher racconta quello che è nascosto nei cuori, quello che non si vede. Quello che invece si vede è una guerra tra fratelli che è iniziata a Kisumo e a Eldoret dove i Luo e i Kalenjin hanno reagito ai risultati elettorali cacciando dalle loro città i Kikuyu. La rabbia e il risentimento covati per molti anni
sono emersi in un desiderio di rivalsa che poi è degenerato in una violenza cieca e distruttiva: case, attività commerciali e auto dati alle fiamme, violenze sessuali, omicidi. I kikuyu sono fuggiti dando vita al più triste esodo della storia di questo paese e trovando rifugio prevalentemente nella città di Nakuru. Da qui moltissimi sono partiti per trovare ospitalità nei nostri altopiani. Abbiamo cercato di mobilitare le nostre comunità per provvedere ai bisogni di migliaia di rifugiati. Il Saint Martin si è fatto carico anche di mettere a disposizione personale preparato all’ascolto delle persone che avessero subito traumi gravi.
E così si è aperto l’inferno della vendetta tra i kikuyu rimasti a Nakuru. Giovedì 24 gennaio, poche ore dopo la stretta di mano tra Kibaki e Raila in presenza di Kofi Annan, tre kalinjin sono stati uccisi a Nakuru. Immediata la risposta della comunità Kalenjin che ha incendiato decine di case Kikuyu, i quali a l
oro volta hanno iniziato a bruciare le case e le attività commerciali degli avversari. Mentre aumentava il numero dei morti da entrambi gli schieramenti, le ritorsioni si inasprivano tra i kikuyu: venivano puniti anche i kikuyu stessi che in qualche modo avessero aiutato i “nemici” a fuggire oppure offerto loro ospitalità. I kikuyu delle vicine città di Naivasha, Gilgil, Subukia, non hanno tardato a seguire il triste esempio di Nakuru. L’ondata di violenza è arrivata anche nei nostri altopiani. Domenica 28 gennaio ci sono stati degli scontri nella nostra città, che hanno seminato paura e terrore. Due persone sono state uccise nel villaggio di Gatundia. Domenica sera, tutti i non kikuyu hanno cercato asilo nella caserma di polizia: centinaia di persone ammassate al freddo e terrorizzate da quello che sarebbe potuto succedere. I volontari del Saint Martin si sono organizzati e hanno allestito un campo di emergenza in quattro ore procurando tende, coperte e cibo. I volontari sono tutti Kikuyu e per questo loro impegno ad aiutare i “nemici” hanno rischiato rappresaglie. Lunedì sono arrivate al Saint Martin le minacce: i volontari sono stati costretti a nascondere il furgone dalla parte opposta della città, perché un gruppo di fanatici erano intenzionati ad organizzare un agguato per bruciarlo. Siamo diventati vittime di una persecuzione promossa da pochi ma capace di influenzare molti: ci viene negato il trasporto con i mezzi pubblici, minacciano di dare alle fiamme gli ambienti dove lavoriamo, si dice in giro che il Saint Martin aiuta solo i “nemici” e abbandona i kikuyu rifugiati negli altri campi profughi, che invece noi abbiamo continuato a servire senza sosta. Nonostante le apparenze non corriamo nessun pericolo. È stata messa in piedi una strategia del terrore: cercano di diffondere paura, puntano a fiaccare e scoraggiare chi lavora per le persone che appartengono ad altre tribù. Lo scopo finale è poter isolare i non kikuyu e costringerli ad andarsene. Otieno è un Luo, ma è sempre vissuto in questa terra. È una persona pacifica e piena di iniziativa: ha saputo mettere in piedi un complesso abitativo notevole, dal quale ricava una rendita che gli permette di vivere. Le sue case sono state prese di mira e gli inquilini le hanno abbandonate per paura che potessero venire bruciate. Alla fine anche Otieno è stato costretto ad andarsene per trovare ricovero sotto le tende del campo profughi. La sua prima preoccupazione non è stata di trovare una sistemazione per la sua famiglia, ma ha consegnato le chiavi della sua casa, rendendola disponibile per le molte famiglie kikuyu costrette nei campi profughi. Non era difficile indovinare che avrebbe voluto ricevere un affitto dal Saint Martin per rendere possibile l’operazione, e invece, ci ha assicurato che non voleva nulla e desiderava soltanto che altri bambini non soffrissero quello che dovevano soffrire i suoi bambini. Lo spirito di Otieno è la ragione per cui il Kenya ce la farà ad uscire da questa notte senza stelle. La sua è una luce capace di illuminare l’oscurità e fare rinascere la speranza che è possibile rispondere al male con il bene. Anzi, è l’unica via degna dell’uomo e capace di elevarlo dalla follia della vendetta. C’è una profondità di bene nascosta nel cuore di molti, e spesso fatica solo a trovare la strada per potersi esprimere."

Don Gabriele Pipinato, presidente dell'AssociazioneSaintMartin

Immagini tratte da InsightKenya