31 agosto 2007

L'unione fa la forza


In Texas una ragnatela gigante



Una ragnatela che si estende per quasi 180 metri è diventata a Wills Point, in Texas, la vera attrazione del locale parco
naturale sul Lago Tawakoni. Gli stessi entomologi sono rimasti stupefatti dalla sua estensione, che è il prodotto di una comunità di ragni che si sono coordinati per realizzarla.

Articolo tratto da Repubblica.it

Ogni tanto...


Texas, graziato Foster: per lui si era mobilitato il mondo


Kenneth Foster non sarà giustiziato. Il gvernatore del Texas Rick Perry ha deciso di commutare la sua pena in ergastolo. La grazia arriva a meno di 6 ore dalla prevista iniezione letale. Il governatore del Texas ha così accolto la raccomandazione del “Board of pardons and paroles”, la commissione incaricata di valutare le richieste di grazia. Il parere del Board, i cui componenti sono nominati dal governatore, non era vincolante per Rick Perry.
Ma la raccomandazione, del tutto inconsueta, arriva con un voto a grande maggioranza: 6 membri della commissione su 7 avevano chiesto di bloccare l’esecuzione.

Foster, attualmente nel braccio della morte di Huntsville, in Texas, condannato nel 1997, era accusato senza nessuna prova e contro ogni verosimiglianza, di un delitto di cui è stato soltanto spettatore, senza esserne complice, mandante, e tanto meno esecutore materiale. Foster era stato condannato in base a una controversa legge del Texas, la Law of Parties, che estende ai casi di pena capitale la responsabilità penale dei complici.


Articolo tratto da L'Unità.it

30 agosto 2007

Posto sbagliato al momento sbagliato...


Texas, fece fuggire un amico: condannato a morte

Il Texas di Bush continua la corsa al cappio. Il boia di Huntsville fa gli straordinari questa settimana con tre esecuzioni in tre giorni. Martedì DaRoyce Mosley, un detenuto di 32 anni condannato per l'assassinio di una donna ha ricevuto l'iniezione letale dopo avere atteso per cinque ore l'esito del suo ultimo appello. Poi è stata la volta di John Joe Amador, condannato per l'assassinio nel 1994 di un tassista di San Antonio. Giovedì dovrebbe toccare a Kenneth Foster, il detenuto al centro di una mobilitazione internazionale in quanto è finito nel braccio della morte per aver aiutato a scappare un amico che aveva appena commesso un assassinio.
Anche l´Italia fa la sua parte. «La giustizia non deve mai equivalere a vendetta, ma salvaguardare sempre la dignità e la sacralità della vita umana», dice in una nota il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha ricevuto una lettera aperta dal comitato per "Kenneth Foster". Nel sottolineare che «l'Italia è da anni in prima fila nell'azione internazionale contro la pena capitale, coerentemente con la più alta tradizione giuridica del nostro Paese», il Capo dello Stato ricorda che «l´Italia si accinge, insieme all'Unione Europea, a presentare una risoluzione per la moratoria delle esecuzioni e l'abolizione della pena di morte alla 62esima Assemblea Generale delle Nazioni Unite».
Il Colosseo a Roma sarà illuminato in serata per ribadire l´impegno della città per la moratoria internazionale delle esecuzioni capitali nel mondo. Lo ha annunciato il sindaco Walter Veltroni in un messaggio inviato all'associazione "Nessuno Tocchi Caino", in occasione del conferimento del premio "Abolizionista dell'Anno" al Presidente del Ruanda, Paul Kagame. «Un gesto - scrive Veltroni- che vogliamo dedicare anche alla richiesta di sospendere l'esecuzione della pena a Kenneth Foster Jr, attualmente nel braccio della morte in Texas, condannato nel 1997, e accusato senza nessuna prova e contro ogni verosimiglianza, di un delitto di cui è stato soltanto spettatore, senza esserne complice, mandante, e tanto meno esecutore materiale».
«Sono fermamente contrario alla pena di morte ed invoco un atto di clemenza per Kenneth Foster», fa sapere il ministro delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro. «Togliere la vita ad un condannato -prosegue il ministro - è una forma estrema che non condivido e che reputo come una barbarie che non si addice ad uno stato di diritto».
A Huntsville intanto una folla si sta radunando per l´ultimo tentativo di protesta contro l´esecuzione. Appena una settimana fa, però, è stato superato il traguardo delle 400 iniezioni letali da quando lo stato della stella solitaria ha ripristinato nel 1982 la pena capitale.

Articolo tratto da L'Unità.it

29 agosto 2007

Pubblica Gogna


Spacciatore legato e cosparso di piume

Nell'Irlanda del Nord torna l'incubo delle violenze fra cattolici e protestanti.
Due ignoti "giustizieri" umiliano un 30enne (appendendogli al collo «Sono un vile spacciatore») e inviano la foto al Daily Mail.

Legato a un lampione, cosparso di catrame e piume ed esposto alla pubblica gogna, con un cartello appeso al collo con su scritta la ragione di un simile trattamento. Questa l’umiliazione in stile medievale inflitta domenica a un uomo di circa trent’anni, sospettato di essere uno spacciatore, da due sconosciuti «giustizieri» mascherati in una strada di Taughmonagh, a sud di Belfast, dopo che la Polizia si era rifiutata di intervenire contro di lui. Era dai tempi dei «Northern Ireland’s Troubles» (i trent’anni di ripetute violenze fra cattolici e protestanti che hanno causato migliaia di morti nel Nord Irlanda, ndr) che non si assisteva ad azioni tanto brutali. I due uomini incappucciati hanno preso la vittima e l’hanno legata a un lampione, poi hanno cosparso il suo capo di catrame e vi hanno sparso sopra delle piume, prese da un cuscino, mentre una piccola folla (che comprendeva anche donne e bambini) assisteva alla terribile scena. Infine, hanno infilato al collo del ragazzo un cartello con la scritta «I’m a drug dealing scumbag» (che si può tradurre come «sono uno spregevole spacciatore») e hanno poi mandato le foto della pubblica punizione (prese con un telefonino) ai giornali, fra cui il Daily Mail.
La polizia e le forze politiche hanno definito l’episodio «un atto di barbarie», ma l’UDA (Ulster Defence Association) ha negato qualunque coinvolgimento, sebbene il gruppo armato nato nel novembre del 1971 sia particolarmente influente in quella zona della città. Ma Alban Maginness, un membro del SDLP (partito socialdemocratico e laburista), non crede all’estraneità dell’UDA: «E’ chiaro che ci sono loro dietro a tutto questo – ha spiegato al Times - perché questo genere di fatti non capitano spontaneamente. È stata una provocazione». Non la pensa così, invece, Frankie Gallagher dell’UPRG (Ulster Political Research Group), ovvero la faccia politica dell’UDA: «Abbiamo detto alla gente di Taughmonagh di andare dalla polizia, ma la comunità ha risposto in questo modo perché non ha fiducia nelle forze dell’Ordine. E l’inattività che causa frustrazione e rabbia fra i cittadini».
L’UDA è sotto la pressione del governo dell’Irlanda del Nord, che ha dato al gruppo paramilitare un ultimatum di 60 giorni per seguire gli esempi dell’IRA e dell’Ulster Volunteer Force e porre così fine alle attività criminali. «Un simile comportamento non è ammissibile in una società civilizzata», ha commentato il ministro dello Sviluppo Sociale, Margaret Ritchie. Gallagher ha chiesto un incontro urgente con il ministro, nel tentativo di evitare altri episodi di ingiustificata violenza.
Stando al rapporto della Polizia locale, una pattuglia sarebbe intervenuta a Finwood Park domenica notte, ma non avrebbe trovato alcuna vittima né qualcuno si sarebbe ancora fatto avanti per denunciare alcunché. Il ricorso al catrame e alle piume sarebbe una punizione vecchia di almeno 1000 anni e risalirebbe addirittura alla terza crociata, sebbene sia diventata famosa durante la Guerra d’Indipendenza americana, quando veniva usata per punire chi era accusato di fedeltà all’Inghilterra.

Articolo tratto da Corriere.it

Mah...per fortuna che tengono alla privacy e ai diritti individuali...

28 agosto 2007

Sindrome da accerchiamento


Il "trova-cattivi": negli Usa è già on line


«Siamo americani. Lavoriamo duro, ci piacciono gli sport, amiamo i barbecue familiari, e ci meritiamo di rimanere in pace». Con queste parole si apre il sito «Peace of mind offender locator » (www.thevision2020.com ).Il "trova-cattivi" americano: il portale che permette di localizzare i potenziali aggressori della «pace dello spirito», in pericolo soprattutto se in giro ci sono «sex offender», molestatori sessuali. Chi infatti meglio di loro può incarnare una minaccia concreta per la tranquillità delle famiglie a stelle e strisce. Ed ecco che i nomi, le foto e la residenza dei 650mila cittadini condannati per reati sessuali vengono resi noti e inseriti all'interno di una mappa virtuale degli Stati Uniti. Digitando il proprio indirizzo, l'utente che vuole collegarsi al servizio scoprirà i "cattivi" che abitano nei dintorni, svelerà i ceffi poco raccomandabili del vicinato. Così il gioco è fatto, e la sicurezza della «pace dello spirito» garantita: se conosci il potenziale aggressore, e soprattutto sai dove abita, lo eviti.
L'accesso al portale è gratuito: non occorre nemmeno registrarsi. Del «sex offender» che abita nei paraggi, oltre all'eloquente primo piano, è indicato insieme alle generalità anche il tipo di reato per cui è stato condannato. Nella lista sono presenti cittadini che hanno già scontato la propria pena: tuttavia non è previsto per loro alcun oblio della colpa. Non per questo tipo di reati. Certo il sito non ha la presunzione di condannare nessuno, cerca solo di essere, secondo le intenzioni, uno strumento utile per tutti coloro che vogliono difendersi da chi in passato ha già aggredito, sequestrato, molestato.
Collegati alla mappa on line ci sono anche opzioni aggiuntive: un servizio di allerta che comunica all'utente registrato se qualche nuovo pregiudicato si è trasferito nei dintorni e un sistema Gps mobile che permette la localizzazione degli spostamenti di una persona nel momento in cui questa porta con sé un particolare strumento elettronico. È inoltre possibile creare una sorta di «confine elettronico», e ogni qual volta il soggetto in osservazione lo viola, si viene tempestivamente avvertiti. Per genitori apprensivi che vogliono avere gli spostamenti dei figli sotto controllo.

Articolo tratto da IlSole24Ore.com

I paladini dell'ordine mondiale si sentono sempre sotto assedio...

27 agosto 2007

Il paese dei balocchi...


Nella "Disneyland lombarda" festini horror e molti rave clandestini


Il Grande Ufficiale Conte Mario Bagno nacque a Vercelli il 24 febbraio 1901. Dopo il matrimonio con Edmea Beretta, si affermò come impresario edile, specializzandosi nelle realizzazione di strade e infrastrutture. Acquistò il borgo di Consonno negli Anni 60, a 22.500 lire. Nel 1961 il consiglio comunale di Olginate approvò il primo progetto: la costruzione di una strada. Bagno lasciò l'area in eredità alla società di famiglia, all'epoca controllata dai due figli, Maria Teresa e Osvaldo. Da città del divertimento a ghost town. Dalla stradina tutta tornanti, che si arrampica da Santa Maria Hoè al borgo di Consonno, passa al massimo una macchina per volta. Quindici chilometri di prati e boschi di castagno. Poi, svoltata l’ennesima curva, il panorama si apre all’improvviso: un portone decadente in stile medievale conduce a quel che resta della «Città dei balocchi».
Paese fantasma, sospeso sui pendii verde smeraldo che scendono verso «quel ramo del lago di Como». Che non è quello di villa D’Este e di George Clooney, ma il cugino lecchese. All’orizzonte la cresta frastagliata del Resegone. Per gli occhi pagode in stile cinese, minareti arabeggianti, fontane rinascimentali. Per le orecchie un silenzio quasi spettrale. Con le colonne doriche che si sgretolano sotto il sole, l’asfalto aggredito dalle erbacce e i vetri delle finestre distrutti. E’ quel che resta di Consonno, frazione di Olginate, la Las Vegas della Brianza, cittadella del divertimento costruita mattone dopo mattone, e stravaganza dopo stravaganza, negli Anni 60. Creatura, ma forse sarebbe meglio mostruosità, partorita dalla fervida immaginazione del commendator Carlo Bagno, imprenditore biellese trapiantato a Milano. Fino ad allora magnate delle betoniere, del cemento e delle strade provinciali.
Bagno aveva capito che il boom economico avrebbe portato ricchezza. E che la vera svolta non sarebbe stata rispondere alle esigenze dei consumatori, ma crearle. Sognava un parco dei divertimenti per la Milano del dopoguerra: spettacoli notturni, feste danzanti, giochi d’acqua, fuochi artificiali. A metà fra un tempio votato allo shopping e un casinò, con un retrogusto di decorazioni kitsch e pacchianità. Arte e spettacolo, un po’ Walt Disney un po’ Silvio Berlusconi, quando ancora bazzicava le navi da crociera. Il sogno è durato il tempo di due album dei Dik Dik, uno dei tanti gruppi che si contendevano il palcoscenico della sala da ballo. Oggi della gloriosa balera rimane solo un’insegna al neon blu, barcollante fra una colonna del porticato e l’altra. Come tutto il resto.
«Il conte Carlo Bagno era un uomo particolare - racconta Roberto Milani, ultima sentinella del borgo con la sua famiglia -. Si svegliava la mattina e faceva costruire un arco sormontato da un cannone napoleonico. Il giorno dopo non lo convinceva più. E lo faceva abbattere. Nei suoi progetti la cittadella sarebbe dovuta crescere anno dopo anno». Campi da calcio, piscine, campi da tennis e poi un minigolf, un piccolo circuito automobilistico, una pista da pattinaggio e uno zoo. Probabilmente Bagno stava esagerando. Una frana, causata proprio dai lavori di costruzione, che avevano deturpato la collina, bloccò l’accesso al «Paese dei balocchi». L’inizio della fine. La burocrazia esigeva i suoi tempi, il compromesso con il Comune per costruire una nuova strada non arrivava e gli Anni 70 avanzavano al ritmo della Premiata Forneria Marconi. La Milano da bere era alle porte: la musica, e il via vai di Alfette e di 128 Rally, abbandonarono il piccolo borgo a se stesso. I cartelli di benvenuto - «A Consonno il cielo è più azzurro», «A Consonno è sempre festa», «Consonno è il paese più piccolo ma più bello del mondo» - rimasero ad arrugginirsi sul bordo della strada.
La «ghost town» diventò meta di qualche affezionato del genere horror, di coppiette in cerca di intimità e di ragazzi a caccia di un po’ di adrenalina a buon mercato, sulle orme dei Goonies. Nel frattempo gli avvocati della «Immobiliare Consonno Brianza» e i consiglieri comunali di Olginate cercano di trovare il bandolo della matassa, di riqualificare il belvedere sul lago di Como. Anche le associazioni ambientaliste cominciano ad alzare la voce. Nulla da fare: tutto rimane così com’è. Nel 1981 decidono di ristrutturare una parte del Grand Hotel Plaza per costruirci una casa di riposo per anziani: la «Associazione servizio anziani di Consonno». Infermieri e degenti dell’ospizio rimarranno nel paese per oltre 20 anni, ultimi custodi di questo microcosmo spettrale.
Nel maggio 2007 la decisione di trasferire anche la casa di cura a Introbio, nella vicina Valsassina. Tutto finito? No. La «ghost town» torna ad essere un’attrazione, ma per un pubblico diverso. Negli ultimi mesi Consonno è diventata una delle mete per organizzare «rave» e festini «after hour». «Non è rimasto più nessuno e non vediamo niente di buono - continua Roberto Milani -. Anzi, c’è sempre più spesso gente che viene qui la notte a fare un casino bestiale. Rave, o come li chiamano: droga, alcool e musica a tutto volume». La voce si sparge su Internet, tramite i blog e gli sms: arrivano a centinaia da tutto il Nord Italia. Due mesi fa, esasperati, i Milani hanno chiamato i carabinieri. E’ arrivata una gazzella, ma i ragazzi erano quasi 2 mila. Ogni weekend le stesse scene. «Mi tocca stare sveglio a fare la guardia perché vogliono distruggere quel poco che è rimasto. Ho parlato con gli avvocati dei proprietari, ma loro se ne lavano le mani». Poche settimane, e anche l’ospizio è stato sventrato e ricoperto di graffiti.
Pinocchio l’aveva pagata cara: raggiunto il paese dei balocchi, si era trasformato in un asino. Per sua fortuna, a toglierlo dai guai, c’era sempre la fata turchina. A Consonno la fata non si è mai fatta vedere. E il paese dei balocchi è rimasto dov’è. Pericolosamente in bilico fra realtà e immaginazione, come un’Atlantide di provincia condannata per l’eternità.

Articolo tratto da LaStampa.it

24 agosto 2007

Guida antimobbing


Come difendersi dal capo aguzzino arriva il manuale antimobbing

Esce in Italia "Il metodo antistronzi", bestseller internazionale sul tema. Dieci regole per migliorare l'ambiente di lavoro e consigli per sopravvivere
.

Il titolo è furbo, non c'è dubbio. Può attrarre, respingere, ma di certo non lascia in
differenti. La verità però è un'altra: ci sono termini, definizioni, parole, anzi parolacce, che è impossibile parafrasare o tradurre con un sinonimo.
Come "stronzo" ad esempio, insulto talmente completo e preciso da non avere paragoni lessicali. E forse si deve proprio al titolo "Il metodo antistronzi"
, se un serissimo libro sul mobbing nei luoghi di lavoro, scritto dallo psicologo americano Robert I. Sutton, sia diventato in pochi mesi un successo mondiale con milioni di copie vendute, e consigliato addirittura come libro di testo nelle facoltà di management ed economia aziendale. Senza contare il blog di riferimento che si è trasformato in una sorta di gruppo di auto-aiuto on line per i "mobbizzati" di ogni razza e nazione, 12 milioni soltanto nell'Unione Europea, un milione e mezzo nel nostro paese. Il 31 agosto il saggio di Robert Sutton uscirà in Italia, pubblicato da "Elliot edizioni" nella collana Antidoti, e il nome della "serie" non sembra davvero scelto a caso.
Perché la novità del "Metodo antistronzi", libro rivolto in modo orizzontale a chi nelle aziende lavora e a chi le dirige, è la dimostrazione, cifre alla mano, che la presenza di soggetti (gli stronzi) che si comportano in modo arrogante, vessatorio, e umiliano e stressano gli altri, comporta per l'azienda stessa una perdita economica secca.
Le statistiche dell'Ispesl, Istituto per la prevenzione e la sicurezza, dicono che la produttività di una persona oggetto di mobbing, cala di oltre il 70%.
Dunque,
questa è la tesi, è davvero perdente assumere degli stronzi, o ancora peggio metterli nei posti chiave.
Robert Sutton professore di management alla Stanford Engineering School, spiega anche perché sfidando l'impopolarità, abbia deciso di definire questa categoria di persone con il termine che ognuno di noi quando li incontra gli affibbia nel proprio cuore. "Scommetto che succede anche a voi. Ci sono tanti modi per chiamarli: prepotenti, maleducati, cafoni, bastardi, aguzzini, despoti... ma, almeno per quanto mi riguarda, stronzo è la parola che meglio di qualunque altra esprime la paura e il disprezzo che provo per questi personaggi".
Entrando nel dettaglio il primo suggerimento che Robert Sutton dà è quello di riconoscere gli stronzi. In qualunque ambiente.
Compito facile, perché diversi elementi accomunano i soggetti in questione: sono arroganti, si sentono superiori agli altri, compiono tentativi reiterati di invadere i campi dei colleghi rubando idee e incarichi, umiliano i sottoposti, fingono di ignorare lo status altrui.
E purtroppo tutte queste "caratteristiche" si concentrano spesso in figure di potere "intermedio", dice Sutton, capaci però di rendere un inferno i luoghi di lavoro. Perché il potere, ricorda lo psicologo americano, "genera stronzaggine". Le aziende quindi dovrebbero liberarsi di questi soggetti quanto prima, e a tal fine Sutton individua i 10 passi da compiere per "creare un ambiente di lavoro civile e produttivo", ricordandosi che "gli stronzi assumeranno altri
stronzi".
"In realtà - spiega Patrizio Di Nicola, docente di Sociologia all'università La Sapienza - Robert Sutton ha tradotto in modo accattivante quella che è oggi l'ossessione dei grandi gruppi americani.
E cioè essere considerati etici verso i clienti e verso i dipendenti, sia perché la stress-economy non paga più, sia perché i consumatori premiano chi ha buona fama. Infatti sono sempre di più le aziende che si dotano di un codice di correttezza interna.

Sul fronte del mobbing i dati sono chiari: se l'ambiente è ostile l'assenteismo cresce a dismisura, e il fatturato cala. Nel nostro paese, secondo le classifiche, i casi sono un po' meno che altrove, mentre abbiamo purtroppo la palma negativa per quanto riguarda le molestie sessuali verso le donne nei luoghi di lavoro".
Ok, ma se cosa fare allora per difendersi dagli stronzi? Le regole sono poche e facili: oltre naturalmente il tentativo di evitarli il più possibile, fondamentale è il distacco emotivo, la consapevolezza che il lavoro non è tutto, il crearsi "sacche" esterne di soddisfazione e tranquillità.
Una volta imparato a "resistere", scappate però, dice Sutton, fate di tutto per cambiare ufficio.
Consapevoli che prima o poi quello stronzo incontrerà qualcuno che gli presenterà il conto.


Articolo tratto da Repubblica.it

23 agosto 2007

Mascotte nazista...


Un film sul bimbo ebreo mascotte delle SS
L'incredibile storia del bambino che fu «il più giovane soldato del Reich».
I genitori uccisi, la fuga, un soldato che ne nascose le origini e gli mise una divisa.
Ora ha 70 anni e il figlio fa un film su di lui.


All’età di cinque o sei anni (lui stesso non ricorda con precisione la data di nascita) un ragazzino della Bielorussia con i capelli biondissimi e gli occhi cerulei, che si chiamava Ilya Galperin e come tutti i suoi familiari era ebreo, durante una brutale retata compiuta il 20 ottobre 1941 dalle SS naziste che avevano massacrato tutti i 1600 abitanti di origine ebraica del borgo agricolo di Koidanov (oggi Dzershinsk), riuscì miracolosamente a fuggire, passando attraverso la rete del campo di concentramento, dove era stato portato dopo la fucilazione del padre, e nascondendosi fra gli alberi di una vicina foresta. Nove mesi più tardi il bambino, scoperto da un militare, che per salvargli la vita gli aveva assegnato un’identità falsa ordinandogli di non rivelare mai a nessuno il suo vero nome, fu adottato dalle SS per oltre due anni, che credendolo ariano lo portarono con loro sul fronte russo come mascotte, con tanto di uniforme nazista e di fucile giocattolo.
Solo mezzo secolo dopo il protagonista di questa vicenda, che oggi si chiama Alex Kurzem, ha settant’anni passati e vive a North Altona, in Australia vicino a Melbourne, con la moglie, i figli e i nipoti, ha trovato la forza mentale per ricostruire con fatica il passato. Un passato sul quale la rete televisiva australiana ABC ha realizzato un film-documento e il figlio Mark, che vive in Inghilterra dove è docente di antropologia all’Università di Oxford, ha pubblicato recentemente un libro, The Mascot. «Delle mie origini e della mia storia – racconta Ilya/Alex – io non avevo mai parlato neppure a mia moglie Patricia. Le avevo detto soltanto che i miei, quando ero bambino, erano stati massacrati dalle SS e che venivamo dalla Bielorussia.
Poi, con il passare del tempo, mio figlio mi aveva convinto a cercare di sapere tutto quello che non ricordavo, o che avevo rimosso».
E’ stato così che, incoraggiato dal figlio antropologo, Kurzen dieci anni fa ha deciso di fare con lui un lungo viaggio in Europa alla riscoperta del proprio passato. E facendo ricerche nel poco che rimaneva dell’archivio dell’attuale Dzeshinsk e andando perfino a studiare gli archivi del periodo nazista in Lettonia, padre e figlio hanno ricostruito alla fine la verità. A cinque anni Ilya, ultimo nato di una famiglia di ebrei bielorussi sterminati dalle SS incredibilmente era stato «adottato» come mascotte del corpo di spedizione in Russia della Wehrmacht e, addirittura, fotografato più volte con l’uniforme nazista come modello di «soldato bambino», a scopi di propaganda.
Nei cinegiornali del Terzo Reich si può infatti riconoscere l’immagine di Alex quando aveva forse sei anni, vestito con l’uniforme delle SS completa di stivaloni di cuoio, fucile e di pistola giocattolo, che lo speaker definisce con voce marziale «il più giovane soldato del Reich».

L’adozione del piccolo orfano ebreo, da parte delle truppe che avevano praticato a Koidanov la «soluzione finale» voluta da Hitler, non era avvenuta certo per spirito umanitario.
«Dopo avere rivisto i luoghi della mia infanzia e quelle mie foto con la divisa - racconta Alex - tutto mi è tornato chiaro. Le SS, circondato il villaggio, misero in fila gli uomini ebrei e li fucilarono, uno per uno. Mi sono ricordato la voce di mia madre che fra i singhiozzi ci diceva sconvolta: ‘ecco, hanno ucciso vostro padre e domani tocchera a noi’. E io le gridavo piangendo: “io no, io non voglio morire!’».
Poi nella notte il bambino, incoraggiato dalla madre, fuggì e rimase da solo per tutto l’inverno, nel bosco. Passarono così nove mesi e alla fine un uomo consegnò il fuggitivo a una squadra di poliziotti della Lettonia, che collaboravano con i nazisti nel dare la caccia agli ebrei.
Ma uno di loro inaspettatamente, un sergente lèttone di nome Kulis, invece di mettere il ragazzino nel gruppo con la stella di Davide dei condannati alla fucilazione, gli propose una via di fuga, preparandogli un foglio di via con un nome falso prima di consegnare ai tedeschi quel patetico «orfano russo», ormai solo al mondo.

Poi la «sindrome di Stoccolma», che con il tempo crea un inaspettato legame fra il persecutore e la vittima e il carceriere, ha avuto il suo effetto.
Adesso però, a settant’anni passati, per questo superstite dell’Olocausto, al trauma infantile dell’avere avuto salva la vita dallo sterminio cancellando la propria origine, fino a diventare strumento inconsapevole di propaganda nazista, si aggiunge anche il trauma della non-accettazione dalla sua stessa gente. La storia di Ilya Galperin/Alex Kurzem, sostiene Phillip Meisel dello Holocaust Centre di Melbourne, avallando il sospetto di collaborazionismo, «non è credibile».

Articolo tratto da Corriere.it

22 agosto 2007

Enciclopedia libera


Su Wikipedia chi la fa l'aspetti


«Per quanto importanti possano essere queste istituzioni, non hanno esclusiva sulle voci che modificano». Risponde così Frieda Brioschi, presidente di Wikimedia Italia, alle intrusioni di Cia e Vaticano nelle voci dell'enciclopedia opensource il cui contenuto è creato e modificato direttamente dagli utenti. Le intrusioni non preoccupano Wikipedia. D'altra parte «il Vaticano non è l'unico autore delle voci sul Vaticano stesso. Fa parte del gioco: tutti possono contribuire, anche organizzazioni che intervengono sulle voci in maniera anonima». Anonima ma non irrintracciabile la fonte delle modifiche. Grazie ad un software di invenzione di un giovane studente della California Institute of Tecnology, Virgil Griffth, infatti, si può risalire all' "editor" di Wikipedia. Attraverso questo software (i cui risultati sono visionabili sul sito Wikiscanner) è possibile risalire all'Ip, l'indirizzo telematico del computer collegato ad Internet, e verificare così da quale pc è stato fatto l'intervento sull'enciclopedia online. È in questo modo che si è risaliti all'identità dei computer che hanno modificato le voci su Mahmud Ahmadinejad (il presidente iraniano) e Gerry Adams (il leader dell'ala politica dell'IRA): il primo appartenente agli uffici della Cia, l'altro a quelli del Vaticano. Ma la Brioschi fa sapere anche che «il fatto che istituzioni importanti come il Vaticano e la Cia siano attive su Wikipedia testimonia il valore del progetto». Certo quello che la presidente si augura è che lo facciano «in modo pertinente, posto che siano stati proprio loro a modificare alcune voci e non singoli utenti». Ma il codice creato da Griffith ha permesso di identificare anche altri editor e non solo sulla versione americana di Wikipedia. «In Italia» svela la Brioschi, «è successo che dal pc della Camera e del Senato siano state modificate le biografie di politici e sempre, per quanto ci consta, in maniera inappuntabile». Su wikiscanner.virgil.gr è possibile trovare curiosità sugli editor che hanno modificato l'enciclopedia, un elenco di più di 5 milioni di voci messe in relazione con il pc che le ha create o modificate. La Bbc fa sapere comunque che nella maggior parte dei casi si tratta di correzioni di refusi o inesattezze. In alcuni casi, invece, l'accesso ad alcune voci è stato utilizzato per eliminare materiale pericoloso o anche per oscurare materiale scomodo. In ogni caso Wikimedia dichiara di utilizzare lo scanner di verifica solo come «strumento statistico» e di confidare nella capacità di controllo delle centinaia di migliaia di utenti dell'enciclopedia online, autocontrollo che evita la diffusione di notizie false o la censura di informazioni scomode. «Poi è ovvio che, avendo informazioni su chi modifica le voci, ci invita a dare una maggiore occhiata». Giro di vite dunque dopo la scoperta delle intrusioni? La Brioschi assicura che Wikipedia «non attua mai censure preventive, semmai solo interventi a posteriori su voci controverse. Se vediamo che una voce diventa una specie di blog con decine di punti di vista contrastanti, la blocchiamo temporaneamente o chiediamo, a chi voglia modificarla, di registrarsi. Ogni misura, ci tengo a sottolinearlo, è sempre però di carattere temporaneo».

Il caso della C.I.A.

Pochi giorni fa il sito della Bbc riportava che con Wikiscanner si è risaliti alla fonte delle modifiche apportate alla biografia di Ahmadinejad su Wikipedia. Tra cui un "wahhhhhh" a precedere la sezione sul programma della sua presidenza. Sul profilo Wikipedia dell'utente che avrebbe apportato modifiche poco pertinenti alla biografia del presidente iraniano il sito ha posto questo avviso: Hai recentemente vandalizzato un articolo Wikipedia, ti chiediamo di non ripetere questo tipo di comportamento. Altri interventi un po' più innocui hanno interessato la voce dell'ex capo della Cia Porter Goss o di celebrità come Oprah Winfrey. Ma a tal proposito il portavoce della Cia fa sapere: «Non posso confermare che il traffico da voi citato provenga dall'Agenzia. Vorrei ugualmente sottolineare un argomento molto più importante: che la Cia trova la sua missione vitale nel proteggere gli Stati Uniti e che si concentra su questo obiettivo». Altri esempi di vandalismo politico online vengono dagli Usa. Da un computer del Partito Democratico, infatti, è partita la modifica al sito del conduttore simpatizzante repubblicano Rusch Limbaugh. Modifiche del tipo idiota, razzista, bigotto. L'indirizzo Ip risponderebbe al nome di Quartier generale del Partito Democratico. Anche in questo caso la smentita è stata immediata. Un portavoce del partito ha spiegato che il loro Ip è lo stesso di un altro comitato democratico.

Il caso Vaticano

Il sito della Bbc ha fatto sapere anche che da un computer del Vaticano è stato modificato il contenuto delle pagine su Gerry Adams, guida del partito repubblicano (cattolico) nord-irlandese. In particolare sono stati eliminati i link a dei quotidiani che rimandavano alla storia dei documenti trovati in un auto usata per un duplice omicidio nel 1971 con le impronte del leader dello Sinn Fein. Dalla Santa Sede hanno replicato che le accuse mosse da Wikipedia Scanner sono «accuse prive di ogni serietà». La motivazione è presto svelata. In molti hanno accesso ai computer vaticani, dagli impiegati ai visitatori. Le modifiche avrebbe potuto farle chiunque non certo la Chiesa o suoi rappresentanti. Ma la lista dei "terroristi" online è lunga e investe, scrive la Bbc, anche organizzazioni commerciali. Tra loro la Diebold, società che fornì le macchine per il voto elettronico per le controverse elezioni Usa del 2000, vinte da Bush sullo sfidante Al Gore con un discusso margine di 500 voti. Anche in questo caso, qualcuno non identificabile ha rimosso dei paragrafi su Walden O'Dell, dirigente della compagnia. In quelle righe c'era scritto che aveva lavorato per raccogliere fondi per la campagna di Gorge Bush. Nessun commento o spiegazione da parte della Diebold per questa interessata modifica delle informazioni. Un mese dopo altri paragrafi e link mancavano, quelli che rimandavano a storie sulle presunte manovre nelle elezioni del 2000. Aggiunte invece riguardano proprio il presidente americano. Da un computer della Bbc, ironia della sorte, qualcuno ha aggiunto alla biografia di George W. Bush la voce omicida di massa, e il suo secondo nome invece di Walker è diventato wanker (masturbatore). La lista è lunga ma per farla breve si potrebbe sintetizzare così: su Wikipedia chi la fa la aspetti, nessuno è padrone delle informazioni, nemmeno quando queste riguardano la propria autobiografia.

Articolo tratto da L'Unità.it

21 agosto 2007

Pedofili


La ricetta anti-pedofili di Sarkozy:"Ci vuole la castrazione chimica"

Il presidente francese si dice favorevole alle cure mediche per i condannati, anche dopo aver scontato la pena.
Mercoledì scorso a Roubaix un plurirecidivo appena scarcerato aveva violentato un bimbo di 5 anni.

Non ha paura delle parole, Nicolas Sarkozy, soprattutto se ai francesi ha promesso in primo luogo sicurezza, e se in questo caso a essere insicuri sono i soggetti più deboli, i bambini. Allora, di fronte a un problema come quello della pedofilia non esita a parlare di cure mediche e a evocare addirittura la castrazione chimica. L'annuncio della guerra alla pedofilia è avvenuto in pieno "stile sarkozista". Prima il presidente della Repubblica ha ricevuto all'Eliseo il padre del piccolo Enis, 5 anni, rimasto vittima mercoledì scorso di un pedofilo, plurirecidivo e appena scarcerato grazie a un abbrevio della pena. Poi ha riunito i ministri di Giustizia, Sanità e Interno. Infine, davanti alla stampa, ha dettato le nuove, dure, misure nella lotta alla pedofilia, misure che saranno pronte per il prossimo novembre. In primo luogo, per i condannati non sarà possibile alcun sconto di pena. Alla fine della loro detenzione, i pedofili, se ritenuti ancora pericolosi, dovranno andare in un "ospedale chiuso" per farsi curare. Quelli che lo vorranno, verranno sottoposti a un trattamento ormonale, ossia alla castrazione chimica. L'apertura del primo "ospedale chiuso per pedofili" è prevista per il 2009, a Lione. Al rientro dalle discusse vacanze americane, Sarkozy ha scelto quindi di puntare su un tema tutto interno, con un intervento destinato a rassicurare un Paese ancora scosso dal dramma di Roubaix, dove una settimana fa un pedofilo plurirecidivo, Francis Evrard, 61 anni, ha rapito e violentato in un garage un bambino di 5 anni. La polemica è divampata perché Evrard era uscito lo scorso 2 luglio da un carcere, dove era stato rinchiuso per 18 anni, dopo essere stato condannato a 27 anni per aggressioni sessuali nei confronti di minorenni. A rendere ancora più clamoroso il caso ci ha pensato oggi un medico del carcere di Caen, che ha riconosciuto di aver prescritto del Viagra a Evrard, perché sosteneva di avere "disturbi di erezione". Il medico si difende affermando di non "aver avuto accesso al dossier giudiziario" dell'uomo. Il padre del bambino non usa mezzi termini: "Se il medico gli ha prescritto il Viagra, bisognerà metterelo in prigione, perchè ha alimentato una bestia". E così Sarkozy ha indossato i panni dello sceriffo. Ha promesso "leggi severe" e ha detto che "predatori come Evrard non possono restare in libertà". Insomma, l'avere scontato interamente la pena non garantirà l'uscita dal carcere. A fine detenzione, il pedofilo dovrà essere esaminato da un collegio di medici. Se questi riconosceranno la sua pericolosità sociale, andrà in un ospedale chiuso, per essere curato. La ricetta del presidente è chiara. "Quelli che non accetteranno di essere curati - ha detto Sarkozy - resteranno nell'ospedale chiuso per tutto il tempo che i medici decideranno. Quelli che accetteranno potranno avere dei permessi per uscire, ma lo faranno portando un braccialetto elettronico, seguendo un trattamento ormonale". L'inquilino dell'Eliseo, sfidando il politicamente corretto, ha invitato tutti a non essere timidi con il linguaggio: "Chiamatela pure castrazione chimica, le parole non mi fanno paura".

Articolo tratto da Repubblica.it

Se queste persone sono malate, e rischiano di essere pericolose anche per gli altri, in qualche modo bisogna "aiutarle"! Anche se Sarkozy non mi è particolarmente simpatico, questa volta non posso dargli torto!

10 agosto 2007

Diplomazia...


Gentilini: "Pulizia etnica contro i culattoni"

Il prosindaco di Treviso dichiara guerra ai gay

L'ex sindaco sceriffo della Lega annuncia "un giro di vite" contro gli omosessuali:"Se ne andassero nei capoluoghi disposti ad accoglierli. Qui non li vogliamo"

C'è bisogno di iniziare una "pulizia etnica contro i culattoni". Con queste parole durissime Giancarlo Gentilini, prosindaco leghista di Treviso, ha dichiarato guerra agli omosessuali. Colpevoli, a suo dire, di aver trasformato il parcheggio di via dell'Ospedale in un luogo di incontro dove si consumano rapporti sessuali, suscitando le proteste degli abitanti della zona. "Darò subito disposizioni alla mia comandante dei vigili urbani affinché faccia pulizia etnica dei culattoni - ha detto ai microfoni di Rete Veneta l'ex sindaco sceriffo della Lega, riportano oggi i quotidiani locali - Devono andare in altri capoluoghi di regione che sono disposti ad accoglierli. Qui a Treviso non c'è nessuna possibilità per culattoni e simili".
Gentilini è famoso per essere stato più volte protagonista di polemiche infuocate, l'ultima delle quali dopo il pestaggio dell'onorevole Vladimir Luxuria da parte della polizia russa. A tenere banco soprattutto le sue dichiarazioni sugli extracomunitari, che aveva definito "perdigiorno", suggerendo che "i gommoni degli immigrati devono essere affondati a colpi di bazooka". E adesso ha annunciato un "giro di vite" contro gli omosessuali e gli scambisti.
"Useremo la videosorveglianza per stroncare il via vai di scambisti", denunciato dagli abitanti nel parcheggio "a luci rosse", dove è stata segnalata anche la presenza di prostitute.
"Darò disposizione di rinforzare le telecamere. Ma a me interessa piuttosto fare i controlli mirati - ha detto ancora Gentilini -. Quando la mia polizia vigilerà per la zona ci sarà un fuggi fuggi generale". Per il sindaco di Treviso Giampaolo Gobbo, le dichiarazioni del prosindaco "non sono preoccupanti. E' il suo modo di essere. Lui parla sinceramente, con un linguaggio concreto che tutti capiscono.
In questo caso si parla di decoro pubblico e noi cerchiamo di spostare gay, prostitute, coppie omosessuali o eterosessuali, fa lo stesso, che si scambiano effusioni sotto gli occhi di tanta gente". Un problema, spiega Gobbo, di dimensione nazionale, "e infatti ci stiamo attivando perchè venga cambiata la legge Merlin. Bisogna riaprire le case chiuse e creare quartieri a 'luci rosse' come succede nel resto d'Europa: garantiscono protezione sanitaria e tasse pagate".
Ma le associazioni omosessuali annunciano guerra. "Non possiamo - spiega Rossana Praitano, presidente del Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli - restare in silenzio dopo affermazioni agghiaccianti come queste. Per questo quereleremo il prosindaco per apologia di Nazismo.
Ci appelliamo al ministro degli Interni - aggiunge il presidente nazionale dell'Arcigay Aurelio Mancuso - affinchè intervenga nei confronti di una amministrazione che incita alla violenza"
E in risposta alle esternazioni di Gentilini, il deputato di Sinistra Democratica Franco Grillini propone di organizzare "subito un bel "kiss-in" a Treviso accompagnato dall'inaugurazione di una 'gay-street'".
"E' importante - spiega Grillini - dar vita subito ad azioni di protesta, come si è fatto a Roma per il famoso bacio omosessuale"

Articolo tratto da Repubblica.it

Questo è il livello di cultura dei nostri politici: il discorso sulla revisione della legge Merlin è giusto, in tutta Europa ci sono quartieri a luci rosse che evitano il "disagio" ai cittadini che comporta la prostituzione per le strade, ma i toni sono proprio da razzisti!
L'unico culo che vedo è quello che Gentilini ha al posto della faccia!

09 agosto 2007

Il treno dei matti


Il treno dei matti è partito per Pechino

"Il nostro viaggio verso la normalità" Da Mestre, 208 persone tra disabili, operatori e parenti sui vagoni che li porteranno in Estremo Oriente.
Alla ricerca dell'indipendenza, dell'autonomia, degli altri. La gioia, il coraggio di chi ha scelto di andare senz'altro motivo che il provarci.
Il convoglio organizzato da Anpis e "Le parole ritrovate" arriverà in Cina tra 20 giorni.

Alla fine è un attimo. Un lungo attimo - tutto quello che serve per caricare 208 persone e le loro valigie su un treno. Partenza Mestre, destinazione Budapest. E poi, l'Oriente. Un po' in ritardo sulla tabella di marcia ma "Quel treno speciale per Pechino" lascia la stazione veneta. Pazienti psichiatrici e operatori della salute mentale, familiari e cittadini, una troupe: tutti sui vagoni pensati e voluti dai movimenti Anpis (Associazione nazionale polisportive per l'integrazione sociale) e "Le parole ritrovate", con il patrocinio del ministero della Salute. Al binario sono baci a chi resta e battiti di mani, un poporopopopo da mondiali appena accennato. Gli altri viaggiatori (quelli che non fanno parte della carovana che attraverso l'Ungheria, la Siberia, la Mongolia e al Russia arriverà a Pechino in venti giorni) guardano.
"Questi i cinesi li fanno scappare", commentano. La stazione è invasa. Le ore prima di entrare negli scompartimenti hanno l'atmosfera delle gite. Luciana dell'agenzia di viaggi Bolgia che ha organizzato tutto respira dopo mesi di apnea. Antonio dalla Valtellina è uguale a Massimo Boldi e chiama tutti "cipollina". Piove e fulmina. Si parte, ma prima che da Mestre si è partiti da tutta Italia. Dalla Sardegna, sveglia alle 4. Da Frascati. Da Bologna. Da Trento, in pullman. E poi dalla Sicilia, dall'Umbria, dalla Lombardia, dalla Toscana, dalle Marche, dalla Liguria, da Roma, dal Trentino, dalla Campania. Con striscioni e zaini, con valigie pesanti come armadi. Colorati, stanchi. Entusiasti.
A Roma Termini sono in 47 e già sembrano un esercito festoso. Sono i sardi e i laziali. Magliette blu, sopra c'è scritto "In treno fino a Pechino? Ma siamo matti!". E una spilla da balia regge un cuore colorato: ognuno ha scritto il suo nome, "così ci aiuta a conoscerci". Perché molti di loro non si sono mai visti prima: la grande famiglia dei 208 si creerà stasera, e sarà una scommessa. L'Eurostar si mette in marcia, ed è già il momento di tirare fuori panini e focacce, pomodorini dell'orto (sistemati con cura in una scatola da scarpa) che sanno di campagna.
Da domani il cibo sarà quello di paesi lontani e sconosciuti: ungherese, russo, cinese. "Ma la cosa
a cui ho pensato di più - confessa Gianna, volontaria minuta ed energica - è stata: la porto la macchinetta del caffè?". Siamo italiani, insomma. Le caffettiere qualcuno le ha messe in valigia, c'è da starne certi. Nei preparativi pre-partenza sono state uno dei punti all'ordine del giorno, assieme alla possibilità di fare una spaghettata sulla Transiberiana. Nelle valigie, grandi e colorate, deve in effetti entrare una vita. Venti giorni sono tanti, venti giorni di viaggio così sono ancora di più. Spaventati? "No, entusiasti, mica ci ha obbligato qualcuno", dice Renato, volontario che non smette di sorridere. Non è una terapia, non è una cura: nessuno è stato scelto o costretto. "Siamo un gruppo di persone che parte", tutto qua, spiega Augusto, uno dei responsabili della delegazione che arriva dalla zona di Cagliari.
E il senso di questo viaggio sta proprio in questo, nel salire su un treno ciascuno - operatori, pazienti e familiari - con le sue paure e la sue aspettative. Senza la rigida divisione istituzionale dei ruoli "che spesso rende difficile comunicare", continua Augusto. Su questo si basa l'approccio del "fare assieme" di Anpis e "Le parole ritrovate": uno scambio di esperienze reciproche. "In questo senso è un viaggio verso la normalità", dice, normalità intesa come rapporti alla pari, senza che uno prevarichi sull'altro. La fiducia, è la chiave. Marisa sorride sotto il cappello: lei la fiducia l'ha dimostrata dicendo "parto", e dicendolo al volo. "Mi hanno dato due giorni di tempo. E io ho detto a chi rimane: 'O mi lasciate partire o parto'". La sua scommessa è questa, lasciare gli ambienti familiari per lanciarsi verso Pechino. Ritagliarsi un'indipendenza, farcela da sola.
Dare una mano, anche. Come Palmiro, che sa il francese e l'inglese e che farà da interprete. Lui ha vissuto 25 anni all'estero, tra Parigi e Londra. Ha l'animo del globe-trotter, gli si legge in faccia. E quando ne parla ride: "Sono stato ospitato e ho ospitato: so cosa vuol dire fare del bene, ricevere da mangiare quando non ne hai".
A Firenze diluvia e il treno si blocca. "Iniziamo bene", ridono tutti. Occhi assonnati e voglia di partire.
Dopo tre ore sembra di essere in viaggio da una vita, si gioca al paroliere e a briscola. Franca, vestita di rosa e con la foto di un bimbo nel medaglione, insegna i gesti per barare a una dottoressa.
Per passare le ore di Transiberiana hanno portato stoffa e ago per confezionare magliette da regalare e strumenti per un'intera banda: dieci flauti, tamburelli, organetto, armonica a bocca.
Poi ci saranno i gruppi di auto-mutuo-aiuto, dieci persone che si confrontano per superare un problema o imparare qualcosa: smettere di fumare, per esempio (e quando si sta quattro giorni di fila su un treno ce n'è bisogno).
In valigia camomilla e costumi da bagno, k-way e ombrelli.
Sette ore di fuso, latitudini che vanno dalla Turchia alla Scandinavia. Gianluca ha gli occhi scuri e curiosi e non vede l'ora di arrivare a Pechino. Paola, iride azzurro e sorriso continuo, chiede "siamo arrivati?" e se il treno di notte si ferma: "E noi dove dormiamo? Dormiamo in treno?". Venezia, Budapest, Mosca, Ulan Batur, Pechino. Ma prima c'è Mestre, la partenza dei 208. Già adesso, a scendere dal treno, l'effetto è da mal di mare. Senza scale mobili, le valigie spaccano le braccia sui gradini. "Una cosa da pazzi!", esclama qualcuno.

Articolo tratto da Repubblica.it

08 agosto 2007

Nella tana del lupo...


Banda Bassotti nei guai nel paese di Franco

Petizione dell'associazione delle vittime del terrorismo contro la formazione ska-punk per un brano che ineggia alle gesta dell'Eta. A Ferrol, nella città natale del Caudillo, rivolta contro il gruppo romano

Ancora nei guai la Banda Bassotti. Intesa come gruppo musicale romano «ska-punk». La fama del suo repertorio di canzoni, filo-sandiniste, filo-palestinesi e filo-basche l’ha preceduto a Ferrol in Galizia, città natale di Francisco Franco, dove ha in programma un concerto per l’11 agosto. Ma contro la tournée è scesa in campo l’Associazione delle Vittime del Terrorismo che ha scritto al sindaco perché cancelli l’appuntamento e ritiri i permessi all’organizzazione, la Soziedad Alkoholika.
A fare inorridire i firmatari della lettera è in particolare una canzone, scritta dal gruppo quattro anni fa, che s’intitola «Yup La La» e che inneggia alle gesta dell’Eta: «Te vitoreamos Eta, tu eres el brazo del pueblo!» (ti appoggiamo Eta, tu sei il braccio del popolo), recita uno dei ritornelli sotto accusa. O anche: «Mas vale che Madrid y el mundo lo aprendan de una vez, no se puede oprimir a los vascos eternamente» (meglio che Madrid e il mondo lo imparino una volta per tutte, non si possono opprimere i baschi eternamente). L’Associazione delle Vittime ha fatto sapere tramite i suoi legali che, se quel motivo risuonerà da un palco spagnolo, denuncerà il gruppo musicale italiano e chi gli ha permesso di esibirsi per apologia di reato: «Se il concerto non sarà annullato – scrivono i responsabili dell’associazione – le vittime del terrorismo saranno calpestate, offese e umiliate ancora una volta».
Anche la sezione locale del Partito Popolare ha preso posizione, ricordando che la Banda Bassotti, nella sua carriera, iniziata nel 1981, ha frequentemente appoggiato l’Eta e gli ambienti vicini ai terroristi. Anche la Soziedad Alkoholica, che ha invitato la band italiana, è accusata di simpatizzare con gli «etarri», devolvendo parte dei profitti dei concerti agli arrestati e producendo canzoni denigratorie nei confronti delle forze di polizia. Poco più di un mese fa un altro concerto della Banda Bassotti, in quel caso a Roma, a Villa Ada, si era concluso con scontri tra opposte fazioni estremiste.

Articolo tratto da Corriere.it

07 agosto 2007

Giovani e marketing


Il party-day dei teenagers che spaventa la polizia
Mille inviti su «MySpace». Rischio devastazioni negli appartamenti.
Appello per il 18 agosto: non lasciateli soli in casa.

Il «grasso Slim», «Fatboy Slim», disc-jockey di professione, aveva spedito 60 mila inviti sul Web e sulle onde della sua radio: «Sabato sera festa sulla spiaggia di Brighton, portate chiunque, ci divertiremo». Ma arrivarono in 250 mila, molti in più del previsto, e più del previsto si «divertirono»: fiumi di birra e di «ecstasy», gravi danni, 100 feriti nelle risse, un giovanotto fulminato da un infarto, e una donna morta dopo esser precipitata da una ringhiera. Succedeva 5 anni fa, qui in Gran Bretagna, ma ora molte famiglie temono che succeda di peggio, in varie città, e la polizia è già in allarme: perché la prossima festa di massa annunciata su Internet, per sabato 18 agosto, si svolgerà in centinaia di case private, dove chiunque potrà invitare chiunque e possibilmente dopo aver spedito altrove genitori e nonni. Unica condizione ufficiale: avere, chi invita e chi è invitato, più di 16 anni. «Che ne pensate, è una buona idea?», chiede sornione il cantante scozzese Calvin Harris, che tiene a battesimo il tutto insieme con la sua casa discografica. In più di mille hanno già risposto di sì, iscrivendosi all’evento. L’annuncio viene martellato su vari siti e blog, compreso il popolarissimo «MySpace »: 48 ore dopo l’appuntamento, il 20 agosto, sarà in tutti i negozi l’ultimo Cd di Calvin, intitolato «Facendo casino a casa mia»; e certo, è qualcosa in più di una coincidenza. Le istruzioni per la baldoria sono tanto vaghe, quanto intriganti: «Dev’essere un evento di massa, il più alto numero di feste private che si svolgono nello stesso momento e in tutta la Gran Bretagna. Dovrete solo organizzare il vostro party piccolo o grande a casa vostra: va bene un neo-rave, o un barbecue in giardino, o una festa tutta al femminile... Va bene tutto, purché sia in nome di Calvin e con qualche idea o tema che sia legata a lui: e poi fatecelo sapere, inviandoci foto, video, registrazioni. Chi avrà trovato l’idea più bella riceverà a casa la visita di Calvin, quella stessa notte». Non a mani vuote: è in palio un premio di 1.500 sterline, e il divo terrà anche un concertino «a domicilio» per il vincitore. Promesse da sogno, per i giovani fan.Ma anche segnali inquietanti, per i loro familiari e vicini di casa. Intanto la casa discografica, la Columbia, che è poi una branca della gloriosa Sony Bmg, ha già messo le mani avanti: «Non ci assumiamo responsabilità per eventuali danni alle proprietà o alle persone ». Qualcuno parla di eccessivo cinismo del marketing, di irresponsabilità: grandi incassi dal disco, enorme pubblicità, e se qualcosa va male paga qualcun altro. Ma l’azienda puntualizza: «In queste feste, si riuniranno dei gruppi di amici per celebrare lo spirito di baldoria che ha ispirato il nuovo album musicale. È previsto che le riunioni si limitino ad amici invitati personalmente, e se necessario si richiedano delle autorizzazioni. Noi raccomandiamo caldamente di non invitare estranei, di non pubblicizzare la vostra come una festa aperta a tutti: diversamente sarete responsabili di ogni conseguenza ». Basteranno, come misure preventive? Il diffidentissimo Times non ci crede: «Avviso per i genitori: non allontanatevi da casa, il 18 agosto ».E già si citano i casi tragicomici del passato: come quello di Rachel Bell, 17 anni, nella cui casa un pirata di «MySpace» spedì centinaia di ospiti sconosciuti. Bilancio: mobili bruciacchiati dalle sigarette e allegri ubriachi che scambiavano il guardaroba per un vespasiano. Un mese fa, andò anche peggio a un certo Robert Bowles: mentre era lontano in vacanza, qualche burlone da Internet gli spedì a domicilio un popolo festante, che poi se ne andò portandosi dietro televisori, lettori di Dvd, risparmi in contanti del papà e collane della mamma. «Furto, dite voi—ghignò un impiegato dell’assicurazione— ma perché la invitate a casa, certa gente?».

Articolo tratto da Corriere.it

02 agosto 2007

Le mamme imbiancano ed i figli crescono...


Madre di 81 anni punisce il figlio di 61: "Niente chiavi, nè paghetta"

La punizione è stata adottata dalla donna perchè il figlio non rispettava gli orari di rientro a casa e non l'avvertiva dei suoi spostamenti

Fuori di casa e senza paghetta. E' questa la punizione adottata da una madre esausta per il comportamento di un figlio che non rispettava gli orari di rientro a casa e usciva senza dirle dove stava andando. Un episodio non nuovo se non fosse per l'età dei protagonisti: lei ha 81 anni, è pensionata, e lui ha 61 anni, è celibe e disoccupato e vive ancora in famiglia.
È stata la donna, rivela l’edizione di Catania del quotidiano La Sicilia, a rivolgersi alla polizia di Caltagirone per cercare di «convincere quel testone» di suo figlio a «comportarsi bene con la sua mamma».
Pronta la replica di lui: «si comporta male» e poi «mi dà una paghetta settimanale insufficiente» e «non sa cucinare bene». Un agente del commissariato ha fatto da paciere e dopo avere raccolto gli sfoghi dei due li ha convinti a riprovarci e sono tornati a vivere insieme.

La donna ha continuato sfogandosi con la polizia, dopo aver lasciato il figlio fuori dalla porta dell'abitazione: «Mio figlio non mi rispetta non mi dice dove va la sera, e torna tardi a casa.
Per punirlo sono stata costretta a togliergli le chiavi di casa e lasciarlo fuori, dopo che aveva fatto ancora una volta le ore piccole.
Non è mai contento dei cibi che gli preparo ed ha sempre un motivo per lamentarsi. Così non si può andare avanti...».
«La colpa non è mia - è stata la replica del figlio della donna - è lei che si ostina a trattarmi male: mi dà una paghetta settimanale troppo modesta, e a me che sono disoccupato quei soldi non bastano. E, poi, cucina veramente male...».
L’intervento dell’agente di polizia è riuscito a smorzare lo scontro e così madre e figlio sono tornati a casa insieme, e lui ha riavuto chiavi e paghetta.

Articolo tratto da LaStampa.it

01 agosto 2007

L'intervento in Darfur e il volontariato come "redenzione"




Darfur, in arrivo 26mila caschi blu


Svolta al Palazzo di Vetro sul Darfur.
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato ieri all'unanimità la risoluzione 1969 sostenuta da Italia, Francia, Gran Bretagna, Belgio, Congo, Perù e Slovacchia, che prevede l'invio di una forza di peacekeeping di 26mila caschi blu nella tormentata regione occidentale del Sudan, teatro di un conflitto che dal 2003 ha causato oltre 200mila morti e due milioni e mezzo di sfollati.
La forza sarà composta sia da uomini dell'Onu sia dell'Unione africana e avrà il compito di contribuire a stabilizzare l'area.
La missione, il cui costo è stimato in due miliardi di dollari per i soli primi dodici mesi, affiancherà i 7mila uomini del contingente dell'Unione Africana presenti nella regione da oltre un anno, che però hanno avuto scarso peso nell'arginare il conflitto anche a causa delle loro limitate risorse.
Il nuovo contingente ibrido, United Nations-African Mission in Darfur (Unamid), sarà formato da 19.555 soldati e 6.432 agenti di polizia. Tutti opereranno sulla base del capitolo 7 della Carta Onu, che autorizza l'«uso della forza per proteggere i civili» e per «prevenire attacchi armati che ostacolino l'adempimento della missione».
I caschi blu delle Nazioni Unite e i baschi verdi dell'Ua potranno usare la forza anche «per proteggere il personale, le basi, le installazioni e l'equipaggiamento, per assicurare la sicurezza e la libertà di movimento del proprio personale e degli operatori umanitari». A differenza poi di quanto previsto dalle precedenti bozze, il contingente non potrà sequestrare le armi rinvenute, ma sarà solo autorizzato a monitorarne i traffici. Infine, la risoluzione impone a tutte le parti in conflitto di cessare le ostilità.
La missione stabilirà il quartier generale non più tardi di ottobre e il 31 dicembre avverrà il passaggio di consegne con il contingente Ua, che sarà integrato nella struttura Unamid. Unamid che sarà guidata dal generale nigeriano Martin Agwai, mentre il responsabile civile sarà l'ex ministro degli Esteri del Congo Rodolphe Adada. Il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon ha definito quella in Sudan una «operazione storica e senza precedenti, un chiaro e inequivocabile segnale » della volontà di aiutare il popolo del Darfur.
Grande soddisfazione emerge anche dal commento di Marcello Spatafora, il rappresentante permanente dell'Italia, uno dei Paesi co-sponsor della risoluzione: «È solo l'inizio, non la conclusione, di un nuovo impegno della comunità internazionale. La forza di mantenimento della pace rappresenta una componente essenziale dell'azione internazionale volta a riportare la pace in Darfur».
Dopo un estenuante braccio di ferro del Palazzo di Vetro con il Governo di Khartoum e la Cina, la decisione positiva sulla risoluzione, fortemente sostenuta da Gran Bretagna e Francia, aveva cominciato a configurarsi nei giorni scorsi, con Pechino che per la prima volta sembrava aprire spiragli. Il primo ministro britannico Gordon Brown in una visita ufficiale a Palazzo di Vetro aveva annunciato di attendersi un imminente accordo: «Lavoreremo sodo per raggiungere un'intesa. Ma bisogna essere chiari: se qualcuno blocca la decisione (il Governo di Khartoum ndr) e le uccisioni continuano, io e altri imporremo sanzioni ancor più rigide».
Il Governo sudanese, che aveva criticato duramente diversi aspetti delle precedenti bozze, alla vigilia del voto si era dichiarato soddisfatto della risoluzione approvata.

Articolo tratto da IlSole24Ore.com

Finalmente si sono decisi?!




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"Caro Occidente smetti di salvare l'Africa"
L'accusa di uno scrittore americano-nigeriano che vive tra Lagos e gli Usa. Nel mirino star, O.N.G. e mobilitazioni studentesche: "Basta umanitarismo sexy"

L'autunno scorso, poco dopo il mio ritorno dalla Nigeria, mi sono sentito chiamare da una disinvolta studentessa, una bionda che
portava intorno alla vita un filo di perle africane intonate ai suoi occhi azzurri. "Salviamo il Darfur!" gridava la ragazza da dietro un tavolo coperto di opuscoli che esortavano gli studenti a mobilitarsi subito: "Take Action Now! Stop Genocide In Darfur!". Data la mia avversione per la facilità con cui gli studenti dei college si imbarcano nelle cause più in voga, stavo passando oltre; ma la ragazza mi ha bloccato gridando: "Non vuole aiutarci a salvare l'Africa?".
A quanto pare, in questi ultimi tempi l'Occidente, oppresso dai sensi di colpa per la crisi che ha creato in Medio Oriente, si rivolge all'Africa per redimersi. Studenti idealisti, celebrità come Bob Geldof e politici come Tony Blair si sentono investiti della missione di portare la luce nel Continente Nero. E atterrano qui per partecipare a seminari e programmi di ricerca, o per raccogliere bambini da adottare - un po' come i miei amici di New York quando prendono la metropolitana per andare al canile municipale a cercare un randagio da portarsi a casa.
Questa la nuova immagine che l'Occidente dà di se stesso: una generazione sexy e politicamente attiva, che per diffondere il verbo privilegia i paginoni dei rotocalchi con in primo piano la foto di qualche celebrità, su uno sfondo di africani stremati. E non importa se a volte le star impegnate nei soccorsi hanno volti emaciati - sia pure volontariamente - quanto quelli degli affamati che vogliono soccorrere.
L'aspetto più interessante è forse il linguaggio usato per descrivere quest'Africa da salvare. Ad esempio, la campagna pubblicitaria di "Keep a Child Alive" ("Mantieni in vita un bambino"), che ha scelto lo slogan "Io sono africano", presenta le foto di celebrità occidentali, per lo più di pelle bianca, con la faccia dipinta di "segni tribali", sotto la scritta "I am African" in lettere cubitali; e in basso, in caratteri più piccoli: "Aiutaci a fermare la strage". Ma per quanto benintenzionate, le campagne di questo genere promuovono lo stereotipo dell'Africa come una sorta di buco nero di malattia e di morte.
Le
notizie di stampa si concentrano invariabilmente sui leader corrotti del continente, sui signori della guerra, sui conflitti "tribali", sul lavoro minorile e sulle donne sfigurate da abusi e mutilazioni genitali. Per di più, queste descrizioni sono spesso precedute da titoli del tipo: "Riuscirà Bono a salvare l'Africa?"
Oppure: "Brangelina salverà l'Africa?" Anche se i rapporti tra l'Occidente e il continente africano non sono più apertamente basati su idee razziste, questi articoli hanno molto in comune con i resoconti dei tempi d'oro del colonialismo, quando i missionari europei venivano inviati in Africa per portarci l'istruzione, Gesù Cristo e la "civiltà".

Non c'è un solo africano che come me non apprezzi gli aiuti provenienti dal resto del mondo. Ma ci chiediamo fino a che punto quest'aiuto sia genuino, o se non venga dato nello spirito dell'affermazione di una superiorità culturale. Mi sento avvilito quando prendo parte a manifestazioni di solidarietà ove il conduttore recita l'intera litania dei disastri africani, prima di presentare qualche personaggio, per lo più bianco e facoltoso, che elenca le sue iniziative in favore dei poveri africani affamati.Vorrei sparire ogni volta che sento uno studente benintenzionato descrivere le danze dei villaggi come segno di gratitudine delle popolazioni per i soccorsi ricevuti. O quando un regista di Hollywood gira l'ennesimo film sull'Africa con un occidentale nel ruolo di protagonista - mentre noi africani, che pure siamo esseri umani in carne ed ossa, veniamo usati al servizio delle fantasie proiettate dall'Occidente su se stesso.
Queste descrizioni, oltre a passare sotto silenzio il ruolo preminente del mondo occidentale in molte delle situazioni più disastrose del continente, ignorano il lavoro incredibile che gli africani hanno compiuto e continuano a compiere per risolvere i loro problemi. Perché i media parlano spesso dell'indipendenza "concessa agli Stati dell'Africa dai dominatori coloniali", dimenticando le lotte e il sangue sparso dagli africani per conquistarla?
Come mai l'impegno per l'Africa di Bono o Angelina Jolie sono oggetto di smisurate attenzioni, mentre l'opera di africani come Nwankwo Kanu o Dikembe Mutombo è praticamente ignorata?
E come si spiega che in Sudan le esibizioni da cow boy di un diplomatico Usa di medio livello ricevano più attenzione degli sforzi di numerosi Paesi dell'Unione africana, che hanno inviato aiuti alimentari e truppe, e si sono impegnati in negoziati estenuanti nel tentativo di raggiungere un accordo tra le parti coinvolte in questa crisi?
Due anni fa ho lavorato in Nigeria in un campo di accoglienza per profughi interni, sopravvissuti a una rivolta che ha causato un migliaio di morti e circa 200.000 rifugiati. I media occidentali, fedeli alla solita formula, hanno riportato le notizie delle violenze, ignorando però gli interventi umanitari in favore dei superstiti da parte dello Stato e dei governi locali, che non hanno potuto contare su molti aiuti internazionali. In molti casi gli assistenti sociali hanno speso, oltre al loro tempo, anche una parte del loro salario per soccorrere i connazionali in difficoltà.
Questa è la gente che lavora per la salvezza dell'Africa, come tanti altri in tutto il continente, senza alcun riconoscimento per il loro impegno. Il mese scorso, il Vertice degli 8 Paesi industrializzati si è incontrato in Germania con un gruppo di celebrità per discutere, tra l'altro, su come salvare l'Africa.
Io mi auguro che prima del prossimo incontro di quest'organizzazione ci si renda conto di una cosa: l'Africa non vuol essere salvata.
Ciò che l'Africa chiede al mondo è il riconoscimento della sua capacità di avviare una crescita senza precedenti, sulla base di un vero e leale partenariato con gli altri membri della comunità globale.

Articolo tratto da Repubblica.it

Niente da dire!