31 marzo 2008

Accensione della fiaccola olimpica


La fiaccola olimpica a piazza Tienanmen


La fiaccola olimpica arriva a piazza Tienanmen. Il simbolo dei Giochi olimpici brilla proprio sulla piazza che è la fotografia dei diritti negati in Cina, quella dove si trova il mausoleo di Mao ma soprattutto quella dove venne repressa con violenza la protesta del 1989. Ad accendere la fiamma è stato il presidente cinese, Hu Jintao, in una Pechino sotto alta sicurezza, per evitare qualsiasi incidente legato alla crisi tibetana. Proprio domenica, al passaggio della fiaccola in Grecia, ad Atene, quindici persone sono state fermate ed arrestate dopo che hanno sventolato striscioni pro-Tibet. Ora la fiaccola viaggerà per tutti e cinque i continenti e tornerà nella capitale tra 130 giorni, l'8 agosto, giorno di apertura dei Giochi Olimpici. Manifestazioni di protesta sono già state annunciate da attivisti tibetani a Londra, Parigi, San Francisco e New Delhi. La fiaccola passerà anche (in giugno) per le strade di Lhasa, la capitale del Tibet dove si sono consumati gli scontri che hanno fatto più di cento morti.

Articolo tratto da L'Unità.it

Il papocchio


Gabinetto: Raila, Kibaki ormai c’è poco tempo


Lo stallo circa la nomina di un Gabinetto sta diventando sempre più ridicolo e sta velocemente degenerando verso il rischioso. Anche dopo una serie di incontri testa a testa, sembrerebbe che il Presidente Kibaki e Mr Odinga, primo ministro-designato, non riescano a trovare un accordo sulla spartizione dei posti del Gabinetto.Mr Odinga e Mr Kibaki non sono d’accordo sulle dimensioni del Gabinetto, che Mr Odinga vuole mantenere a 34, mentre Mr Kibaki vuole un’aggiunta di 10 ministeri. Ambedue vogliono inoltre che i loro alleati occupino i ministeri di Finance, Internal Security e Local Government.
Un Gabinetto gonfiato costituirebbe uno spreco criminale di risorse pubbliche in un momento in cui 350.000 Kenyani vivono come animali nei campi di rifugiati. Hanno bisogno di tutto l’aiuto – e tutto il denaro – che possono avere per ricominciare di nuovo a vivere. Ci sono usi migliori per il denaro del Tesoro che pagare per dicasteri di Gabinetto che hanno poco o nessun significato. Devono essere prese difficili decisioni di assunzione e, se il Presidente si aspetta di compiacere tutti, potrebbe finire col non accontentare nessuno.Mr Kibaki dovrebbe anche sapere che non può tenere tutto quello che ha. Deve rinunciare a qualche cosa. E’ normale pensare che ci saranno reazioni anche violente dopo l’insediamento del Gabinetto, specialmente da parte degli alleati che saranno stati esclusi. Ma semplicemente non ci sono abbastanza posti, o abbastanza denaro per crearli, per soddisfare tutti.
I desideri di Mr Kibaki, e le ambizioni del suo partito, non dovrebbero stare nel mezzo del cammino verso una veloce soluzione di questo imbarazzante interludio nella vita della nazione.Proprio come Mr Kibaki non può tenersi tutto, anche Mr Odinga dovrebbe sapere che non può ottenere tutto ciò che vuole. Un’interpretazione stretta dell’accordo, e la legge basata su di esso, ha il potenziale di trascinare le cose per lungo tempo. Le sue aspettative e il suo senso di giustizia per il suo partito vanno tutte benissimo, ma non può contare sull’illimitata pazienza dei Keniani,La leadership non è tenere una conferenza stampa o essere disponibili a partecipare ai talk show. E’ avere la forza – se non il patriottismo - di fare sacrifici e di avere il coraggio morale di chiedere agli altri di fare lo stesso.Bisogna ricordare ai nostri leader, assorti in se stessi, che il Kenya sta soffrendo, e sta soffrendo a causa del fallimento della loro leadership. Potrebbero pensare che possono scaricare la colpa l’uno sull’altro, ma parte di essa resta appiccicata a tutti.E’ un’assoluta vergogna che Mr Odinga e Mr. Kibaki non riescano a risolvere una piccola disputa senza prendere il telefono e chiamare l’ex capo dell’ONU Kofi Annan. Come Mr Annan ha detto loro, la spartizione delle posizioni del Gabinetto è qualcosa che possono facilmente decidere tra loro. Non occorre coinvolgere l’intero mondo.I Kenyani sono già abbastanza umiliati, nel vedere come il paese nel quale hanno creduto, che hanno amato e per il quale hanno intensamente operato, sia caduto in una violenta e distruttiva farsa in cui si sono perse delle vite ed è stata distrutta la reputazione della nazione.Se i Keniani non sanno risolvere i loro propri problemi ed ogni volta devono fare assegnamento su interventi esterni, che ne è della nostra indipendenza? I Keniani hanno sofferto abbastanza, e rifiutano questo nonsense e vogliono continuare ad operare per ricostruire la loro vita e il loro paese.Mr.Odinga e Mr Kibaki dovrebbero accogliere il consiglio di Mr Annan, ritirarsi in un posto tranquillo – solo loro due – e non ritornare finché non avranno risolto questo problema del Gabinetto.Bisticciare all’infinito sui posti in un paese dove c’è già così tanta sofferenza, è indice di insensibilità e irresponsabilità.

Articolo tratto da Korogocho.org

26 marzo 2008

Incinto!


Era una donna, ora è un trans "incinto"

Dall'Oregon l'incredibile storia di Thomas Beatie, transgender al quinto mese di gravidanza.

L'incredibile storia che arriva dagli Stati Uniti ricorda vagamente il film «Junior» con Arnold Schwarzenegger e Danny DeVito, dove il primo rimane "incinto" a causa di un eccezionale quanto fantascientifico esperimento di fecondazione artificiale. Thomas Beatie dell'Oregon è però un transessuale, ora al quinto mese di gravidanza, e sarà il primo uomo a partorire, scrive la stampa Usa.
Thomas Beatie, che un tempo era una donna, è apparso sull'ul
timo numero di The Advocate, magazine americano rivolto soprattutto ai lettori gay, lesbiche, bisessuali e transessuali. Nell'articolo Beatie descrive la sua particolare situazione e una foto lo ritrae col pancione alla sua ventiduesima settimana di gravidanza. Per cambiare sesso anni fa Beatie si sottopose ad un intervento di rimozione del seno e alla terapia ormonale con iniezioni di testosterone. Non ha però voluto far asportare gli organi femminili e qualche mese fa ha voluto sospendere le sue iniezioni bimensili decidendo così di fatto di rimanere "incinto". «La sterilizzazione non è un requisito fondamentale per la riassegnazione del sesso, così ho deciso di preservare il mio diritto a procreare», spiega. Una scelta derivata dal fatto che Nancy, la compagna di Thomas da 10 anni, non sarebbe stata in grado di portare a buon fine una gravidanza tanto desiderata, a causa di una grave endometriosi che l'aveva colpita in giovane età.
Oggi la coppia piuttosto che adottare un bambino ha deciso di concepirne uno: «Sono transgender, legalmente uomo e sposato con Nancy», dichiara Thomas, dalle pagine della rivista americana. E la voglia di un bambino è stata più forte di tutti gli ostacoli che gli si sono presentati davanti: «Quando abbiamo deciso di avere un figlio, i nostri familiari sono rimasti choccati mentre molti medici ci hanno respinto. Per i vicini eravamo una coppia normale, ora non lo siamo più», dice, sostenendo che «desiderare un figlio non è una prerogativa femminile, ma fa parte dell'essere umano». Poi, un anno fa, con l'aiuto di un'inseminazione domestica (la gravidanza è stata resa possibile grazie ad una banca del seme, presso la quale la coppia ha acquistato alcune fialette di sperma) ecco reso possibile quello che per molti sembrava impossibile: «La gravidanza è una sensazione incredibile. Nonostante la mia pancia cresca giorno dopo giorno, io mi sento uomo e quando mia figlia nascerà, io sarò il padre e Nancy la madre». Il lieto evento è previsto per il mese di luglio.

Articolo tratto da Corriere.it



Come diceva il dottor Frankenstein: "SI PUO' FARE!!!"

24 marzo 2008

Indifferenza


Kenya, Human rights watch: occidente responsabile


Le violenze che hanno messo in ginocchio il Kenya dopo le elezioni del 27 dicembre scorso sono anche colpa dei leader mondiali che hanno preferito chiudere gli occhi su decenni di corruzione, malversazioni, impunità ed cattiva gestione della cosa pubblica che hanno caratterizzato la vita del Paese. È quanto sostiene in un dossier Human Rights Watch. Nel dossier di 80 pagine si sottolinea anche che il nuovo governo di unità nazionale per riguadagnare la fiducia della popolazione dovrà perseguire in giudizio quanti sono stati dietro l'esplosione delle violenze. Gli scontri a fine anno furono innescati dalla proclamazione della vittoria nelle presidenziali di Mwai Kibaki, ritenuta fraudolenta sia dall'opposizione che dalla maggioranza degli osservatori internazionali. Da allora, in Kenya si sono contati circa 1.500 morti e 600.000 sfollati, tra esplosioni di ferocia senza fine: perfino una cinquantina di persone, tra loro donne e bambini, arse vive in una chiesa, altri episodi analoghi in piccole case. In particolare, inoltre, ci fu una straordinaria ripresa dei conflitti interetnici, rimasti peraltro sempre sottotraccia dall'indipendenza ('63), ma la cui squassante esplosione è stata, nell'occasione, secondo Hrw, «orchestrata da leader politici ed uomini d'affari locali». Una forte pressione internazionale, ed una lunga mediazione condotta dall'ex segretario generale dell'Onu Kofi Annan ha portato infine -il 28 febbraio- ad un'intesa che prevede un governo di grande coalizione con poteri bilanciati, e la creazione della figura del primo ministro (finora non esisteva, la Repubblica era squisitamente presidenziale) dotato di ampi poteri, ruolo che sarà assegnato al leader dell'opposizione Raila Odinga. Ma l'intesa deve ancora essere operativamente perfezionata (e non manca chi rema contro), mentre le violenze continuano.

Articolo tratto da Korogocho.org



E' tornata la stagione delle piogge

"...E' finalmente tornata la stagione delle piogge qui nella nostra Ol Moran. Mentre scrivo la pioggia batte fitta sul tetto della casa: è il primo vero acquazzone dopo parecchi mesi di caldo torrido, di sole cocente e di siccità. Finalmente! Per una persona che è abituata al clima della nostra pianura Padana una pioggia non vuol dire molto, ma dopo aver vissuto qualche mese qui ad Ol Moran ci si rende conto di quanto questo possa significare! Si sentiva proprio la mancanza di un bel po' di pioggia. Stagione delle piogge significa cambiamento, benedizione; porta con sè i vantaggi del rifiorire della natura, dei campi appena seminati (siamo pur sempre in campagna!) e la speranza di poter avere un buon raccolto. Ma porta con sè anche qualche svantaggio: proprio stasera a cena discorrevamo con don Giacomo e don Giovanni su come diventerà di nuovo difficile percorrere con la macchina queste strade fangose con il costante rischio di rimanere impantanati, e per la nostra gente significa una temperatura e un'umidità -alla quale non sono poi così abituati- da sopportare dentro le loro capanne di legno. Questo cambiamento che accade tutti gli anni si svolge però quest'anno in uno scenario di una terra che forse invece ha cambiato un po' la sua fisionomia. I recenti disordini a livello politico hanno innegabilmente influito negativamente sulla società e sull'economia di questo paese. Ma la gente, vera vittima di questa situazione, ne ha pagato seriamente le conseguenze e purtroppo molti di loro le stanno ancora pagando. La situazione sembra essersi risolta; come ci riferite anche voi dall'Italia anche i media italiani non ne parlano più. Ma non dimentichiamoci che i tanti campi sfollati allestiti dalle varie organizzazioni umanitarie internazionali continuano ad ospitare tantissime persone in condizioni non sempre troppo facili. Per queste persone la partita non è chiusa, sta solo cominciando un lungo e lento cammino che speriamo possa portarli a ricostruirsi una vita, una famiglia (perchè molti di loro l'hanno persa), una casa, un lavoro, ...Rimangono inoltre le ferite negli animi, molto più difficili da superare. Ora c'è ancora più bisogno di parole e azioni che portino alla riconciliazione e alla pace..."

Lettera tratta dal BlogDegliAmiciDiOlMoran

17 marzo 2008

"Casa dolce casa"...


Kenyani rifugiati riluttanti a tornare a casa, riferisce l’ONU


Molti delle diecine di migliaia di Kenyani spostati dalle loro case a causa della violenza che ha colpito il paese est-africano in seguito alle contestate elezioni del dicembre scorso sono riluttanti a tornare alle loro case, riferisce un rapporto delle Nazioni Unite.
In parecchi insediamenti ad Eldoret nel Kenya occidentale, che è stato recentemente visitato dall’Alto Commissario dell’ONU per i Rifugiati (UNHCR) persone rifugiate all’interno del paese hanno espresso la loro riluttanza a lasciare i loro campi finché il Governo non darà serie garanzie circa la sicurezza e il sistema attuare per la restituzione delle loro proprietà. Alla fine del mese scorso, un patto per la condivisione del potere è stato firmato tra il Party of National Unity e l’opposizione Orange Democratic Movement.
Circa 1.000 persone sono state uccise e più di 300.000 costrette a fuggire dopo le contestate elezioni in cui il Presidente Mwai Kibaki fu dichiarato vincitore sul leader dell’opposizione Raila Odinga.
Le agenzie umanitarie operanti sul posto hanno raggiunto una comune opinione che indipende
ntemente da ciò che accade nella sfera politica o umanitaria, il Kenya sta affrontando una crisi per la sicurezza alimentare che potrebbe potenzialmente durare fino al prossimo anno come risultato della recente violenza combinata con la siccità che ha colpito gran parte del paese. L’ONU ritiene che la maggior parte dei rifugiati preferisca aspettare che si proceda ulteriormente nei colloqui per la riconciliazione nazionale prima di rischiare di tornare a casa, il che vuol dire che molti agricoltori potrebbero non coltivare i loro campi prima dell’inizio della stagione delle piogge a metà marzo. All’inizio di questo mese, 134 persone – molte delle quali avevano preso parte o erano state vittime della violenza negli slum di Nairobi – partecipanti a un programma di addestramento sponsorizzato dall’ONU e dal Governo hanno completato un corso sulla soluzione dei conflitti, la costruzione della pace e la riconciliazione.
Un analogo schema, che cerca di promuovere ulteriormente la riconciliazione nazionale e sostenere la tutela degli slum, è all’esame per il Kenya occidentale e la Rift Valley.


Articolo tratto da Korogocho.org

E dopo la Birmania il Tibet...sono tremendi i monaci buddhisti!!!


Tibet, «centinaia i morti». Scaduto l'ultimatum di Pechino


Scaduto alla mezzanotte di lunedì, le 17 in Italia, l'ultimatum imposto dalle autorità cinesi agli abitanti di Lhasa, capitale del Tibet. Si chiedeva la totale fine alle proteste. Pechino chiedeva anche la resa, cioè che vuole che tutti coloro che in questi giorni hanno protestato si consegnassero senza condizioni alle autorità cinesi, in cambio di provvedimenti «clementi». I soldati, membri della Polizia armata del popolo, hanno già cominciato a schierarsi sulle arterie principali di Lhasa, sui tetti e attorno agli edifici principali della città. Secondo il governo tibetano in esilio, «le grandi manifestazioni iniziate il 10 marzo a Lhasa e in altre regioni del Tibet hanno portato alla morte di centinaia di persone». Per questo, dopo l’appello del Dalai Lama, che domenica ha denunciato il «genocidio culturale» che da decenni affligge il Tibet e ha chiesto l’intervento delle organizzazioni internazionali, ora il parlamento tibetano torna a supplicare «l'attenzione delle Nazioni Unite e della comunità internazionale». Per il governo cinese, invece, i morti di questi giorni sono solo 13. Ammettono che siano «civili innocenti», ma non accennano a superare questa ridicola cifra né confessano di aver «aperto il fuoco». Da Pechino, il presidente cinese della regione autonoma del Tibet, Qianba Puncog, in una conferenza stampa alla presenza di giornalisti stranieri, ha assicurato che la polizia e l'esercito venerdì scorso «non hanno fatto uso di armi» nella repressione delle manifestazioni. Le vittime, secondo Pechino, sono 13 , tutti «civili innocenti» bruciati vivi o accoltellati dai rivoltosi. E Puncog afferma che qualsiasi attacco a edifici pubblici e privati sarà represso duramente dalle autorità cinesi del Tibet alle quali spetta «la responsabilità della sicurezza». Pechino sta cercando di dare dei dimostranti l'immagine di una minoranza «medievale» e «barbarica» che cerca di minare la modernizzazione del paese.Intanto, la protesta si allarga: in Nepal, a Katmandu, un centinaio di rifugiati tibetani hanno manifestato nei pressi della rappresentanza delle Nazioni Unite e delle ambasciate cinesi: la polizia li ha caricati ed ha arrestato una trentina di persone. Tra loro ci sono anche alcuni monaci. La Cina ha condannato gli episodi. In serata c'è stata anche una protesta silenziosa di un gruppo di studenti tibetani dell'università per stranieri di Pechino. Gli studenti hanno organizzato una veglia con candele. Alle 23 e30, poco prima dello scadere dell'ultimatum a Lhasa, un professore è riuscito a convincerli a rientrare nei dormitori.

Articolo tratto da
L'Unità.it



Storia del Tibet

Le notizie sull'origine del popolo tibetano sono poche ed incerte. Sembra, comunque, discendere dalle tribù nomadi guerriere Qiang che, secondo documenti cinesi, già dal II secolo AC attaccavano i confini del potente Impero Cinese. Tuttavia, prima del VII secolo, non vi sono evidenze di presenza di un popolo politicamente compatto. Molti miti bön, poi ripresi dal buddhismo tibetano, parlano dell'origine del Tibet e del suo popolo. Uno di questi fa risalire l'origine del popolo tibetano all'unione tra una scimmia ed un'orchessa che ebbero sei figli, considerati gli antenati delle principali sei tribù tibetane. La scimmia è considerata dal buddhismo tibetano una manifestazione di Chenresing (Avalokiteśvara), il Bodhisattva della pietà.

Il vuoto, il vento, la pioggia
Un mito sulla creazione narra che il vuoto fu riempito dal vento, poi da una pioggia torrenziale. La pioggia, dopo avere formato un oceano primordiale, cessò. Il vento, invece continuava fortissimo e agitò le acque a tal punto che si raddensarono come il burro dal latte. Un'altra leggenda narra che il primo principe tibetano scese dal cielo dal quale si calò per mezzo di una corda. Storicamente, tribù affini ai birmani, si stanziarono nell'altopiano dell'Himalaya tra il 700 a.C. ed il 400 a.C., dando origine a feudi attorno al 320 a.C. ed al primo regno tibetano nel 127 a.C. (data di partenza del calendario tibetano). In quell'anno il Tibet venne unificato dal sovrano Nyatri Tsenpo (163 a.C. - 101 a.C.). La monarchia durò per 40 generazioni. La religione diffusa sul territorio era il Bön, accanto ad altre credenze minori. Tale regno s'ingrandì progressivamente, divenendo sempre più potente. Il Buddismo, nella sua forma di lamaismo arrivò in Tibet nel 333 d.C. grazie all'opera del re Lha Toto Ri Gniendzen (284 d.C. - 363 d.C.). Già attorno al 400 d.C. il regno tibetano era in grado di poter inviare ambascerie in Cina. La storia propriamente conosciuta e documentabile del Tibet inizia con il re Srong-Tsen Ganpo (Srongstan Gampo), il primo a convertirsi al buddismo nel 617 d.C.. Il re Srongstan Gampo (598 d.C. - 650 d.C.) unificò il Tibet in un singolo Paese comprendendo tutti i territori in cui il tibetano era parlato. Nel 653 d.C. venne aperta la prima scuola teologica tibetana, da cui prese origine, nel 690 d.C., l'attuale alfabeto tibetano ed iniziò a prendere corpo la cultura tibetana. Una volta introdotto il Buddismo esso fu assunto come religione ufficiale (751 d.C.). Tra il 7° e il 10° secolo l' impero Tibetano raggiungeva il suo apogeo e si estendeva nel territorio cinese e di altri paesi dell'Asia Centrale sotto re Trisong Detsen (755 d.C. - 804 d.C.). Il primo monastero in Tibet fu costruito a Samye nel 758 d.C.. Nel 763 d.C. l' esercito tibetano si impadronì della Capitale Cinese (Ch' ang-an, oggi Xian). Un trattato di pace fu concluso con la Cina nell' 821 d.C. e nell' 822 d.C. il testo del trattato fu iscritto su colonne che possono ancora essere viste in tre luoghi: uno all' esterno del palazzo imperiale di Ch' ang-an; un altro di fronte al portone principale del tempio di Jokhang nella capitale del Tibet, Lhasa; ed il terzo sul confine cino-tibetano sul Monte Gugu Meru. In esso si legge che "...Tutto l'oriente spetta alla grande Cina, mentre tutto l'occidente è di proprietà del grande Tibet". L'impero tibetano crebbe ulteriormente in potenza mentre la Cina iniziava a ridimensionarsi come stato egemone dell'Asia Orientale. L'ultimo grande sovrano di questo periodo aureo fu Ralpachen (815 d.C. - 836 d.C.).

Dal VII al X secolo
Dal VII al X secolo il Tibet era costituito da un forte impero. L'impero iniziò il suo declino in modo rapido. Tra l' 824 d.C. ed il 1247 l' intero Impero Tibetano collassò, in seguito all' assassinio del re Tri Wudum Tsen (821 d.C. - 841 d.C.), popolarmente ricordato come Lhang Dharma per la sua persecuzione contro i buddisti, persecuzione che innescò una guerra civile. Il possente impero tibetano si frantumò in piccoli principati ed un periodo oscuro iniziò per il Tibet. Durante questa fase i contatti tra Tibet e i paesi confinanti (Cina compresa) divennero minimi. In questo periodo iniziarono i pellegrinaggi dei buddisti cinesi in Tibet ed in India, ed - attorno al 1210 - in Europa pervennero le prime notizie, spesso fantastiche, circa l'altopiano tibetano. La società, nel periodo imperiale, prevedeva tre tipi di proprietà: quella della nobiltà, quella del clero buddhista e quella libera. Questa forma di società continuò per un millennio, fino, cioè, all'invasione cinese del Tibet del 1950. Gengis Khan (1167 - 1227), da poco eletto capo dei Mongoli e buddista egli stesso, iniziò le campagne militari contro la Cina ed il Tibet a partire dal 1206. Dal XIII secolo, pertanto, il Tibet era annesso all'Impero Mongolo come stato vassallo. I Mongoli, invasero il Tibet nel 1207 e la Cina nel 1216, completandone l'annessione nel 1279. Tra il 1247 ed il 1350 una successione di venti Sakya Lamas governarono il Tibet, ma erano praticamente dei sovrani - fantoccio. Questo è il periodo in cui Tibet e Cina si trovano sotto lo stesso sistema politico assoggettato al governo dei mongoli. I Tibetani furono in grado di liberarsi dai mongoli nel 1358, quando Phagma Drupa (1324 - 1376) si sostituì al regime Sakya. I Cinesi fecero lo stesso dopo una decina di anni, nel 1368 quando essi riuscirono ad espellere i Mongoli dando inizio alla loro dinastia Ming (1368 - 1644). A seguito di questa annessione, l'attuale Repubblica Popolare Cinese rivendica il territorio tibetano come parte della Cina, pertanto reclama la legittimità dell'annessione del Tibet. Alcune critiche rivolte alla Cina replicano che sarebbe come se l'India rivendicasse diritti nei confronti di Myanmar (ex Birmania) in quanto in passato appartenenti entrambe all'impero coloniale britannico. In realtà i Mongoli annetterono il Tibet prima di conquistare la Cina e il loro dominio cessò quando questi persero potere nel paese. I Mongoli lasciarono il comando alla scuola di buddhismo Sa-Skya. Seguì un interregno nel quale dominarono dinastie secolari. I Mongoli tornarono ad invadere il Tibet all'inizio del XVI secolo, restituendo il potere alla massima autorità religiosa, il Dalai Lama. Nel 1642 l’esercito mongolo di Gusri Khan (1606 - 1655) intervenne in Tibet ed impose ai tibetani il governo temporale di un lama della scuola Gelugpa che chiamò Dalai Lama, allora già alla quinta incarnazione (il Dalai Lama è considerato un’emanazione di Avalokitesvara, la divinità della compassione universale che protegge il Tibet). Nel 1642 il grande quinto Dalai Lama, Ngawang Lobsang Gyatso (1617 - 1682), assunse il potere spirituale e temporale sul Tibet. Egli istituì l' attuale sistema di Governo Tibetano, conosciuto come Gaden Phodrang, abbattuto nel 1950 dai cinesi. Il suo regno fu florido, ma, alla sua morte, ricominciarono congiure ed intrighi ed il paese ripiombò nell'anarchia. Nel 1720 i Manciù che dominavano la Cina, si intromisero nelle questioni Tibetane inviando truppe per scortare il giovane settimo Dalai Lama, nato nel Tibet orientale a Lhasa. Quando le truppe Manciù abbandonarono Lhasa, lasciarono indietro un residente (o Amban) ufficialmente per rimanere a disposizione del Dalai Lama, ma in effetti per proteggere i loro propri interessi. Questo fu l' inizio della interferenza Manciù negli affari Tibetani. Quando i Tibetani si ribellarono contro i Cinesi nel 1750 e uccisero l'amban, l'esercito cinese entrò nel paese e ne nominò il successore. Un intervento Manciù in Tibet si verificò ancora nel 1790 quando i rappresentanti (Ambans) dell' Imperatore Manciù si trasferirono a Lhasa e tentarono di impegnarsi in indicibili intrighi per intromettersi negli affari Tibetani. Nel 1856 un trattato stabilì i confini tra Tibet e Nepal e l'accordo fu stipulato dai cinesi per il Tibet e dagli inglesi per il Nepal. I Manciù ottennero un controllo nominale sul Tibet Orientale durante questo periodo che terminò nel 1865 quando i Tibetani ripresero possesso dei territori perduti. All'inizio del XVIII secolo, la Cina ottenne il diritto di avere un commissario residente chiamato amban a Lhasa. Ma il Tibet versava sotto una specie di protettorato allora, pur essendo nominalmente indipendente, quindi non come oggigiorno, dove il Tibet è stato annesso di fatto alla Cina.

XX secolo e storia contemporanea
Nel 1904 la Gran Bretagna spedì forze militari indiane, al comando di Sir Francis Younghusband (1863 - 1942) per sanare una controversia confinaria, che di fatto significò l'occupazione militare del Tibet, anche a seguito dell'interesse per il Tibet manifestato dallo Zar di Russia. Si costrinse il Tibet ad aprire il confine all'India britannica ed ad allentare i suoi vincoli con la Cina. I britannici cercarono di trattare con il Tibet, ma non riuscendoci a causa dell'opposizione cinese dei manchu, nel 1906 firmarono un accordo con il quale riconoscevano l'autorità della Cina sul Tibet . Nel 1910 i manchu che governavano la Cina, invasero il Tibet e costrinsero il Dalai Lama a fuggire in India dagli inglesi fino al 1913, dopo che in Cina scoppiò la rivoluzione. L' interferenza Manciù cessò nel 1912. I Tibetani espulsero tutte le truppe cinesi e manciù da Lhasa e da altri centri del Tibet. Il tredicesimo Dalai Lama riaffermò l' indipendenza del Tibet mediante una specifica dichiarazione nel 1913. Nel 1913 Tibet e Mongolia firmarono nella capitale mongola Urga (attuale Ulan Bator) un trattato proclamando la loro reciproca indipendenza dalla Cina ("Trattato di Urga"). Nel 1914 venne negoziato in India un ulteriore trattato tra il Tibet, la Cina e la Gran Bretagna (la Convenzione di Simla) per definire confini e sovranità. Questo trattato era molto favorevole ai Britannici, per questo motivo i Cinesi non lo firmarono. Essi non riconobbero mai questo trattato, per questo motivo rivendicano, ad oggi, il territorio indiano del Arunchal Pradesh. I confini seguivano una linea ("Linea McMahon") tracciata dall'allora negoziatore britannico, Sir Henry McMahon (1862 - 1949). L'indipendenza tibetana è confermata dal trattato di Simla (3 Luglio 1914) che fu concluso tra il Tibet e l' India Britannica. La Prima guerra mondiale e la guerra civile cinese causarono impoverimento della Cina ed i cinesi accantonarono provvisoriamente il loro interesse sul Tibet, facendo sì che Thubten Gyatso (XIII Dalai Lama, 1876 - 1933) governasse indisturbato sul territorio reclamato oggi dal Governo tibetano in esilio, ad eccezione della regione del Amdo (Qinghai dove gli Hui, che controllavano i territori vicini nello Xining, cercavano di esercitare il proprio potere. Per un trentennio il Tibet si mantenne equidistante da tutte le potenze, tanto da permettere ad una spedizione pseudoscientifica del Terzo Reich, nel 1938 di cercare il fantomatico regno di Xambala (o Shambala, un regno sotterraneo centroasiatico la cui capitale Agarti era governata da saggi rappresentanti della razza ariana. Nel 1942, nel corso della seconda guerra mondiale, la strada di rifornimento tra India e Cina via Burma fu interrotta dai Giapponesi. Il Governo inglese richiese al Governo del Tibet il permesso di aprire una via militare per i rifornimenti attraverso Zayul (Tibet Nord orientale) che venne rifiutata dal Governo Tibetano.

L'occupazione cinese
Il tibet storico aveva una superficie quasi doppia rispetto a quella della regione autonoma locale. Con 3,8 milioni di chilometri quadrati di superficie, quanto l'Europa occidentale, il Tibet storico occupa un terzo della Repubblica popolare Cinese, ma i suoi sei milioni di abitanti sono appena lo 0,5 per cento dei cinesi. Questa immensa regione di montagne e altipiani ha sempre attirato gli appetiti dei vicini per la sua posizione strategica (fra Cina e India), perché controlla riserve d'acqua vitali per tutto il continente (lo Yangze, il Fiume Giallo, il Mekong, l'Indo, il Brahmaputra nascono qui), e giacimenti di minerali preziosi dall'oro all'uranio. Le mire coloniali della Cina sul Tibet sono una costante nella storia, che non varia con i regimi politici: l'indipendenza del Tibet, i cui abitanti sono affini ai birmani e non parlano, pertanto, il cinese, e la cui capitale Lhasa non condivide affatto la storia delle altre città della Cina, non venne accettata dalla Cina repubblicana, che dopo il 1911 prese il posto della dinastia mancese (1644 - 1911), l'ultima delle dinastie imperiali. Il fondatore della repubblica nazionalista di Cina, Sun Yat Sen (1866 - 1925) non solo non ammise la secessione della Mongolia, del Tibet e del Tannu Tuva, ma si propose di riconquistare tutti i territori storicamente appartenuti alla Cina, vale a dire la Corea, il Viet Nam settentrionale, l'isola si Sakhalin, i territori settentrionali di India e Pakistan (l'India venne costretta a rinunciare ai monti Kun Lun ed alle Soda Plains nel 1962, ed il Pakistan ai contrafforti himalayani nel 1963), il Nepal, il Sikkim, il Bhutan, la regione del Wakkan (Afghanistan), la regione russa dei fiumi Ussuri ed Amur, le regioni settentrionali della Birmania e del Laos (i territori Shan), nonchè quelle orientali del Tagikistan, dell'Uzbekistan, del Turkmenistan, del Kazakhistan e del Kirghizistan. Il 13° Dalai Lama, predecessore dell'attuale, nel 1931 lanciò un ammonimento: "Dobbiamo essere pronti a difenderci altrimenti le nostre tradizioni spirituali e culturali saranno sradicate. Perfino i nomi dei Dalai e Panchen Lama saranno cancellati. I monasteri verranno saccheggiati e distrutti, monaci e monache uccisi o scacciati, diventeremo schiavi dei nostri conquistatori, ridotti a vagabondare senza speranza come mendicanti". Nel periodo tra il 1918 ed il 1949 il caos dominava la Cina, con una guerra civile sanguinosa tra i nazionalisti del Guomindang (allora al potere) ed i comunisti di Mao Ze Dong (1893 - 1976), in concomitanza con l'aggressione nipponica del 1931 - 1945. La vittoria di Mao, nel 1949, e la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese il 1° Ottobre di quell'anno, fecero tornare alla ribalta la questione dei "Territori separati dalla madrepatria". Durante il discorso del 1° Ottobre, Mao citò, appunto, uno ad uno i territori che sarebbero stati ricondotti alla Cina: l'isola di Hainan (occupata tra il Marzo ed il Maggio del 1950), l'isola di Taiwan, le isole Pescadores, Spratley, Quemoy, Matsu, la regione indiana dell'Aksai Chin (Ladakh, conquistato nella guerra del 1962), la regione indiana del North East Frontier Agency (N.E.F.A., regione dell'alto corso del fiume Brahmaputra) ed, appunto il Tibet. Già il 1º Gennaio 1950 Radio Pechino annunciò per il Tibet l'imminente "liberazione dal giogo dell'imperialismo britannico" (la limitata influenza britannica in realtà era finita con la Seconda guerra mondiale e l'indipendenza dell'India, nel 1947). Manipolati dagli emissari di Mao, il Dalai Lama e il Panchen Lama, allora adolescenti, accettano di firmare messaggi in cui chiedevano l'intervento della Cina per proteggere il Tibet da non meglio specificate "potenze straniere nemiche". La Guerra di Corea, scoppiata all'alba di Domenica 25 Giugno 1950, e l'intervento americano a sostegno della Corea del Sud attaccata dalla comunista Corea del Nord di Kim Il Sung (1912 - 1994), dette alla Cina l'occasione sperata per poter occupare il Tibet. Distolta dai fatti di Corea, l'opinione pubblica mondiale venne colta di sorpresa allorchè Il 7 Ottobre 1950 quarantamila soldati dell'Esercito di liberazione popolare attraversarono il corso superiore dello Yangtze e dilagarono in tutto il Tibet occidentale uccidendo ottomila dei suoi soldati e senza praticamente incontrare resistenze di sorta. Una settimana dopo l'attuale Dalai Lama, Tenzin Gyatso (1935 - vivente) viene dichiarato maggiorenne e diventa sovrano del Tibet a tutti gli effetti. Nel 1950 l'Esercito di Liberazione Popolare entrò in Tibet frantumando l'esercito tibetano, quasi esclusivamente cerimoniale ed impedendo, di fatto, al Dalai Lama di governare. Il Tibet, membro fondatore dell'ONU e non allineato con alcuna superpotenza, divenne una preda facile. L'Europa trattò l'invasione come una questione interna cinese (del resto, allora, la Repubblica Popolare Cinese non era diplomaticamente riconosciuta dagli Stati Uniti e dall'Europa Occidentale)e l'America già duramente impegnata contro le truppe cinesi (i cinesi accorsero in aiuto alla Corea del Nord appena due settimane dopo aver invaso il Tibet, il 19 Ottobre 1950) a difendere la Corea, non osò sfidare Mao. Sadar Vallabhai Patel (1875 - 1950), il Vice Primo Ministro dell' India di allora così si espresse "La recente e amara vicenda (l' invasione cinese del Tibet) ci dice anche che il comunismo non è uno scudo contro l' imperialismo e che i comunisti sono buoni o cattivi imperialisti come tutti. Le ambizioni cinesi sotto questo aspetto non riguardano solo i fianchi Himalayani dalla nostra parte ma includono anche importanti parti dell' Assam. Hanno anche ambizioni sul Burma". Anche il Dr. Rama Manohar Lohia (1910 - 1967), leader comunista indiano, dopo aver fortemente condannato la violazione, così si espresse, "Il Governo Cinese invadendo il Tibet ha portato offesa non solo contro il senso morale internazionale, ma anche contro gli interessi dell' India: il Tibet rappresenta il palmo della mano ed ora la Cina vuole pure le dita, ovvero Nepal, Bhutan, Sikkim ed i territori indiani ad riente ed ad occidente della Linea McMahon" . Ma, proteste a parte, negli annali delle Nazioni Unite, a quella data, l'unico Paese che sollevò la questione fu il Salvador. Inizialmente le truppe d'occupazione seguirono istruzioni astute per accattivarsi la popolazione locale: non si abbandonarono a saccheggi e violenze, corteggiarono il consenso della nobiltà e del clero buddista. Il 17 Novembre 1950 il XIV° Dalai Lama (l'attuale Dalai Lama in esilio) assunse i pieni poteri spirituali e temporali come Capo dello Stato, nonostante avesse appena compiuto il sedicesimo anno. Il 23 Maggio 1951 una delegazione tibetana, che era andata a Pechino per discutere sull' invasione fu obbligata a firmare il cosiddetto "Accordo dei 17 punti" sulle misure per una pacifica liberazione del Tibet sotto minaccia di un aumento di azioni militari in Tibet. Dopo di allora la Cina usò questo documento per attuare il suo piano di trasformare il Tibet in una colonia cinese senza tenere alcun conto della forte resistenza da parte del popolo Tibetano. Il trattato del 1951 venne firmato non come un vero e proprio trattato di pace, ma come diktat sotto la pressione cinese. Il Tibet doveva rinunciare, tra l'altro, ad una politica estera autonoma, a batter moneta, a stampare francobolli. Poiché alcune riforme del nuovo governo, tra le quali quella di una redistribuzione delle terre, sarebbero risultate impopolari, queste vennero proposte solo nelle regioni più periferiche del Kham orientale e nell'Amdo. Nel 1954 il Dalai Lama e il Panchen Lama invitati a Pechino, vennero da Mao e dagli altri leader comunisti sedotti, e solo alla fine del loro soggiorno questi ultimi gettarono la maschera accusando il buddismo di essere un "veleno". Tornati in patria i due giovani leader religiosi scoprirono che lontano da Lhasa, nelle provincie di Amdo e Kham, le milizie comuniste avevano già cominciato a svuotare i monasteri ed a perseguitare il clero buddista. Repressione e arresti di massa scatenarono nel 1955 le prime fiammate di insurrezione armata, a cui partecipano i monaci buddisti. A quel punto, gli Stati Uniti, che avevano già combattuto direttamente contro i cinesi in Corea prese l'iniziativa, e la CIA venne incaricata di addestrare la resistenza tibetana. L'aiuto verrà interrotto un quindicennio dopo da Richard Nixon (1913 - 1994) e da Henry Kissinger (1923 - vivente), nel 1971 dopo il disgelo con la Cina al fine di trovare una via d'uscita alla Guerra del Viet Nam. Nel 1956 i cinesi scatenarono una delle sue offensive più sanguinose, con 150.000 soldati e bombardamenti a tappeto. Qui, nel 1959, con il supporto della CIA, venne organizzata una rivolta che venne stroncata provocando decine di migliaia di morti. Approffittando dei dissidi in seno al Partito comunista cinese in seguito alla fallimentare tragica esperienza del Grande balzo in avanti, il 10 Marzo 1959, il movimento di resistenza tibetano, ormai esteso a tutto il paese, culminò con una sollevazione nazionale contro i Cinesi che la repressero con forza spietata. Migliaia di uomini, donne e bambini vennero massacrati nelle strade di Lhasa e in altri luoghi. Il 17 Marzo 1959 il Dalai Lama abbandonò Lhasa per cercare asilo politico in India. Egli fu seguito da oltre 80.000 profughi Tibetani. Mai prima nella loro lunga storia tanti Tibetani sono stati costretti a lasciare lo loro patria in circostanze così difficili. Oggi ci sono circa 130.000 profughi Tibetani dispersi in tutto il mondo. La sollevazione si stima abbia comportato una strage di almeno 65.000 persone. Tenzin Gyatso (XIV Dalai Lama) e altri funzionari del governo si esiliarono a Dharamsala in India, ma sparuti gruppi di resistenza continuarono la lotta in patria fino al 1969. Più volte Zhou Enlai (1898 - 1976) chiese all'India l'estradizione del Dalai Lama. Nel 1965 venne creata la Regione Autonoma del Tibet, in pratica l'intero paese venne annesso alla Cina de facto, come annunciò l'allora presidente della Repubblica Popolare, Liu Shaoqi (1898 - 1969). Il biennio 1966 - 1968 fu tragico per il Tibet. Durante la Grande rivoluzione culturale, i cinesi organizzarono campagne di vandalismo contro monasteri e siti simbolo della cultura tibetana. Dal 1950 venne distrutta la quasi totalità dei monasteri, oltre 6.000, di cui molti secolari. Circa 1.200.000 tibetani vennero uccisi. Si tratta comunque di stime in quanto non furono diffusi rapporti ufficiali e i tibetani non erano in grado di potere verificare con esattezza il numero. Anche gli arrestati furono molte migliaia. Anche ad oggi si contano tibetani, soprattutto monaci e monache, nelle carceri cinesi per reati politici legati alla richiesta di indipendenza. La nuova resistenza ha inizio nel 1977 e dura tuttora, dopo due dure repressioni, rispettivamente nel 1980 e nel 1989. Nel 1978, 1979, 1981, 1984 e 1991 la stampa mondiale si occupò del problema irrisolto tibetano. Il Governo tibetano in esilio denuncia la volontà del Governo Cinese di cancellare definitivamente la cultura del Tibet con la repressione, da una parte, e con una propaganda martellante sui mass media e per le strade. Inoltre le scuole non possono insegnare il tibetano oltre ad una certa età, mentre rimane il cinese la lingua ufficiale. Anche il Dalai Lama, in esilio, ormai non richiede più l'indipendenza del Tibet, ma una vera autodeterminazione che possa preservare ciò che è rimasto della sua cultura e che possa garantire ai tibetani i diritti umani fondamentali. Dopo la morte di Mao, continua la resistenza attiva e passiva dei tibetani. Il nuovo leader cinese, Deng Xiaoping (1904 - 1997, promuove a partire dal 1983 massicci trasferimenti di cinesi in Tibet ed il trasferimento forzato s'incrementa dopo il fallimento dei colloqui segreti tra il governo cinese ed il Dalai Lama nel 1987). Pechino si rifiuta di riconoscere il Dalai Lama soprattutto dopo il conferimento del premio Nobel per la pace al Dalai Lama stesso. La morte del Panchen Lama nel 1994 aggrava la tensione: al nuovo Panchen Lama di nomina buddista, la Cina ne nomina uno di sua fiducia. L' XI° Panchen Lama Gedun Choekyi Nyima e tutta la sua famiglia sono da poco scomparsi dalla scena e si ritiene siano sotto arresto domiciliare in Cina pochi giorni dopo che egli era stato riconosciuto dal Dalai Lama (14 Maggio 1995) come la reincarnazione del X° Panchem Lama; questo fatto venne seguito dall' arresto di Chatral Rinpoche, l' abate del monastero di Tashi Lhunpo - la sede dei Panchen Lama. Lo stato ha interferito direttamente con la libertà religiosa dei singoli ed ha imposto un Panchen Lama fasullo nel Novembre 1995.

Articolo tratto da Wikipedia.it

Perdita della memoria


Francia: morto l'ultimo veterano della Grande guerra
. Era un italiano immigrato
Era nato a Bettola, in provincia di Piacenza. Combattè nelle Argonne e sul fronte italiano con gli alpini.


Restano in tredici. Con la scomparsa di Lazare Ponticelli, sono soltanto 13 in tutto il mondo i veterani ancora viventi che hanno combattuto nella prima guerra mondiale. Lazare Ponticelli, 110 anni compiuti lo scorso 7 dicembre, era l'ultimo veterano francese della Grande guerra, uno dei tanti poilu (così venivano chiamati i fanti in Francia) che hanno combattuto nelle trincee fangose della Marna e a Verdun. Solo che era italiano. Lazare era nato a Bettola, in provincia di Piacenza, ai tempi di re Umberto I, dove venne battezzato con il nome di Lazzaro.
Un'infanzia durissima e poverissima in una zona dell'Appennino dove si faceva davvero la fame. Tanto che la madre lasciò il marito con il solo Lazzaro, ed emigrò in Francia portandosi appresso gli altri tre figli. All'età di 9 anni arriva a Parigi anche lui alla Gare de Lyon, dove resta tre giorni e tre notti senza mangiare finché viene soccorso da un capostazione che lo porta in un posto frequentato dagli immigrati italiani.
All'età di 16 anni si arruolò nella Legione straniera e, dopo un periodo in Algeria, venne mandato in prima linea nelle Argonne. Ma nel maggio 1915 l'Italia entra in guerra, l'esercito italiano si ricorda di lui e lo richiama. Viene arruolato negli alpini e spedito a combattere al fronte contro gli austro-ungarici. L'anno dopo viene ferito alla testa e rimane in ospedale militare a Napoli sino alla fine del conflitto.Nel 1921 torna in Francia e fonda con i fratelli una piccola azienda di costruzioni di caminetti che con il tempo diventa una rinomata società internazionale nel campo delle perforazioni petrolifere. La Francia gli ha assegnato la Legion d'onore e la Croce di guerra, per l'Italia è Cavaliere di Vittorio Veneto.
Nel 2007 Ponticelli aveva dichiarato di rifiutare i funerali di Stato alla sua morte e la sepoltura al Panthéon a Parigi, come stabilito in Francia da una legge del 2005. «Non è giusto che spettino solo all'ultimo sopravvissuto, facendo un affronto a tutti gli altri, morti senza avere gli onori che meritavano», aveva detto. «Non si è fatto nulla per loro, anche un piccolo gesto sarebbe stato sufficiente». Poi ci ha ripensato e ha accettato «nel nome di tutti coloro, uomini e donne, che sono morti nella prima guerra mondiale». Il presidente francese, Nicolas Sarkozy, ha espresso «la pronfonda emozione e l'infinita tristezza di tutto il Paese per la scomparsa di Ponticelli. Rendo omaggio al bambino italiano giunto a Parigi per guadagnarsi da vivere che ha scelto di diventare francese». Lo scorso dicembre anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, gli aveva inviato un messaggio di auguri in occasione del suo compleanno.
Ora i reduci della Grande guerra restano in tredici: due in Italia (Delfino Borroni e Francesco Domenico Chiarello, entrambi di 109 anni), uno in Germania, tre in Gran Bretagna, due negli Usa, uno in Turchia, uno in Canada e tre in Australia.

Articolo tratto da Corriere.it

10 marzo 2008

Digestione problematica


Quando un "rutto" costa il rosso

Espulso per aver commentato "rumorosamente" una punizione assegnata dall'arbitro agli avversari. E' successo a uno juniores del Lavello (serie D).

Una protesta "pesante", a metà tra il dissenso nei confronti dell'arbitro e il sollievo di digerire un pranzo un po' sopra le righe. Un rutto. Rumoroso ed evidentemente irrispettoso nei confronti dell'arbitro. Ecco il motivo, originale e un po' comico, dell'espulsione di un giocatore del Lavello, formazione lucana iscritta al campionato "juniores nazionali", girone N, e sconfitta dal Campobasso (9-0) nella partita giocata sabato in Molise.
Al 36' del primo tempo, sul punteggio di 2-0, il fattaccio, riportato dal quotidiano Primo Piano: c'è una punizione per il Campobasso considerata "generosa" dal Lavello. Qualcuno protesta, qualcun altro allarga le braccia sconsolato. Uno, forse senza pensarci, fa partire un sonoro commento che non sfugge all'arbitro, il beneventano Mazzulla. Rosso diretto e Lavello in dieci, avviato verso il 9-0 e un pomeriggio difficile da digerire...

Articolo tratto da Gazzetta.it

08 marzo 2008

Festa della donna


La sfida è tra donne e si svolge a Lima. In campo le squadre di due diversi gruppi etnici. Si gioca a pallone in Perù per festeggiare in modo inusuale l'8 marzo.




Articolo tratto da Repubblica.it

07 marzo 2008

Connivenze


"In Kenya il governo fu complic
e delle violenze"
I media denunciano l’alleanza con i miliziani.



Il
governo keniano sarebbe stato direttamente coinvolto nelle violenze postelettorali in Kenya, grazie a un’alleanza con la milizia dei Mungiki, ufficialmente bandita dal Paese nel 2002. L’accusa emersa ieri da una fonte anonima (un poliziotto), e diffusa dalla 'Bbc', sembra confermare i sospetti già circolati successivamente allo scoppio delle violenze a carattere etnico che hanno scosso nelle scorse settimane il Paese africano. Secondo la fonte, alcuni importanti esponenti governativi avrebbero tenuto incontri con membri del gruppo armato addirittura nella residenza presidenziale, dando loro ordine di difendere i kikuyo (l’etnia del presidente Kibaki) nella regione della Rift Valley. La fonte ha puntato il dito contro le complicità governative, sostenendo che ad esempio alla polizia fu intimato di lasciare passare un convoglio di dodici mezzi pieni di miliziani che avrebbero poi scatenato violenze a Nakuru. Il governo ha negato le accuse, sostenendo che esse sono «assurde».



Articolo tratto da Korogocho.org

Offerte divine...


Maha Shivaratri

Si celebra il Maha Shivaratri, cioè la Notte del dio Shiva. I suoi adoratori lo considerano unanimemente come il momento più sacro dell'anno.


Un sadhu fuma marijuana in onore di Shiva al tempio Pashupati a Kathmandu, in Nepal.


A Jammu, capitale invernale del Kashmir, un attore rappresenta Shiva, colorato in blu in quanto il Dio bevve il veleno primordiale per salvare la creazione durante la guerra tra gli dei e i demoni.


Sadhu al tempio Pashupati a Kathmandu, in Nepal.


Un devoto di Shiva a Loknath, presso la città indiana di Allahabad. Shiva è anche il dio della distruzione.

Articolo tratto da Corriere.it

05 marzo 2008

La società civile


Terra contesa

È tra i dieci paesi dove la sperequazione tra ricchi e poveri è maggiore. L’ineguaglianza è abissale. Anche nella ridistribuzione della terra. Gli scontri etnici più cruenti di questi mesi, infatti, sono avvenuti nella Rift Valley, la zona più fertile. Tuttavia, gli avvenimenti tragici hanno fatto emergere anche la forza di un attore di cui si parla poco in Africa: la società civile. Seconda settimana di febbraio. Di ritorno da Marsabit, il capoluogo della provincia orientale, ai confini con l’Etiopia, atterro all’aeroporto Wilson, quello adibito ai voli interni. Un gruppo di turisti – tutti rigorosamente in tenuta kaki, cappello a falde larghe, armati di macchina fotografica o telecamera ultimo modello – si preparano a imbarcarsi sull’aereo che li porterà al parco del Maasai Mara. Il clima è sereno, direi quasi spensierato. Mi sembra di sognare: ma è questo il Kenya delle rivolte nelle baraccopoli di Mathari e di Kibera e degli eccidi nella Rift Valley? Due Kenya contrapposti. Salgo su un taxi, che mi porta a casa. Lasciando Kibera, passo davanti a un centro commerciale. Il parcheggio è stracolmo di auto e di gente che fa le spese per il fine-settimana. Lì ci sono negozi con articoli di lusso che non hanno niente da invidiare a quelli occidentali. Ma è questo il Kenya della miseria abietta e degli scontri etnici? Due Kenya, lontani anni luce. Il giorno dopo, mi capita di passare per Kileleshwa, una delle zone signorili di Nairobi: ville immerse nel verde e gente rilassata che passeggia per strada. Un Kenya quasi ovattato. Mi fermo per acquistare il quotidiano. Le prime pagine riportano foto e notizie dei 300mila rifugiati e sfollati, degli oltre mille morti, delle violenze inaudite... Ma di quale Kenya stiamo parlando? Un Kenya dissociato. Un paese malato. Ma non da ora. L’isola felice circondata da vicini instabili è un sogno del passato che, forse, è esistito solo nei dépliant turistici o nelle cancellerie occidentali. In questo paese c’è una divisione scandalosamente abissale tra ricchi e poveri. Uno studio pubblicato nel 2004, intitolato Pulling Apart. Facts and Figures on Inequality in Kenya, mostra una realtà sconvolgente. Un Kenya diviso, appunto, che si basa sull’ineguaglianza sistematica. C’è, quindi, un Kenya del povero e uno del ricco; delle province del centro, più ricche, e di quelle del nord, più povere; dell’uomo e della donna; di chi è malato e può curarsi e di chi non può avere le medicine; di regioni dove l’aids è endemico e di quelle dove è quasi inesistente; di chi ha acqua e di chi non ce l’ha; di chi va a scuola in strutture decenti e di chi non ci va. Insomma: un Kenya schizofrenico. Lo stesso studio afferma che il 10% delle famiglie più ricche controlla il 42% della ricchezza nazionale, mentre al 10% più povero rimane lo 0,76%. Per ogni scellino kenyano che i poveri guadagnano, i ricchi ne guadagnano 56. Il Kenya è tra i dieci paesi dove la sperequazione tra ricchi e poveri è maggiore. Come meravigliarsi, quindi, se la distribuzione della ricchezza sia stato uno dei punti forza della campagna elettorale dell’opposizione e se molta gente, con la mancata elezione dell’opposizione alla presidenza, si sia sentita negata dei suoi diritti fondamentali? Ma, si sa, niente qui è solo politico o economico: le recriminazioni si sono rivolte contro gruppi etnici, accusati di eccessivi privilegi a danno di altri. Ma c’è anche una crisi sociale particolarmente acuta: erosione dei valori culturali; aumento della criminalità; numero sempre maggiore di giovani senza lavoro; un sistema scolastico e sanitario in decadenza; collasso di molte comunità rurali; aumento della violenza familiare; la piaga dell’aids; un’urbanizzazione selvaggia, che fa di Nairobi la città africana con la più estesa baraccopoli, Kibera. A questi problemi se ne associano altri, di dimensioni più planetarie, ma che acutizzano le difficoltà locali: il cambiamento climatico e la globalizzazione del commercio e della finanzia, che mira solo al profitto e alla privatizzazione. La mancanza di rispetto dei diritti umani e l’aumento del divario tra ricchi e poveri sono le conseguenze più perverse di questa globalizzazione economica, che prende le forme di un capitalismo neo-liberista. E una forte crisi sociale è un potente carburante di instabilità. Se ne è avuta la prova in queste settimane. Le bande che distruggevano e uccidevano erano formate da giovani e giovanissimi. La tolleranza e il dialogo, retaggio della migliore cultura africana, sembravano persi nella follia generale. Ma c’è anche l’insoluto problema della distribuzione della terra. L’opposizione parlava di majimbo nel suo manifesto elettorale, cioè di federalismo, decentramento dei poteri dal centro alla periferia. Non si tratta di una proposta di semplice riorganizzazione statale. Molti altri fattori entrano in gioco. Primo fra tutti la distribuzione della terra e, quindi, il diritto di amministrare la terra “ancestrale” da parte delle popolazioni autoctone, con l’esclusione degli “stranieri”, cioè dei non originari del luogo (particolare, questo, che porta in sé pericolosi risvegli del demone dell’ideologia della differenza tribale, dell’odio e dello scontro etnico). Ho avuto una riprova di come la terra sia il problema fondamentale in Kenya durante lo stesso viaggio di ritorno da Marsabit, con un piccolo aereo Cessna a cinque posti. Vista mozzafiato: sotto di me il deserto, immenso, uniforme, scarsamente abitato e lo sguardo che sembrava perdersi all’orizzonte. Man mano, però, che mi avvicinavo al Monte Kenya, il paesaggio cambiava: il giallo del deserto si tramutava nel verde delle colline e dei campi coltivati. Ogni metro messo a coltura. Gli agglomerati urbani molto più popolati e gli spazi decisamente più stretti. Impressionante la densità della popolazione in queste zone. Questo è un altro problema: due terzi del territorio è coperto da zone aride e semiaride, inadatte alla coltivazione. Se si collega questo dato al fatto che la popolazione è quadruplicata negli ultimi 40 anni, ci si può rendere conto di come la questione della terra sia diventata vitale. E, appunto, la sua distribuzione è stato un secondo cavallo di battaglia dell’opposizione, con evidenti ricadute etnico-tribali. Il problema non è di facile soluzione. Gli scontri etnici più cruenti sono avvenuti nella Rift Valley, cioè nella zona più fertile del Kenya. Terra ancestrale del gruppo linguistico kalenjin, era stata presa d’assalto da popolazioni di etnia diversa fin dal tempo dell’indipendenza del paese (1963), quando Jomo Kenyatta, il primo presidente, cominciò a ridistribuire le terre lasciate dai coloni bianchi, favorendo sfacciatamente, però, la sua etnia, i kikuyu. In seguito, anche altri gruppi vi si stabilirono in modo permanente. Su questi altopiani, considerati il granaio del Kenya, gli scontri etnici non sono nuovi. Sono avvenuti nel 1992, poi nel 1997 e, infine, nel 2007, sempre in connessione con le elezioni politiche. Ma il vero problema non è la politica, e nemmeno l’etnia. È la terra e una popolazione, in continua espansione, che la reclama. Quindi, la Rift Valley, denominata la “Valle felice” al tempo della colonizzazione inglese, è stata ora ribattezzata la “Valle della morte”. Oltretutto, alcune famiglie (i Kenyatta, i Moi, i Kibaki, tanto per citare i nomi dei primi tre presidenti “padroni” del paese), sono grandi proprietari terrieri, con possedimenti proprio in questa valle. La ridistribuzione equa della terra diventa, quindi, un problema di giustizia sociale, oltre che di stabilità sociale. A lottare per la terra non sono solo le popolazioni sedentarie. Anche le etnie di pastori nomadi e seminomadi del nord vedono le aree da pascolo ridursi a vantaggio di altri usi per altre popolazioni. Qui il problema assume un carattere regionale, perché coinvolge gruppi di confine, in costante lotta per i pascoli e le riserve d’acqua: i karimojong dell’Uganda, i topossa del Sud Sudan, i pokot e i turkana del Kenya, i borana e i gabbra, lungo la frontiera tra Kenya ed Etiopia. Qui il conflitto è esacerbato dalla disponibilità e dall’acquisto di armi automatiche, che rendono le zone di confine endemicamente insicure. Un libro pubblicato nel 2000, Kenya at the Crossroads (“Il Kenya al crocevia”), descriveva alcuni possibili futuri scenari per il paese. Uno di questi – che prevedeva con precisione ciò che sta accadendo oggi – pronosticava la dissoluzione dello stato nazionale e l’emergere di entità territoriali su base etnica. La gente si sarebbe ritirata nel proprio territorio ancestrale, consolidando la propria appartenenza clanica. Le milizie etniche si sarebbero trasformate in veri e propri eserciti. Uno scenario terrificante, pronosticato come «molto probabile». Tutto ciò oggi sembra realtà: le popolazioni si spostano verso le loro terre d’origine, dove si sentono più sicure. A Nairobi, ogni giorno, si vedono persone che caricano le proprie masserizie su carretti o camioncini e si spostano verso aree dove il proprio gruppo etnico è prevalente. Nonostante questo possibile scenario apocalittico, rimango ottimista. Non solo per i molti atti di eroismo di singole persone e per la significativa presenza di chi ha parlato con la voce della ragione in un momento di pazzia collettiva. Ma anche – e soprattutto – perché questi avvenimenti tragici hanno fatto emergere la forza e la vivacità di un attore di cui non si parla molto in Africa. Un attore che diventerà il vero motore del cambiamento in questo paese. Un attore che, già in questi mesi, ha dato voce alla tolleranza e al dialogo. Il suo nome? Società civile. Al di là delle morti e delle distruzioni, e ben oltre le mediazioni internazionali che non sembrano sortire accordi, vedo il prezioso lavorio di tanti movimenti di organizzazioni non governative, di gruppi religiosi, di giornalisti ed editori, di artisti e imprenditori e sindacalisti... che vogliono un Kenya nuovo, più vivibile, più giusto. Io scommetto su di loro.

Articolo di Mariano Tibaldo - Nigrizia marzo 2008

Articolo tratto da Korogocho.org

Foto di Riccardo Villani tratte da Nigrizia.it

Allucinogeni


Mosè sotto l'effetto di droga sul Sinai

Quando ricevette i 10 Comandamenti. Lo sostiene uno psicologo israeliano.

Il profeta Mosè, secondo un ricercatore israeliano, si trovava sotto l'effetto di droghe quando sul Monte Sinai Dio gli consegnò i Dieci Comandamenti. Le sostanze attive che provocano illusioni sensoriali, quali gli allucinogeni, avrebbero avuto un ruolo importante durante i riti religiosi degli israeliti ai tempi della Bibbia, ha spiegato il ricercatore Benny Shannon nella rivista di filosofia «Time and Mind». Nel caso di Mosè, dice il professore di psicologia cognitiva all'università di Gerusalemme, non si è trattato di un «evento sovrannaturale». Ma non è neppure solo leggenda: «E' molto più probabile che la vicenda si sia svolta sotto l'effetto di qualche droga psichedelica», ha detto Shannon ieri alla radio israeliana. Mosè sarebbe stato alterato anche quando vide «il cespuglio di spine ardente», dove si manifestò l'angelo di Jahweh, appunto, sotto la forma di una fiamma di fuoco. Anche in questo caso all'origine delle «visioni» ci sarebbero stati delle sostanze narcotizzanti.
«La Bibba riporta che le persone udivano dei suoni, e questo è uno dei classici fenomeni col quale si manifestano certe droghe». Molti culti amazzonici utilizzano a scopi rituali l'ayahuasca, un intruglio vegetale, che combinato sintetizza la molecola in questione e provoca degli effetti psicoattivi. La sostanza è ancora usata frequentemente dagli sciamani o stregoni indigeni in Amazzonia. «Anch'io ho avuto delle visioni, che avevano significati religiosi e spirituali», ha detto lo scienziato che afferma di aver testato il miscuglio. Gli effetti psichedelici sono comparabili con la sostanza estratta dalla corteccia dell'albero di acacia. E quest'albero viene menzionato spesso nella Bibbia, dice in conclusione Shannon al Time and Mind Journal of Philosophy.
La notizia è stata ripresa anche dal quotidiano israeliano Haaretz, scatenando una serie di reazioni polemiche. Ma la più frequente è stata: «Che cosa si è fumato Shannon prima si scrivere il suo articolo?». Il professore, del resto, avrebbe ammesso che «chiuque può assumere allucinogeni ma per ricevere le Tavole della Legge bisogna essere Mosè».

Articolo tratto da Corriere.it

02 marzo 2008

"Educazione collettiva alla pace"


Kenya, chi ricostruirà la pace?


Chi ricostruirà la pace, in Kenya? Ieri migliaia di persone hanno celebrato nelle strade l'annuncio di un accordo di «condivisione del potere» tra il presidente Mwai Kibaki e il leader dell'opposizione Raila Odinga. Un sollievo collettivo: l'ondata di violenza seguita alle contestate elezioni del 27 dicembre è stata la più grave nella storia del Kenya indipendente, ha fatto oltre 1.000 morti e oltre 300mila sfollati. Soprattutto ha polarizzato le comunità e ha devastato la vita di milioni di persone, soprattutto povera gente. Risolvere l'impasse politico era senza dubbio il primo passo, indispensabile per fermare la violenza. In questo è stata determinante la mediazione dell'ex segretario dell'Onu Kofi Annan e di Graça Machel. Ora però il compito di riunire le comunità e ripristinare la fiducia reciproca richiede un approccio molto attento da parte del governo, delle forze della società civile, della comunità internazionale. Nelle ultime settimane, il braccio di ferro politico e il viavai di diplomatici stranieri hanno dominato le notizie sul Kenya, ma nella copertura mediatica la sofferenza delle persone è scomparsa. Il senso di paura rimasto nell'animo dei kenyoti è tangibile nel campo Showground, a Nakuru, nella Rift Valley. Sono qui con alcuni colleghi di ActionAid kenya, impegnati in un'opera di sostegno umanitario e di iniziative per ricostruire la pace. In questo campo hanno trovato riparo molti sfollati interni. Ho incontrato famiglie che cercano di non soccombere alla rassegnazione e alla disperazione. Ciome Josephine: ha allestito un «negozio» di fortuna dove vende verdure. Lei, il marito e i loro 7 figli sono fuggiti dalla città di Kamora nell'ottobre scorso: «Eravamo in casa. D'improvviso gli uomini armati hanno cominciato ad attaccare le case vicine. Siamo fuggiti». Da allora la vita della famiglia è stata stravolta. Hanno raggiunto dapprima la relativa sicurezza della casa ancestrale di Josephine a Mogotio. Ma il 27 gennaio, quattro settimane dopo le elezioni, la violenza è arrivata anche là. Questa volta sapevano che la loro famiglia non sarebbe stata risparmiata e sono fuggiti di nuovo, prendendo sù il poco che potevano. Donne e bambini sono stati particolarmente colpiti, molti qui raccontano di aver visto uccidere membri della propria famiglia. Al Gender Recovery Centre dell'Ospedale civile di nairobi una consigliera spiega che la spirale di violenza ha lasciato il segno: «ogni giorno vediamo arrivare persone che soffrono di estremo stress e trauma». Ci sono stati molti casi di violenza specialmente diretta a donne e ragazze, un assortimento di orrori che include lo stupro. «Sono ferite profonde e ci vorrà tempo per tornare alla normalità». E se è importante provvedere cibo, acqua, riparo e tutti i concreti bosogni, sarà necessario anche ricostruire il benessere emotivo. La violenza ha lasciato profonde divisioni tra le comunità, riacceso vecchi odii, eroso la fiducia reciproca tra le molte etnie del Kenya. Per ricostruire la pace è necessario coinvolgere le persone di ogni comunità. Una «road map» per la ricostruzione dovrà appoggiarsi in primo luogo alle donne e ai giovani. È necessario che le donne abbiano un ruolo centrale; quanto ai giovani, sono circa 2 terzi dell'elettorato e hanno avuto un ruolo distruttivo nella violenza: è necessario il loro impegno attivo, e bosogna anche creare lavoro per loro. Ci vogliono interventi di ricostruzione «conflict-sensitive», cioè che non amplificano discordie ma al contrario siano pensati per risolverne le cause. Servono, anzi, investimenti capaci di combattere la povertà e l'ingiustizia. I media devono contribuire alla pacificazione, così come la comunità internazionale. Serve una «educazione collettiva alla pace». Anche lo sport e la cultura hanno un ruolo cruciale da giocare - mai sottostimare il potere unificante del calcio...

Articolo di Unnikrishnan PV, medico, consigliere sulla sicurezza umana per ActionAidInternational

Articolo tratto da IlManifesto.it

Votazioni Russe


In Russia sono conosciuti come i componenti della storica società sportiva "polar bear". La neve e le basse temperature non sono per loro un problema come mostrano le immagini. Questi sportivi "atipici" hanno dato dimostrazione della loro abilità e forza a resistere al freddo proprio in occasione del voto presidenziale in Russia. Prima l'esibizione nella neve, poi al seggio....




Articolo tratto da Repubblica.it