31 gennaio 2008

La situazione vista dall'interno


Ol Moran


"La situazione del paese in questi giorni è ancora molto incerta, anche se le due parti hanno iniziato un certo dialogo, mediati da Kofi Annan. In TV si sono anche stretti la mano e han bevuto il tè in compagnia... ma si sa che non basta. In questi giorni stiamo proprio aspettando di vedere se questo incontro avrà degli esiti concreti nel paese, nella politica e nel governo stesso. Anzi, in alcune grandi città continuano scontri e vendette tribali. Ormai appare chiaro che erano cose organizzate da tempo, e non solo conseguenze delle elezioni. Molto spesso e' gente che non ha niente da perdere, senza scrupoli o vittime di ingiustizie sociali che li portano a disperazione, manovrati da altri che ricavano interessi da questi contrasti, con esiti spesso tragici: avrete sentito anche voi le decine di morti a Nakuru, tra cui un prete: ma anche qui, la questione non è religiosa, bensì tribale. Questo qui era in auto, l'hanno fermato, han visto che era un Kikuyu, e l'hanno ammazzato di botte. Forse senza sapere che era un prete. La cosa più preoccupante, piuttosto, è che ora iniziano a reagire anche alcuni fanatici tra i Kikuyu stessi, e si rischia di perdere il controllo anche in altre città. Comunque sia, come sapete, noi non ci troviamo in una zona direttamente interessata a questi conflitti, anche se, per essere sinceri, qualche preoccupazione tra la nostra gente comincia a farsi sentire. Il problema più grosso comunque per ora rimangono le ruberie di bestiame, perchè la polizia non è decisa a intervenire. Stiamo anche ricevendo alcune famiglie di rifugiati: quelli che arrivano nella zona della nostra parrocchia - che non è proprio a portata di mano come zona... - sono per lo più persone che contano sull'appoggio di parenti che abitano qui. Come parrocchia, assieme alla Croce Rossa locale e ad altre confessioni cristiane, abbiamo organizzato una raccolta di generi di prima necessità e vestiti per dare una mano a queste famiglie. Sono più 250 persone. Solo ieri ci sono stati dei disordini anche nella vicina Nyahururu, a causa di un gruppo di manifestanti che se la sono presa con alcuni gruppi tribali di minoranza. La polizia è' riuscita a fermarli in tempo e già a sera l'emergenza era rientrata, senza vittime. Rimane la tensione. Per tutti questi motivi, stiamo comunque scoraggiando la visita di ospiti dall'Italia: si tratta di prudenza più che di emergenza. Meglio aspettare un paio di mesi piuttosto che trovarsi con grane per la strada. Nonostante questa situazione, è positivo poter vedere come i bambini e gli studenti più grandi possono imparare a stare insieme, anche se da tribù diverse, e giocare insieme, studiare insieme, vivere insieme. Che sia una tribù, una nazione, una religione o una squadra di calcio, le scuse per essere divisi e fare violenza non mancano mai: la via della pace e della giustizia è in salita, ma davvero è l'unica".

Lettera tratta dal BlogDegliAmiciDiOlMoran

Foto tratte dal blog InsightKenya

28 gennaio 2008

La "febbre della Rift Valley"


Kenya, ancora stragi

Decine di morti nella zona della Rift Valley, scontri e massacri tra le etnie kikuyu e luo.

La voce di Faith al telefono è fioca: “Non so quanti siano i morti, quaranta cinquanta. Solo domattina con la luce del giorno potremo contarli. Sono stati tutti ammazzati a colpi di panga (così si chiama il machete in Kenya, ndr) o con frecce avvelenate. La situazione è critica. Non abbiamo ossigeno e non possiamo operare i feriti”. E’ già sera inoltrata a Nakuru, nel cui ospedale, ormai stracolmo di pazienti vittime della violenza interetnica, come caposala, lavora Faith. La furia omicida si è scatenata nella Rift Valley, regione occidentale del Kenya, dopo le contestate elezioni presidenziali del 27 dicembre.
Il 5 gennaio durante un’intervista davanti al letto di un uomo con una freccia piantata nella scatola cranica, la ragazza si era sfogata: “Basta con la guerra tra tribù. Io sono kikuyu, ma aiuto tutti; anche i kalenjin e i luo”. Kikuyu è anche il presidente Emilio Mwai Kibaki accusato dall’opposizione (la cui spina dorsale è formata dai kalenjin, dai luya e dai luo) di aver vinto le elezioni con i brogli. L’antagonista di Kibaki, Raila Amolo Odinga, che è un luo, sostiene di essere stato lui il trionfatore della tornata elettorale del 27 dicembre.
Domenica le violenze si sono spostate più a sud, a Naivasha, una novantina di chilometri dalla capitale Nairobi, dove in una casa sono state bruciate vive 14 persone della stessa famiglia. Gli assalitori hanno circondato l’abitazione bloccato le porta e finestre e appiccato il fuoco. Per le strade di Naivasha sono stati raccolti dalla Croce Rossa altri nove cadaveri con la testa spaccata a colpi di panga. Questi sono gli episodi più eclatanti di cui sono venuti a conoscenza i giornalisti.
Si teme però che nelle campagne e nei villaggi isolati ci siano state delle stragi di cui nessuno ha ancora notizia. “Sono atti mostruosi – ha commentato Odinga – che condanno con tutta la mia forza. Ci sono comunque bande criminali che si muovono con la protezione della polizia per creare un clima del terrore nel Paese”. L’ondata di violenza ha provocato un afflusso di sfollati: almeno 300 mila, sostengono fonti delle Nazioni Unite. I massacri hanno fatto passare in secondo piano il tentativo di mediazione dell’ex segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, a Nairobi da quasi una settimana. Annan domenica ha incontrato Odinga e lunedì dovrebbe incontrare Kibaki. Le loro posizioni sono però ancora assai lontane. Siamo riusciti a parlare con un diplomatico (non italiano) che domenica ha incontrato Kofi Annan: “Il problema da risolvere è politico, non etnico o razziale. Ci sono alcuni ambienti kenioti che traggono vantaggio dal caos che regna in alcune zone del Paese. Un Kenya instabile, insomma, giova a qualcuno. Annan sta cercando di farlo capire sia a Kibaki sia a Odinga, perché siano essi ad allontanare dalla propria cerchia questa gente che non ha a cuore le sorti e gli interessi del loro Paese, ma pensa solo ai propri affari senza curarsi dei poveri e dei diseredati. Persone che per il proprio tornaconto sono disposte a tollerare o, peggio, incoraggiare i massacri. I morti della Rift Valley non sono altro che sacrifici umani”.

Articolo tratto da Corriere.it

25 gennaio 2008

Una spiegazione "possibile"


La violenza in Kenya può essere terribile, ma non è “barbarie” insensata.

La fantasia esotica che l’occidente ha dell’Africa significa che non riusciamo a capire le reali ragioni che determinano il conflitto nei paesi in via di sviluppo.


Domani sarà la volta di Kofi Annan di arrivare in una tesa Nairobi, seguendo i passi dell’Arcivescovo Desmond Tutu e John Kufuor, il presidente Ganiano e capo dell’Unione Africana, la scorsa settimana, e dei diplomatici USA e dell’ex presidente della Sierra Leone la settimana precedente. Mentre i turisti abbandonano le spiagge del Kenya, il paese è tragicamente diventato la prima destinazione per un nuovo tipo di visitatore – il mediatore internazionale.
Ma finora, tutti loro sono riusciti ad ottenere non più di ciò che potrebbe essere definita una minipausa, rifacendo in fretta le valigie previste per la sosta di una sola notte con niente da mostrare che provasse i loro sforzi.
Il Kenya è ficcato in un pericoloso punto morto, con nessun punto di accordo tra Mwai Kibaki, che ha rivendicato la presidenza nella recente contestata elezione, e il suo oppositore, Raila Odinga, da cui far partire negoziati sulla condivisione del potere. Il paese si tiene forte questa settimana, quando i deputati recentemente eletti dovranno occupare i loro seggi, e si teme che cazzottature possano scoppiare in parlamento.
L’Orange Democratic Movement di Odinga sta meditando se riportare i suoi sostenitori in strada a protestare per ciò che credono essere una ingiusta elezione da parte di Kibaki. A Londra e Washington, per non parlare di Kampala e Kigali, si è vicini al panico. Londra ha bisogno che il Kenya sia una storia africana di successo, ha dato al paese £175 milioni in aiuti. Gli USA hanno assolutamente bisogno del Kenya come stabile alleato per la loro strategia post-11 settembre - è una base vitale per il Corno, lo Yemen, il Golfo e l’Africa Orientale. Allo stesso tempo, i paesi confinanti hanno bisogno del Kenya come aggancio all’economia mondiale; le forniture di carburante già scarseggiano in Uganda e il commercio attraverso il porto di Mombasa dà segni di arresto.
Nessuno sottostima la portata di questa crisi. Mentre in occidente i diplomatici e gli addetti ai soccorsi stanno quietamente digrignando i denti in un insieme di frustrazione e ansietà, la storia dei media – con alcune eccezioni come Peter Kimani, un giornalista keniano di
openDemocracy.net – è stata semplice: totale confusione.
Ecco come la storia è stata incorniciata : il pacifico Kenya che noi conosciamo e amiamo come lo vediamo nelle foto delle nostre vacanze è improvvisamente esploso in una barbarie tribale insensata.
Ci sono due vecchi elementi che sottolineano questa prospettiva. C’è la persistente fantasia occidentale dell’esotico che noi proiettiamo sull’Africa, ma le quiete spiagge orlate di palme dei nostri album delle vacanze (li ho anch’io) sono la creazione della nostra immaginazione turistica, che ci priva di ciò che non possiamo o non vogliamo capire. Esse non hanno niente a che fare con la tumultuosa, violenta e rapidamente mutevole realtà del Kenya negli anni recenti.
In secondo luogo, il servizio di informazione mostra come velocemente l’occidente ritorna al razzismo. Perché la parola “tribale” è usata soltanto quando ci si riferisce all’Africa?
Perché non parliamo delle tribù del Belgio o delle tribù del Medio Oriente? No, soltanto in Africa la violenza inter-etnica viene lanciata come “antico”, immutabile tribalismo, associato, nella mentalità europea, a barbarie e irrazionalità.
E’ un linguaggio di auto-felicitazioni – noi siamo civilizzati, gli Africani no. Altrimenti come sarebbero esplose all’improvviso le ridicole analogie con il Rwanda?
Il Kenya e il Rwanda hanno storie, relazioni etniche ed economie politiche completamente diverse.
Ma questo viene messo da parte come irrilevante, e resta la convinzione che la violenza Africana ha ovunque le stesse basi. E’ come se qualcuno avesse affermato che i sobborghi di Parigi in fiamme nel 2005 erano la nuova Bosnia. La confusione nasce dall’ignoranza. In Gran Bretagna, un affascinante melange di White Mischief, The Flame Trees of Thika di Elspeth Huxley e un safari è passato come “conoscenza” del paese. Ma il Kenya è una società complessa con 48 diversi gruppi etnici e con la più alta popolazione spostata internamente in Africa, in gran parte consistente di somali e sudanesi.
Ha alcune delle più grandi baraccopoli in Africa e la sua popolazione giovane, perlopiù disoccupata, lotta per assicurarsi alcune delle conquiste del recente boom economico. E’ difficile immaginare qualsiasi paese negoziare una tale cronica insicurezza e un rapido mutamento sociale ed economico senza che divampino conflitti di interesse.
Ecco perché un attento osservatore del Kenya come David Anderson, professore di politica africana alla Oxford University, non è particolarmente sorpreso della violenza delle ultime settimane. L’opera recente più importante di Anderson è stata l’analisi di come la violenza è diventata una parte della vita economica e politica keniana.
Nei sobborghi più poveri dove il crimine è endemico e la polizia inefficiente e corrotta, le gangs si sono moltiplicate. Chiedono denaro sottobanco ai commercianti locali e il loro comportamento non si differenzia molto dalla polizia o dalle compagnie di sicurezza private. Come il successo nel commercio consiste nel pagare queste gangs, così in politica il successo dipende dall’abilità di mobilitare il sostegno di “youth wingers”.
Giovani uomini disoccupati sono usati per proteggere i sostenitori ed intimidire gli oppositori. Il loro compito può andare dallo strappare i manifesti di un oppositore a gettare torce nel quartiere vicino. Poiché il prezzo della politica keniana si è alzato, i politici non possono letteralmente permettersi di perdere e le gangs fanno parte della strategia perché questo non accada. C’è sempre la possibilità che le gangs usino il paravento della politica per regolare i loro conti. Questa “economia di violenza”, come la descrive Anderson, può suscitare profondi risentimenti nelle discendenze etniche.
Eldoret, la scena dell’orribile massacro nella chiesa ai primi di questo mese, è famoso come punto di infiammabilità. Questa è la regione in cui i Kikuyu, il più grande gruppo etnico che ha tratto il maggior vantaggio fin dall’indipendenza, ha acquisito terra negli anni ’60 espropriando i Kalenjin – un motivo di risentimento che cova irrisolto da allora.
La conclusione a cui si può arrivare è che la politica kenyana è una combinazione di locale e globale – Odinga stava pianificando di copiare le dimostrazioni di massa di stile ucraino in caso di sconfitta elettorale già da novembre. Ma chiamando i suoi sostenitori (e le sue gangs) in strada, riesce a controllare il suo proprio impeto di frustrazione e di rabbia, in parte generato da dispute sulla terra vecchie di generazioni, mentre altri motivi sono molto più recenti, provocati dalla classe media dei Kikuyu che ha agito a proprio vantaggio sotto Kibaki.
La violenza che risulta è certamente barbarica – si è detto che bambini siano stati ributtati dentro la chiesa che stava bruciando ad Eldoret – ma non si tratta di una primordiale inclinazione africana alla barbarie. In uno studio che tratta della spaventosa violenza in Africa in anni recenti, “Civil War is Not a Stupid Thing”, l’autore, Professor Christopher Cramer, afferma che, in un continente che ha visto più guerre dal 1990 che in tutto il secolo precedente, la violenza può essere una forma di comunicazione a cui si ricorre come ultima possibilità. Quando tutti gli altri canali utilizzati per cercare giustizia per i risentimenti esacerbati in un regime corrotto appaiono essere esauriti, alcuni vedono la violenza come l’unico modo di proteggere i loro interessi. Questo non fa giusta la violenza, ma neppure la fa necessariamente insensata.
Essa può avere la sua propria terribile razionalità. Ciò che stiamo vedendo in Kenya – e in altri instabili paesi in via di sviluppo – è come gli esseri umani si comportano quando si confrontano con la cronica insicurezza che la globalizzazione sta covando in tutto il mondo.
Il cambiamento disorganizzato genera il timore che vecchie identità sepolte diventino una polizza di assicurazione – chi si occupa di te? – o facciano di te una vittima.
L’esito è sempre tragico, e questo è ciò che rende così tanti keniani così ansiosi.

Articolo di Madeleine Bunting apparso su "The Guardian, Lunedì, 14 gennaio, 2008" e tratto da Korogocho.org

20 gennaio 2008

Il braccio armato della "legge"


Kenya: 13 oggi i morti in scontri, 32 da mercoledì


E' salito ad almeno tredici il numero di coloro che hanno perso la vita soltanto oggi in Kenya a causa dei disordini e degli scontri con le forze di sicurezza, in cui sono degenrate le manifestazioni di piazza, di nuovo in corso da tre giorni consecutivi, organizzate dall'Odm, l'Orange Democratic Movement, per protestare contro l'esito delle presidenziali del 27 dicembre scorso, che ufficialmente hanno confermato in carica il capo dello Stato uscente, Mwai Kibaki, a spese del candidato e leader della principale forza di opposizione, Raila Odinga, malgrado questi fosse indicato in netto vantaggio tanto dai sondaggi qanto dai risultati preliminari dello spoglio. Il bilancio piu' pesante della giornata odierna, la peggiore da quando sono riprese le proteste, si e' registrato a Kibera, la maggiore baraccopoli di Nairobi nonche' roccaforte dell'Odm, dove le raffiche sparate dalla polizia hanno provocato come minimo sette morti e oltre dieci feriti: l'organizzazione umanitaria 'Medici senza Frontiere' ha denunciato l'accaduto parlando apertamente di un "massacro". Vittime anche a Mombasa, sulla costa dell'Oceano Indiano, e a Narok, nel sud; in ambedue le citta' gli agenti hanno caricato i dimostranti, percuotendoli con i manganeli, lanciando gas lacrimogeni e talvolta aprendo il fuoco ad altezza d'uomo. Da mercoledi' le persone rimaste uccise ammontano nel complesso a non meno di 32, e il computo supera ormai ampiamente le settecento unita' dalla data della contestata consultazione.

Articolo tratto da Repubblica.it






Immagini tratte dal blog InsightKenya

17 gennaio 2008

La situazione non migliora, anzi...


Nairobi: la polizia uccide due dimostranti

Gli agenti hanno sparato ad altezza d'uomo. Crisi umanitaria senza precedenti nel Paese.

Uccisi due dimostranti dalla polizia a Nairobi. Gli agenti hanno sparato a altezza d’uomo giovedì mattina contro un gruppo di giovani che cercavano di uscire allo slum di Dimostranti in Kenya (Ap) Mathare, alla periferia di Nairobi, per raggiungere il centro della capitale. La città è completamente bloccata e presidiata dalla polizia in assetto antiguerriglia, apparentemente decisa a stroncare qualunque tentativo di dimostrare il proprio disappunto contro le elezioni presidenziali che considera truccate. La polizia ha sparato contro i manifestanti anche a Kisum e in altre città del Kenya. Con una messaggio sms inviato ai giornalisti, i sostenitori del partito d’opposizione ODM (Orange Democratic Movement) e del suo leader Raila Amolo Odinga, all’alba hanno confermato che per il secondo giorno consecutivo avrebbero sfidato il divieto di manifestare per le strade delle città del Kenya. Con una messaggio sms inviato ai giornalisti, i sostenitori del partito d’opposizione ODM (Orange Democratic Movement) e del suo leader Raila Amolo Odinga, all’alba hanno confermato che per il secondo giorno consecutivo avrebbero sfidato il divieto di manifestare per le strade delle città del Kenya. «Dimostrazioni pacifiche – aveva sottolineato Odinga in una conferenza stampa -. Non vogliamo provocare nessun incidente. Intendiamo opporci a Kibaki con le armi della nonviolenza, come ci ha insegnato Ghandi».
L’ODM accusa Emilio Mwai Kibaki di aver scippato la vittoria alle elezioni presidenziali del 27 dicembre con i brogli. I suoi leader hanno chiesto all’Unione Europea e agli Stati Uniti di imporre sanzioni al Kenya e al governo, varato pochi giorni fa e definito «illegale». «Le sanzioni sono essenziali per porre pressioni su Kibaki», ha detto Odinga. L’UE dovrebbe esprimersi oggi in proposito.
Il partito di Kibaki, PNU (Party for National Unity), non ha la maggioranza parlamentare e così martedì, durante la prima seduta del parlamento, non è riuscito a conquistare le poltrone riservate allo speaker e al suo vice, andate rispettivamente a Kenneth Merende e a Farah Maalim, entrambi candidati dall’ODM. Luois Michel, commissario europeo allo sviluppo, si è complimentato per l’elezione dello speaker. Ha però minacciato di sospendere il sostegno politico e economico se le autorità non mostreranno buona volontà. «Le prossime giornate saranno cruciali – ha detto alla France Presse -. Adegueremo le nostre relazioni con il Kenya, anche dal punto di vista della cooperazione, a seconda degli atti concreti degli uni o degli altri – ha specificato, riferendosi a governo e opposizione –. Se non ci sarà alcun accordo tra le parti, gli aiuti economici potranno essere sospesi. Comunque non penalizzeremo le popolazioni», ha concluso Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno chiesto al governo di togliere il divieto di manifestare pacificamente e hanno espresso le loro lagnanze per il deterioramento «del buon governo, della democrazia e dell’applicazione della legge e dei diritti umani».
Non si può dire che alle manifestazioni di ieri abbiamo aderito migliaia di dimostranti. La partecipazione è stata scarsa: poche centinaia a Nairobi, in varie zone della città, e a Mombasa. Qualcosa di più nei capisaldi dell’opposizione, Kisumu e Eldoret, una trentina a Malindi, la «capitale degli italiani», dove sono stati saccheggiati due negozi di vestiti di proprietà di kikuyu (la tribù di Kibaki, il Designer Shop e lo Smiles Beauty), ma non ci sono state altre violenze. Ai manifestanti si mescolano spesso banditi, che cercano di approfittare della situazione. A Nairobi e a Mombasa la polizia è intervenuta per bloccare le manifestazioni e disperdere i dimostranti. Gli agenti hanno sparato proiettili di gomma e bombe lacrimogene. A Kisumu, nel ovest del Paese, abitata soprattutto da luo, la tribù cui appartiene Odinga, però ci sono stati tre morti. Una catena televisiva keniota, la Kenyan Television Network, ha mostrato un poliziotto che sparava contro un giovane che cantava ballava e gli faceva risate e boccacce. Quando il ragazzo è caduto a terra ferito, è stato picchiato con i bastoni e portato via. “Testimoni – ha assicurato il network – hanno fatto sapere che è poi morto”. Secondo la KTN i morti in tutto il Kenya sono quattro. Ieri il centro di Nairobi è stato chiuso nel primo pomeriggio e la polizia, alle 4, ha ordinato l’evacuazione degli uffici e la chiusura dei negozi. I matatu, i minibus con cui si sposta la popolazione di Nairobi, sono rimasti bloccati per cui la gente è dovuta tornare a casa a piedi. Per le strade della città si sono sviluppate lunghe file di pedoni. L’ODM cerca così di ricondurre Kibaki alla trattativa. Il presidente si è detto disponibile a parlare con l’opposizione, ha escluso però qualunque presenza internazionale, cosa invece ritenuta essenziale da Odinga: «Ha scippato le elezioni, non ci fidiamo».
Per ora sono fallite le mediazioni del presidente del Ghana e dell’Unione Africana, John Koufur, e dell’arcivescovo sudafricano e leader della lotta anti-apartheid, Desmond Tutu. Ci riproverà nei prossimi giorni l’ex segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan, che doveva arrivare a Nairobi martedì scorso e ha rinviato il viaggio per «una forte influenza».
Il presidente Kibaki, apparso il televisione durante le votazioni per l’elezione dello speaker, è apparso stanco e affaticato.
Secondo i diplomatici che l’hanno incontrato, ancora prima delle elezioni di fine dicembre, in realtà a prendere le decisioni importanti, «compresa quella di truccare le elezioni», è un piccolo gruppo di fedelissimi, tutti kikuyu la tribù maggioritaria del Kenya, cui lo stesso Kibaki appartiene. Molti di loro hanno perso il posto di deputato al parlamento, perché le votazioni hanno sconvolto l’intera geografia della politica keniota. Molti di loro prima che uomini politici sono uomini d’affari, che hanno spremuto il Paese all’inverosimile. L’organizzazione internazionale Trasparency International mette il Kenya ai primi posti nella classifica dei Paesi più colpiti dalla corruzione. Il braccio di ferro tra Kibaki e Odinga sta provocando una crisi umanitaria senza precedenti in Kenya: duecentocinquantamila persone (soprattutto kikuyu) hanno abbandonato le loro case e hanno cercato protezione e sicurezza nelle chiese, egli ospedali e nelle caserme. Seimila sono scappati in Uganda. Le Nazioni Unite hanno lanciato un appello per raccogliere 30 milioni di euro da devolvere in aiuti alle popolazioni colpite dalle violenze. L’agricoltura del Kenya è sempre stata sufficiente a coprire il fabbisogno nazionale, ma le violenze tribali hanno costretto molti coltivatori ad abbandonare le loro terre, soprattutto nella fertilissima Rift Valley (una spaccatura della crosta terrestre che va dal Mozambico all’Etiopia). Anche il settore turistico, un vanto del Paese, è stato duramente colpito. Gli alberghi della costa sull’oceano indiano e i lodge che ospitano i turisti nei parchi sono deserti. I ministeri degli esteri francese e britannico hanno avvisato i propri cittadini di viaggiare in Kenya solo se si hanno motivi di stretta necessità.

Articolo tratto da Corriere.it

Immagini tratte dal blog InsightKenya

14 gennaio 2008

Lettera da Nyahururu

Riporto una mail spedita dal fondatore dell'Associazione Saint Martin, la sua descrizione della situazione non è molto confortante, soprattutto se certe "tensioni" mettono radici tra persone che hanno sempre vissuto fianco a fianco pacificamente con lo scopo di far progredire la società civile Kenyana tramite l'aiuto ai più bisognosi...

"Alcuni amici mi hanno chiesto di scrivere qualcosa su quello che sta succedendo qui in Kenya in seguito alle elezioni. Scrivo dopo qualche giorno, quando l’interesse dei media italiani si è spento, perché non vorrei raccontare gli orrori di cui siamo testimoni, né fare una analisi dei fatti, ma solo dire qualche parola su quello che vive la mia comunità.
Durante la preghiera all’inizio del nuovo anno, John ha raccontato di come avevano ucciso suo fratello e Monica ha narrato la violenza subita dalle sue sorelle. Altri hanno condiviso storie di dolore, di paura, di preoccupazione per familiari e amici chiusi in campi profughi o dei quali non si hanno notizie da giorni. Ne è seguito un lungo silenzio. Njoroge ha rotto quel silenzio per raccontare di sé: “Sono Kikuyu, e dalla nascita mi è stato detto che la mia tribù è migliore delle altre. Sono nato a Eldoret dove i Kikuyu sono una piccola minoranza eppure i miei genitori hanno sempre votato un Kikuyu a rappresentarli in tutte le istituzioni, perfino in parrocchia. Anch’io ho votato come loro: non ho mai trovato una persona degna di rappresentarmi che non fosse Kikuyu. Mi avevano insegnato a dividere il mondo in buoni e cattivi e io appartenevo al gruppo dei buoni. Il nemico era fuori dal mio gruppo e il male una minaccia esterna. Riconosco che proprio questo modo di vedere le cose crea muri di separazione tra di noi e ci allontana gli uni dagli altri, ci rende ciechi alle ragioni altrui e sensibili solo alle nostre. Adesso ho aperto gli occhi: il male non è fuori, ma è dentro di noi.
Le parole di Njoroge commuovono molti di noi. Altri si indignano: lo giudicano arrendevole, debole e senza riconoscenza per il clan a cui appartiene. Chi tenta di mediare non e’ benvenuto e il tribalismo mette le sue tende anche tra di noi."

"...Mass media, associazioni, clubs, rappresentanti di tutte le chiese e di molte organizzazioni governative e non governative stanno facendo una forte pressione sui due candidati alla presidenza perché ci sia pace in questo paese. Il loro è un insistente appello perché Kibaki e Raila possano sedersi allo stesso tavolo e cercare un compromesso accettabile per entrambi, mettendo da parte il proprio tornaconto a favore del bene comune. Non so quale frutto porterà questo movimento, ma rimarrà nella storia di questo paese come una reazione straordinaria e un segno di maturità che si contrappone alla follia delle violenze di questi giorni. Sono testimone di speranza anche tra le migliaia di sfollati Kikuyu che arrivano qui da noi dopo essere fuggiti dalle zone degli scontri. È incredibile la mobilitazione in atto: molti di loro trovano ospitalità da parenti, da amici e conoscenti che hanno creato una rete di solidarietà improvvisata e straordinaria.
Molti rimangono nei campi profughi allestiti in questi giorni. Una parte del nostro personale ha lasciato le normali occupazioni per dedicarsi all’accoglienza. Cerchiamo di coinvolgere le nostre comunità nell’assistenza di queste persone che hanno perso tutto, tranne la loro dignità. I profughi raccontano le orribili violenze che hanno subito e la nostra gente risponde con gesti di fraterna accoglienza e generosità. Gli opposti si toccano dentro il cuore degli uomini: c’è rabbia, vendetta, violenza, ma c’è anche tanta generosità, capacità di condividere e amore fino al sacrificio di se stessi."

"...Ieri sera mi sono fermato in ufficio fino a tardi e la guardia notturna mi ha informato che davanti al cancello c’era un bambino. Sono uscito e ho trovato Ndirango: era impaurito, tremante e affamato. La sua mamma è Luo, il papà Kikuyu. Il papà è stato ucciso negli scontri di questi giorni e la mamma ha fatto salire Ndirango su un camion perché potesse fuggire e salvarsi. Il camion lo ha fatto scendere a Nyahururu e lui si è nascosto e ha pianto per due giorni. Disperato. Aveva fame e l’ho accompagnatoato nel nostro centro per ragazzi di strada e ho visto la gioia nei suoi occhi nel sentirsi accolto e protetto."

"...Il paese è ad un bivio pericoloso, ma io spero che avremo il coraggio di scegliere la via della pace."

Don Gabriele Pipinato

Foto tratte dal blog InsightKenya

11 gennaio 2008

Per "sdrammatizzare" un po'...


Kenya, malocchio contro i saccheggi

«Riportate ciò che avete rubato o avrete intestino e vie urinarie bloccati e non potrete andare più al gabinetto»

Crisi politica a Nairobi, catastrofe umanitaria nel nord-ovest del Kenya, risvolto comico a Mombasa. Anche nell’importante città portuale a grande maggioranza musulmana, nei giorni scorsi ci sono stati scontri tra polizia e manifestanti, con ovvio contorno di saccheggi, negozi bruciati e qualche barricata. L’occasione fa l’uomo ladro e così persone normalmente perbene e irreprensibili, nel caos provocato dai lacrimogeni e dagli idranti della polizia che disperdevano le proteste, sono entrati nel magazzino di un commerciante di legnami e materiali da costruzioni a Mwandoni, un centro abitato accanto a Kisauni, villaggio pochi chilometri a nord di Mombasa e hanno portato via tutto ciò che hanno trovato. La perdita per il proprietario è stata di migliaia di euro, così venerdì della scorsa settimana l’uomo ha chiesto l’aiuto dei mullah che durante la preghiera, minacciando di far ricorso all’halbadiri, hanno avvisato i fedeli: «Riportate tutto ciò che avete rubato, altrimenti la maledizione divina vi colpirà con una morte orribile e spietata. Avrete intestino e vie urinarie bloccati – hanno spiegato ai fedeli i depositari dei segreti del malocchio islamico – e non potrete andare più al gabinetto».
Terrorizzati dall’anatema, che immediatamente è stato diffuso con il passaparola in tutta Mombasa, prontamente e quatti quatti i «ladri per caso» hanno riportato quasi tutto il materiale sottratto nel magazzino: tavole di legno, sacchi di cemento, utensili. Ma non solo. La minaccia ha atterrito anche chi aveva saccheggiato altri negozi, ristoranti e case private. Così la processione di gente che riportava indietro letti, tavoli, materassi, sedie, divani e poltrone è continuata per diversi giorni e ieri – secondo alcuni testimoni citati dai canali televisioni kenioti – non era ancora finita.

«Dico la verità – ha spiegato davanti alle telecamere una donna convinta –. Conosco gente che non fa più pipì e non riesce ad andare di corpo da parecchi giorni». La restituzione – come ha raccontato il quotidiano The Nation, che per primo ha riportato la storia - è avvenuta per lo più di sera quando con il buio i pentiti avevano maggiori possibilità di non essere riconosciuti. «Ma anche per non farci ridere dietro – ha confessato un giovane ventenne John Josh, dopo aver ammesso di aver rubato venti tavole di impalcatura -. Quando la gente ci ha visto riportare la refurtiva si è sbellicata dal ridere». «Un ladro che aveva rubato un televisore a Magongo è stato trovato morto tra i suoi escrementi», ha aggiunto con grande sicurezza Josh che, come altri, ha noleggiato un carretto per riportare indietro la roba rubata.
Ai ladri è stato dato un ultimatum di sette giorni per restituire quanto rubato. Secondo Sylvester Wainaina, uno dei commessi dei magazzino di legnami, molta gente si è data appuntamento attorno all’entrata del deposito per deridere i ladri mancati che entrano dal cancello carichi all’impossibile. Qualcuno si è vestito da fantasma per aumentare il terrore di chi crede che Allah possa fulminarlo per aver rubato e perdonarlo per aver restituito.
Le violenze sono scoppiate in alcune città del Kenya all’indomani della proclamazione dei risultati per l’elezione del presidente della Repubblica, il 30 dicembre. Emilio Mwai Kibaki è stato riconfermato per il secondo mandato. Raila Amolo Odinga, il candidato dell’opposizione, e il suoi sostenitori, sostengono che il voto è stato viziato da frodi e imbrogli e la loro tesi è stata avallata dagli osservatori dell’Unione Europea e dai diplomatici occidentali. Il Paese, investito da una crisi senza precedenti, ha conosciuto massacri etnici nelle regioni del nord-ovest: i morti sono un migliaio e gli sfollati 250 mila. L’economia è rimasta bloccata per diversi giorni e una delle risorse fondamentali del Kenya, il turismo, è in gravissima crisi. La perdita si valuta in un miliardo di euro al giorno.

La mediazione tra i due contendenti è stata affidata a John Kufour, presidente del Ghana e dell’Unione Africana. Una mediazione fallita ieri quando Kufour è tornato a casa: «Aveva proposto un documento comune che, tra l’altro, prevedeva una commissione indipendente per investigare sulle elezioni, ma Kibaki non l’ha firmata», hanno affermato i sostenitori di Odinga. «Il processo negoziale è stato sabotato dall’opposizione», hanno ribadito dall’ufficio di Kibaki. Kufour, lasciando Nairobi, ha invece detto: «Proverà a negoziare una commissione di saggi guidata da Kofi Annan». Le prossime ore saranno fondamentali per il futuro di questo Paese. Molti credono che la crisi sarà superata facilmente, ma altri non sono così ottimisti.

Articolo tratto da Corriere.it



Reportage fotografico








Immagini tratte da InsightKenya

10 gennaio 2008

Racconto dell'orrore


Eldoret, viaggio nell'inferno kenyano

Dopo i massacri restano rabbia e impotenza. E un esercito di 250 mila sfollati.

La giustificazione è agghiacciante: «Bruciamo le case e i beni dei kikuyu perché noi kalenjin siamo nilotici e loro bantu». Tradotto in linguaggio europeo vuol dire: «Noi siamo ariani, loro semiti». Kobak Tarus, non fa mistero di aver bruciato un intero mercato a Burnt Forest, una località a una trentina di chilometri a sud di Eldoret: «I kikuyu - aggiunge – sono arroganti e presuntuosi; e poi questa non è la loro terra. Se ne tornino nella Central Province. A casa».
In quel mercato è stato ucciso solo un uomo, ma in tutto il Kenya i morti sono stati un migliaio. Se in Ruanda, durante il genocidio del 1994, l’arma di distruzione di massa è stata il machete, in Kenya per ammazzare i rivali sono stati usati soprattutto archi, frecce e fionde. Una carneficina di cui dà solo una pallida idea l’obitorio all’ospedale centrale di Eldoret. La puzza di morte prende alla gola ancora prima di entrare nel cancello di ingresso. I cadaveri raccolti nei villaggi attorno alla città capitale dei kalenjin e in quelli più remoti arrivano in continuazione.
Tony Kirwa, il medico che mi accompagna, allungandomi una mascherina di carta per coprire naso e bocca, avvisa: «Lo spettacolo è terribile». La protezione non basta. Occorre aggiungere un fazzoletto di carta imbevuto di profumo. In una stanza accatastati uno sull’altro ci sono una trentina di cadaveri fatti a pezzi, in decomposizione. La carne è martoriata dalle mosche che ronzano sul sangue raggrumato delle ferite. «Sono lì perché tutti i frigoriferi sono pieni», spiega Tony poco dopo, aprendo una delle dieci celle stracolme di salme.
In un’ala dell’ospedale sono ricoverati gli scampati al rogo della chiesa stracolma di fedeli bruciata il 31 dicembre. Sono grandi ustionati con la pelle scarnificata. Maggie, la caposala, bisbiglia in lacrime: «Abbiamo bisogno di creme e di garze che dobbiamo cambiare in continuazione». S’un lettino un ragazzo ha mezza faccia portata via dalle fiamme. Il calore ha saldato la palpebra superiore dell’occhio sinistro con quella del destro. La guancia sembra sia stata morsicata da un’enorme bocca. Non oso neppure chiedere come si chiama.
Tabitha Wambui, il nome è tipico kikuyu, ha i piedi e le gambe scarnificate. Deve aver pianto senza sosta. Gli occhi sono gonfi e lucidi. Non ha più lacrime. Senza una smorfia e senza una piega sul viso sussurra il suo racconto: «Il 30 dicembre poco dopo l’annuncio che Kibaki era stato confermato presidente i kalenjin hanno attaccato le nostre case. Con i miei tre figli mi sono rifugiata nella cattedrale battista, sperando che non osassero assalire un luogo santo. Eravamo cinquecento. Il 31 mattina le milizie kalenjin hanno circondato la chiesa, lanciando pietre e biglie di ferro. Poi sono passati alle taniche di benzina e le hanno dato fuoco. I materassi nostri giacigli sono bruciati come torce. Sono scappata con i miei tre figli piccoli, il più grande aveva nove anni. Gli aggressori, indiavolati, mi hanno fermato, hanno preso i bambini e, da una finestra, li hanno scaraventati ancora dentro, tra le fiamme. Poi mi hanno lasciata andare».
La strada che collega Nairobi a Eldoret è costeggiata da villaggi bruciati. La distruzione però è stata selettiva: solo le case dei kikuyu sono andate in fiamme. Per altro i kikuyu, subito dopo i primi attacchi, hanno organizzato la loro vendetta. Per esempio contro il figlio del capo della città di Maji Masuri (Acqua Buona, in swahili), John Tomno Kiplagat, kalenjin. «Hanno circondato la mia capanna e le hanno dato fuoco. Samy aveva 26 anni: l’hanno trafitto con una freccia, forse avvelenata». E’ vero che Samy era un’attivista del partito d’opposizione, Orange Democratic Movement di Raila Odinga? «Non dirgli la verità», interviene il capo della polizia Kello Arsama in swahili pensando che noi non capiamo la lingua. «Non lo so», risponde il padre evidentemente mentendo.
Il piccolo villaggio di Koiwoarusen è bruciato quasi integralmente. Sulla strada principale due uomini stanno trasportando le loro povere cose: un materasso pieno di macchie di grasso, una tanica vuota, uno scatolone con stracci, cavi elettrici e batterie per telefoni cellulari bruciacchiate e smozzicate. «E’ tutto ciò che è rimasto del mio negozio di elettricità, bruciato il 1° gennaio – spiega Paul Rungu Kory, kikuyu -. Lui – continua indicando l’amico – è Paul Samel Karioki. E’ kalenjin. Ci conosciamo da 20 anni e c’è molta solidarietà tra noi. Non è vero che tra kalenjin e kikuyu si odiano».
A Eldoret tra gli altri è stato ucciso Lukas Sang, medaglia d’argento nella staffetta 4 per 400 alle olimpiadi di Seul (1988). Era kalenjin ed era intervenuto per salvare un kikuyu dal linciaggio. L’uomo è scappato, ma un suo amico ha tirato un colpo di machete all’atleta, spaccandogli la testa. La chiesa battista piena di kikuyu è stata bruciata per vendetta.
Le violenze hanno provocato un’ondata di sfollati. Si calcola siano 250 mila. Nel parco della cattedrale cattolica del Sacro Cuore si sono rifugiati almeno 10 mila kikuyu. Li ospita il vescovo Cornelius Korir, kalenjin, che ha parole durissime contro i massacri: «Non c’è dubbio che siano stati pianificati, ma la loro causa va ricercata nella disoccupazione e nella povertà galoppanti. Kibaki non ha rispettato le promesse. E poi tra chi protestava si sono inseriti i criminali comuni che hanno tutto da guadagnare dal caos e dalla violenza. Solo un compromesso tra Raila Odinga e Mwai Kibaki può salvare il Kenya del baratro».

Articolo tratto da Corriere.it

09 gennaio 2008

Situazione di stallo


Diario di viaggio in Kenya: il Pam sulle strade del cibo


PRIMO GIORNO
È surreale. Molti convogli del PAM (Programma Alimentare Mondiale) in missione nelle aree di conflitto viaggiano con scorte militari che partono dalle guarnigioni o che si aggiungono ai convogli lungo la strada che li porterà fuori dalle città. Qui siamo a Nairobi, e due Land Rover cariche di soldati kenioti ci stanno aspettando nel piazzale del centro commerciale ABC Plaza – dove si trova il bar più in voga di Nairobi.Come molti in Kenya, non riesco a credere a quello che succede in questi giorni.
Il viaggio verso nord, lungo la Rift Valley e attraverso alcuni dei paesaggi più straordinari del pianeta, si è svolto senza incidenti. Finché non siamo arrivati in una località chiamata il Bosco Bruciato, a nord di Nakuru, che era – beh, sì – bruciato. In una cittadina, l´edificio più grande è sventrato dalle fiamme, il mercato raso al suolo e in un campo vicino alcuni fedeli alzano le braccia al cielo pregando perché gli eventi che hanno distrutto le loro vite finiscano presto.
A Tarakwa, una cittadina tagliata in due dalla strada principale a sud di Eldoret, i cortili di due chiese sono stipate di persone in cerca di rifugio. Da ogni parte, si vedono i segni dell'esodo – beni ammucchiati ai lati della strada e persone che aspettano un qualsiasi passaggio che li porti via – non importa dove.
Poi sono arrivati i blocchi stradali – spesso si trattava semplicemente di pietre e pali del telefono gettati sulla strada - presidiati da vigilantes con machete, arco e frecce. Gli unici fucili che abbiamo visto erano quelli dell´esercito, con i soldati impegnati a sgomberare le strade nel tentativo di riaprire la linea vitale di rifornimento che attraversa il paese per arrivare fino in Uganda e poi in Sudan. I resti carbonizzati di diversi camion saccheggiati non sono passati inosservati agli occhi del nostro esperto di logistica – muovere il cibo su strada non sarebbe stato un lavoro facile.
L'ultimo tratto di strada, fino ad Eldoret, è stato tranquillo, per quanto spettrale. Oltrepassando la cattedrale abbiamo visto, anche qui, intere famiglie che ne occupavano ogni angolo, in cerca di salvezza. Senza rifugio, con poco cibo e poca acqua. E fa freddo, la notte, da queste parti.

SECONDO GIORNO
Di solito il PAM distribuisce poco cibo in questa regione, per lo più agli studenti e ai malati di HIV/AIDS. Tuttavia la nostra presenza si traduce in un immediato vantaggio perché significa poter contare su strutture come un ampio deposito con scorte di cibo. Prima di novembre non c´era cibo in questo deposito. Averlo ora è un vero colpo di fortuna.
Ma le scorte non bastano. Non ci sono né l´olio per cucinare né i biscotti ad alto contenuto energetico, entrambi sono sui camion diretti a Eldoret e bloccati a causa dei disordini scoppiati dopo il risultato delle elezioni. C´è assoluto bisogno che riprendano il viaggio.
Al deposito, gli uomini del PAM stanno caricando sui camion della Croce Rossa keniota sacchi di piselli e latte di soia. Spetta alla Croce Rossa distribuire gli aiuti. I camion si muovono; è già un segnale incoraggiante, significa che presto il cibo raggiungerà chi ne ha bisogno.
Lasciamo il deposito e cerchiamo di superare un lungo convoglio di circa 20 autobus e 50 automobili, diretto a sud di Eldoret. L'esodo continua guidato dalla paura e dalle intimidazioni. Questa piccola porzione di Kenia è completamente sconvolta.
Ci dirigiamo verso nord e alla periferia della città ci assale un'altra scena di devastazione; ci sono negozi, uffici e case completamente distrutti dal fuoco. E´ stata una furia selettiva che ha raso al suolo alcuni edifici lasciando intatti quelli vicini.
A Soy, ci sono circa mille persone al posto di polizia. Dicono che sono scappate senza poter portare nulla con sé; in molti casi era il prezzo da pagare per avere il permesso di abbandonare l'abitazione prima che bruciasse. All'esterno un bus già carico attende l´alba per partire e dirigersi verso sud.
In altri accampamenti ci aspettavamo di trovare persone sistemate all'addiaccio. Queste, almeno, erano le informazioni che avevamo. Invece, li abbiamo trovati completamente vuoti. Molte persone erano ritornate a casa sperando in una situazione più calma (come ci continuavano a ripetere le autorità locali) altre invece avevano preferito abbandonare la regione.
Sulla strada del ritorno, nei pressi di Eldoret, ci imbattiamo in due camion con biscotti ad alto contenuto energetico. La notizia ancora più confortante è che domani arriverà anche l´olio per cucinare.

TERZO GIORNO
Ci dirigiamo a nord, fuori dalla città, questa volta diretti a una scuola elementare nella cittadina di Noigam. Al nostro arrivo, troviamo migliaia di persone che girovagano intorno agli edifici dove si trovano le classi. Molti di loro sono costretti a dormire all'aperto da diversi giorni, ormai. Si lamentano che non hanno cibo sufficiente, che non c´è acqua potabile e che i loro figli cominciano ad ammalarsi. Si stima che il quaranta per cento degli sfollati siano bambini.
L'aria è tesa. Sotto un albero, vicino l´ingresso, giace il corpo senza vita di una donna, madre di due figli, uccisa con un colpo di fucile da un gruppo di uomini che, nelle prime ore della mattina, ha cercato di depredare il bestiame che la gente è riuscita a portarsi dietro nella fuga.
Poco dopo il nostro arrivo c´è del trambusto – urla e confusione – prima che intervenga la polizia e fermi un ragazzo, con la faccia coperta di sangue, per portarlo nella vicina stazione di polizia. È stato fortunato a sfuggire alla folla, che lo crede coinvolto nel saccheggio della mattina. Più tardi, un altro giovane viene preso di mira allo stesso modo e la polizia deve di nuovo intervenire. La fiducia si è dissolta e trasformata in paura.
L'attenzione ora è attratta dall'arrivo di sette camion carichi di cibo. Con un´efficienza notevole, date le circostanze, un prete del posto organizza gruppi di giovanotti per aiutare a scaricare i sacchi di cibo. Nel giro di pochi minuti, grano, piselli, biscotti ad alto contenuto energetico e latte di soia vengono sollevati dal retro dei camion per essere poggiati in alti mucchi sul terreno polveroso.
Grace Omariba ha 26 anni e due figli piccoli. È istruita e si sente da come parla. «Non c´è più cibo – è stato tutto bruciato», mi dice. «Non ci sono coperte, né pentole né padelle. Io ho ancora i vestiti che indossavo quando sono fuggita, non ho niente altro. Dormiamo all'addiaccio e la notte ci sono le zanzare. Il nostro paese ha bisogno di pace».
Stiamo per ripartire e vediamo, in lontananza, i fianchi del monte Elgon in fiamme. «Quelli sono granai», mi dice un collega del posto. Trovare cibo a sufficienza sarà una battaglia per molte persone, nei prossimi mesi.

Marcus Prior, portavoce del Programma Alimentare Mondiale (PAM) dal Kenya

Articolo tratto da L'Unità.it



Aggiornamenti da Ol Moran

Qui da noi non abbiamo avuto grossi problemi a parte le consuete ruberie di bestiame, inoltre non riuscivo a far funzionare la mia e.mail: una volta il cellulare, poi il computer, da ultimo la sim card, adesso pero', risolti gli ultimi problemi, speriamo che riesca a comunicare più regolarmente.
Come certamente avrai saputo, qui le elezioni non sono andate bene, perché specialmente Raila Odinga, che poi ha perso, ha pensato bene di usare la leva tribale per i suoi fini politici: risultato centinaia di morti, molte capanne bruciate e migliaia di profughi interni, che saranno un grosso problema per il futuro. Qui non si riesce sapere molto di quello che sta avvenendo, per la censura interna, è più facile sentire informazioni dall'estero, solo vediamo che manca tutto e che bisogna limitare i viaggi.

Mail tratta dal BlogDegliAmiciDiOlMoran

08 gennaio 2008

La mostra di Dusseldorf


Uccide il marito e lo getta nel water
L'uomo fatto a pezzi dalla moglie, una parte del cadavere lasciata nei cassonetti della spazzatura.

Avrebbe ucciso il marito e si sarebbe sbarazzata del suo corpo gettandolo nel water dopo averlo fatto a pezzi. Una donna macedone, fino a qualche giorno fa residente in Germania, a Dusseldorf, è ricercata dalla polizia con l'accusa di omicidio. I sospetti si sono subito concentrati sulla donna (52 anni) poiché lei stessa, secondo quanto scrive la stampa tedesca, avrebbe detto ai figli di aver «scaricato» il corpo del loro padre nel bagno.
L'uomo, un tassista di 58 anni che pesava 100 chili, è scomparso tre settimane fa e la polizia ritiene inoltre che una parte del suo cadavere sia stata gettata nei cassonetti della spazzatura. Alcuni vicini di casa della coppia, secondo i quali i due coniugi si odiavano, hanno raccontato di avere sentito lo scarico dell'acqua diverse volte la notte della scomparsa dell'uomo. Da parte sua, la polizia scientifica ha osservato che le pareti della casa sono state lavate e ridipinte di recente, ma che le analisi hanno comunque individuato tracce di sangue sui muri del soggiorno, del corridoio e del bagno. Sembra che la donna, che si sarebbe rifugiata in Macedonia, avesse già cercato più volte di uccidere il marito in passato, almeno in un'occasione con il veleno e in un'altra a colpi di martello. La polizia si è detta sorpresa che l'uomo non ha mai denunciato la moglie per tentato omicidio.

Articolo tratto da Corriere.it

07 gennaio 2008

Per cercare di capire...


Storia del Kenya


Viene considerata la crisi più grave dall'indipendenza, cioè dal 1963. Il Kenya non ha mai conosciuto colpi di stato (tranne uno abortito sul nascere nel 1982) ed è considerato il Paese più stabile di tutta l'Africa nera (dopo il Sudafrica), specie dopo che anche la Costa d'Avorio è collassata. Il rischio che precipiti nel caos è reale e la cause vengono da lontano. I kikuyu, l'etnia maggioritaria di origine bantu, cui appartiene il presidente Emilio Mwai Kibaki, non è un'etnia omogenea. Sin dai tempi del colonialismo inglese si sono divisi per gruppi di interessi. I mau-mau, i guerriglieri che hanno lottato per l'indipendenza, facevano riferimento a un piccolo ma potente gruppo di kikuyu. Ma altri hanno tenuto fino all'ultimo un atteggiamento collaborazionista nei confronti della corona britannica. Un antagonismo tra famiglie della stessa tribù con accuse di tradimento e omicidi reciproci. Jomo Kenyatta, un fine intellettuale kikuyu considerato dagli inglesi ispiratore della rivolta mau-mau, in quegli anni viene sbattuto in galera, ma quando Londra decide di procedere con la decolonizzazione viene riabilitato a tal punto l'Economist lo presenta in copertina con il titolo: "Our man in Kenya", il nostro uomo in Kenya. Kenyatta diventa primo ministro e poi presidente del nuovo Paese, instaura ottimi rapporti con britannici e americani ma in politica interna non riesce a perdonare i kikuyu ex collaborazionisti che vengono tenuti lontani dal potere. Vicepresidente viene scelto Jaramogi Oginga Odinga (di etnia luo, di origine nilotica, padre di Raila Amolo Odinga) e segretario generale del Kanu, il partito al potere, il luo Tom M'boya. I primi anni sembrano idilliaci e il Paese va a gonfie vele grazie all'aiuto dei Paesi occidentali che lo considerano strategicamente assai importante. Ma Kanyatta commette l'errore comune a tanti leader africani. Tratta con un occhio di riguardo i kikuyu del suo gruppo, cui, ad esempio, vengono assegnate le terre più fertili e produttive nel processo di africanizzazione delle grandi aziende agricole che appartenevano ai bianchi. Gli amici di Kenyatta diventano in pochi anni l'elite politica ed economica del Paese. I luo si sentono emarginati e cercano di reagire, nel 1966 Oginga Odiga si stacca dal Kanu e forma il Kpu, Kenya People Union, un piccolo gruppo radicale di oposizione. La rottura definitiva tra kikuyu e luo avviene nel 1969 quando Tom M'boya viene assassinato da un attivista kikuyu, il Kpu messo fuori legge e i sui leader, compreso Oginga Odinga, arrestati. Quando a Kenyatta succede Daniel arap Moi le cose non vanno molto meglio. Moi è un kalenjin, uomo di compromesso tra i due gruppi kikuyu. Comincia la deriva del Kenya. La corruzione diventa rampante e fanno carriera affaristi senza scrupoli che sfruttano le loro posizioni politiche solo per fare soldi. E' in questo contesto che emerge Mwai Kibaki, una volta primo ministro di Moi e poi finito il galera. Kibaki chiama a raccolta la parte di kikuyu rimasta emarginata dai "regni" di Kenyatta e di Moi e riesce a formare una coalizione arcobaleno. Un ruolo importante viene affidato a Raila Odinga. Nel 2002 l'aggregazione di gruppi politici e tribali variegati vince trionfalmente le elezioni in nome di una lotta alla corruzione dominante e lo porta alla presidenza . "Ma Kibaki non mantiene le sue promesse - spiega Anna Maria Gentili, ordinario di Storia Africana all'università di Bologna - perchè riesce a creare una rete di corruzione ancora più attiva di quella di Moi. I suoi uomini più vicini fanno affari compromettenti e lucrosi. Mentre il Paese sprofonda nella povertà. Si moltiplicano le baraccopoli attorno a Nairobi e alle grandi città, mentre l'elite politica viaggia su macchinoni giganteschi. La sperequazioni diventano ancora più profonde. La gente vede nel gruppo dirigente i responsabili del degrado". Nel tentativo di salvarsi Kibaki riesce in un'impresa impossibile: nel nome degli affari e della corruzione riunifica i kikuyu. Si allea con il suo vecchio nemico Uhuru Kenyatta, figlio di Jomo, delfino di Moi e suo antagonista alle elezioni del 2002, e con lo stesso Moi. Alla sua corte arrivano gli affaristi più screditati, mentre i luo, gli akamba, i luia e tutte le atre etnie del Paese formano un'alleanza per sostenere Raila Odinga. Parte una campagna di diffamazione nei confronti dei luo ("Di loro non ci si può fidare perché a differenza di tutte le altre tribù keniote non sono circoncisi", recita un adagio diffuso in tutto il Paese), che però a giudicare dal voto del 27 dicembre non attecchisce. Tutti gli uomini del presidente (venti ministri, il vicepresidente, i tre figli di Moi e i dinosauri della politica come il potentissimo e screditato Nicolas Biwott) vengono schiacciati nelle urne. Lo spoglio delle schede per l'elezione dei deputati è una sonora sconfitta. I luo e i loro alleati gustano già il sapore della vittoria. Quando si passa a scrutinare le schede per la presidente, Raila Odinga è saldamente in testa, ma pian piano il distacco con Kibaki si riduce. I risultati tardano ad arrivare, ci sono discrepanze tra i conti dei voti nelle varie circoscrizioni e quelli annunciati a Nairobi, gli osservatori europei vengono seccamente allontanati dai seggi dove si contano le schede e il numero degli elettori in parecchi seggi diventa enormemente superiore a quello dei cittadini registrati al voto. Il verdetto della commissione elettorale è frettoloso per permettere un rapidissimo giuramento davanti ai giudici della corte suprema: Kibaki 4.584.721 voti, Odinga 4.352.993. Scoppia la raggia dei luo che si sentono ancora una volta defraudati.

Articolo di Massimo A. Alberizzi tratto da Korogocho.org

03 gennaio 2008

Notizie "alternative" dal Kenya

Mentre le fonti ufficiali parlano in modo sensazionalistico delle rivolte in atto dopo le elezioni in Kenya tralasciando di spiegare cosa ci sia alla base di questi scontri, tramite gli operatori presenti sul luogo è possibile capire più approfonditamente le cause di questo "disagio".



Kenya, l'opposizione in piazza. Scontri con la polizia


L’opposizione scende in piazza. Le strade di Nairobi giovedì mattina sono tornate a riempirsi degli oppositori di Mwai Kibaki, l’ex presidente keniota che ha proclamato di essere stato rieletto, nonostante gli stessi membri della commissione elettorale del paese africano abbiano ammesso di non sapere chi abbia realmente vinto. Opposizione in piazza, quindi, ma soprattutto forze di polizia dispiegate per tutta la capitale.
Il momento clou della giornata è la manifestazione che è stata indetta dal leader dell’opposizione, il candidato ufficialmente sconfitto, Raila Odinga. Dalle prime luci dell’alba, le strade di Nairobi sono pattugliate da autocarri carichi di agenti anti-sommossa, che hanno già fatto ricorso a gas lacrimogeni e cannoni ad acqua per respingere le centinaia di persone provenienti dalla baraccopoli di Kibera, che sventolavano bandiera bianca.
La manifestazione voluta da Odinga non ha ottenuto il lasciapassare del governo, ma l’opposizione ha comunque indetto un raduno pacifico «per dialogare con la nostra gente, informarla di chi siamo e dove vogliano andare». Il timore, però, è che il corteo possa dar vita a nuovi scontri, dopo quelli che nei giorni scorsi hanno provocato la morte di oltre 300 persone e costretto alla fuga centomila kenioti.
Intanto, gli osservatori elettorali del Commonwealth inviati in Kenya hanno chiesto al governo di Nairobi di ricontrollare con urgenza i risultati del voto: secondo quanto reso pubblico il 27 dicembre, giorno delle elezioni, Kibaki avrebbe superato Odinga di soli 200 mila voti. Le speranze di una mediazione esterna, comunque, sembrano vacillare dopo che mercoledì il presidente dell'Unione Africana, il capo dello stato del Ghana John Kufuor, ha annullato la sua visita in Kenya senza fornire particolari spiegazioni.

Articolo tratto da L'Unità.it



Disordini Post elezioni...aggiornamenti da Ol Moran

Ciao a voi! Ho saputo che tramite giornali e tg italiani sta arrivando qualche notizia dal Kenya, e qno mi domanda come va da noi. Allora brevemente mando anch'io qualche notiziola per raccontarvi come la stiamo vivendo qui. E casomai passate parloa ad altri! La situazione politica è piuttosto tesa in queste ore. Il 27 ci sono state le elezioni, che si sono protratte fino al 28. _Il 29 e il 30 hanno iniziato a venire fuori i risultati. All'inizio pareva che il Presidente precedente, Kibaki (tribù Kikuyu, democratico moderato e cattolico), non ce la facesse, a favore di Raila (tribù Luo, federalista, che qui significa tribalista.., e piuttosto estremista), creando forti aspettative. Alla fine però, per alcune migliaia di voti, è passato Kibaki. Ieri sera è già stato ufficializzato e ha fatto il giuramento. L'opposizione ora contesta di tutto: brogli, irregolarità e quant'altro. Chissà, magari anche cose in parte successe.. Insomma, l'occasione buona per una mezza rivolta. Raila oggi si autoproclamerà il vero presidente, anche perchè alle spalle ha diversi milioni di voti, e poca differenza con Kibaki. Non c'è nessun pericolo di colpi di stato o cose a questo livello, ma disordini e proteste andranno avanti per un pezzo. Le tensioni però sono soprattutto nelle grandi città, e specialmente Nairobi, dove convivono molte tribù, o nelle aree dove Raila è più sostenuto. Soprattutto le barraccopoli sono in subbuglio, si spara, e si creano disordini difficili da controllare. L'esercito è già sceso per le strade. C'è solo da vedere cosa capiterà nelle prossime ore. Nella zona nostra non ci sono cose di questo tipo, perchè la maggioranza qui nelle regioni centrali è Kikuyu, e tutti fanno festa. Anche altre tribù minori, come i Turkana, hanno votato Kibaki. Qualche problema sono alcune scorribande Pokot, che approfittano dell'instabilità e della scarsa azione delle forze dell'ordine. Situazione che speriamo rientri quanto prima, perchè come al solito crea paura e tensione. Politicamente parlando, l'ascesa di Raila sarebbe stata un tornare a un regime corrotto e fazioso come quello di Moi. Ora però Kibaki dovrà cercare di piacere anche al fronte avversario molto più di quanto non abbia voluto fare nel suo primo mandato, altrimenti sarà molto instabile e non avrà gioco facile. La componente tribale nella politica locale, d'altronde, è molto forte. E inoltre dovrà cercarsi migliori collaboratori per le riforme che vuole promuovere: per tenersi buoni alcuni personaggi, si era tenuto gente corrotta fin dal governo del precedente Moi.

Brano tratto dal BlogDegliAmiciDiOlMoran

Altre notizie sono reperibili su Korogocho.org

02 gennaio 2008

La tattica dello struzzo


Il presidente del Kenya accusa il rivale: «Incoraggia la pulizia etnica»

Kibaki sostiene che il leader dell'opposizione voglia eliminare il principale gruppo etnico dei kikuyo.

Dopo le ultime drammatiche notizie che testimoniano la progressione delle violenze nel paese, il governo del presidente keniano Mwai Kibaki ha accusato il leader dell'opposizione Raila Odinga di incoraggiare la «pulizia etnica» contro i kikuyo, principale gruppo etnico keniano, di cui fa parte lo stesso Kibaki, e che lo ha appoggiato in massa. È quanto ha sostenuto in un'intervista alla Bbc il portavoce governativo Alfred Mutua. Le accuse sono state respinte al mittente, e con gli interessi, da parte dell'entourage di Odinga, etnia Luo, la terza del Paese. La situazione in Kenya resta drammatica, anche se gli slum di Nairobi sono rimasti calmi nel corso della notte. Oltre 60mila persone in fuga dai luoghi degli scontri, più di 300 morti, l'orrore degli arsi vivi (una cinquantina di persone, tra cui donne e bambini, nella chiesa di Eldoret, ovest del Paese), centinaia di feriti, saccheggi, devastazioni di ogni tipo che non si vede come si possano fermare.
La
speranza è che l'azione decisa e congiunta di Washington e Londra in cui si chiede alle parti di cercare strade di riconciliazione possa avere effetto. Il segretario di stato americano, Condoleezza Rice, e il ministro britannico degli affari esteri, David Miliband, hanno infatti diffuso con un comunicato congiunto un appello ai dirigenti keniani perché «diano prova di spirito di compromesso». «Lanciamo un appello - si legge nel testo - a tutti i dirigenti politici (del Kenya) a dare prova di spirito do compromesso mettendo davanti a tutto gli interessi democratici del Kenya».
Ma il problema è Kibaki: difficile un'intesa se lui non trova il modo di lasciare la carica di presidente, ora che dopo i dubbi di Ue, Usa, Gran Bretagna, Canada, Giappone e l'elenco potrebbe continuare, sulla correttezza dello scrutinio presidenziale sembra (ma non ci sono conferme ufficiali) che perfino il presidente della Commissione Elettorale, Samuel Kivuito non sia più tanto certo che Kibaki - da lui proclamato vincitore - avesse davvero vinto, e parla di formidabili pressioni effettuate su di lui dall'entourage del presidente.
Mentre proseguono le violenze si intensificano gli sforzi dimplomatici: è atteso a Nairobi l'arrivo di John Kuffour, segretario generale dell'Unione Africana, che incontrerà separatamente il presidente Mwai Kibaki, confermato in carica dopo le contestatissime elezioni di giovedì scorso, e il leader dell'opposizione Raila Odinga, per tentare di aprire un dialogo tra i due, sopratutto in vista della manifestazione di giovedì nella capitale kenyota, indetta da Odinga ma vietata dal governo: stando a fonti dell'Odm, l'Orange Democratic Movement guidato dal capofila dissidente, sono attese oltre un milione di persone.
Nel Paese africano continuano frattanto violenti scontri tra estremisti Kikuyo, l'etnia del presidente rieletto, e quelli Luo, tribù cui appartiene Odinga: nel Samburu, al nord, è in atto una vera caccia all'uomo; sono stati dai alle fiamme tutti i negozi gestiti da esponenti Kikuyo, che cercano ora rifugio nelle chiese malgrado nel distretto di Eldoret una cinquantina di persone fossero morte bruciane nel rogo di un tempio pentecostale.
Nelle baraccopoli di Korogocho e Kibera, epicentri dei tumulti, a Nairobi in giornata sono già ripresi scontri, seppure di proporzioni inferiori rispetto al recentissimo passato; nel centro cittadino la gente è tornata in strada, il traffico è abbastanza sostenuto e molti negozi hanno riaperto. Scarseggiano però i generi alimentari freschi, benzina e nafta: circostanza che potrebbe creare a breve termine pesanti ripercussioni sul traffico aereo, non solo nello scalo della capitale del kenya ma anche altrove. A Kampala, in Uganda, diversi voli sono per esempio stati forzatamente cancellati per il mancato rifornimento del carburante che arriva in genere da Mombasa.

Articolo tratto da Corriere.it

Strano che la comunità internazionale si sia accorta solo ora a giochi fatti del pericolo rappresentato dalle elezioni in Kenya: durante il viaggio in questo splendido paese, fatto quasi un anno fa, chi lavorava sul territorio parlava già dei rischi connessi a questo avvenimento...