10 gennaio 2008

Racconto dell'orrore


Eldoret, viaggio nell'inferno kenyano

Dopo i massacri restano rabbia e impotenza. E un esercito di 250 mila sfollati.

La giustificazione è agghiacciante: «Bruciamo le case e i beni dei kikuyu perché noi kalenjin siamo nilotici e loro bantu». Tradotto in linguaggio europeo vuol dire: «Noi siamo ariani, loro semiti». Kobak Tarus, non fa mistero di aver bruciato un intero mercato a Burnt Forest, una località a una trentina di chilometri a sud di Eldoret: «I kikuyu - aggiunge – sono arroganti e presuntuosi; e poi questa non è la loro terra. Se ne tornino nella Central Province. A casa».
In quel mercato è stato ucciso solo un uomo, ma in tutto il Kenya i morti sono stati un migliaio. Se in Ruanda, durante il genocidio del 1994, l’arma di distruzione di massa è stata il machete, in Kenya per ammazzare i rivali sono stati usati soprattutto archi, frecce e fionde. Una carneficina di cui dà solo una pallida idea l’obitorio all’ospedale centrale di Eldoret. La puzza di morte prende alla gola ancora prima di entrare nel cancello di ingresso. I cadaveri raccolti nei villaggi attorno alla città capitale dei kalenjin e in quelli più remoti arrivano in continuazione.
Tony Kirwa, il medico che mi accompagna, allungandomi una mascherina di carta per coprire naso e bocca, avvisa: «Lo spettacolo è terribile». La protezione non basta. Occorre aggiungere un fazzoletto di carta imbevuto di profumo. In una stanza accatastati uno sull’altro ci sono una trentina di cadaveri fatti a pezzi, in decomposizione. La carne è martoriata dalle mosche che ronzano sul sangue raggrumato delle ferite. «Sono lì perché tutti i frigoriferi sono pieni», spiega Tony poco dopo, aprendo una delle dieci celle stracolme di salme.
In un’ala dell’ospedale sono ricoverati gli scampati al rogo della chiesa stracolma di fedeli bruciata il 31 dicembre. Sono grandi ustionati con la pelle scarnificata. Maggie, la caposala, bisbiglia in lacrime: «Abbiamo bisogno di creme e di garze che dobbiamo cambiare in continuazione». S’un lettino un ragazzo ha mezza faccia portata via dalle fiamme. Il calore ha saldato la palpebra superiore dell’occhio sinistro con quella del destro. La guancia sembra sia stata morsicata da un’enorme bocca. Non oso neppure chiedere come si chiama.
Tabitha Wambui, il nome è tipico kikuyu, ha i piedi e le gambe scarnificate. Deve aver pianto senza sosta. Gli occhi sono gonfi e lucidi. Non ha più lacrime. Senza una smorfia e senza una piega sul viso sussurra il suo racconto: «Il 30 dicembre poco dopo l’annuncio che Kibaki era stato confermato presidente i kalenjin hanno attaccato le nostre case. Con i miei tre figli mi sono rifugiata nella cattedrale battista, sperando che non osassero assalire un luogo santo. Eravamo cinquecento. Il 31 mattina le milizie kalenjin hanno circondato la chiesa, lanciando pietre e biglie di ferro. Poi sono passati alle taniche di benzina e le hanno dato fuoco. I materassi nostri giacigli sono bruciati come torce. Sono scappata con i miei tre figli piccoli, il più grande aveva nove anni. Gli aggressori, indiavolati, mi hanno fermato, hanno preso i bambini e, da una finestra, li hanno scaraventati ancora dentro, tra le fiamme. Poi mi hanno lasciata andare».
La strada che collega Nairobi a Eldoret è costeggiata da villaggi bruciati. La distruzione però è stata selettiva: solo le case dei kikuyu sono andate in fiamme. Per altro i kikuyu, subito dopo i primi attacchi, hanno organizzato la loro vendetta. Per esempio contro il figlio del capo della città di Maji Masuri (Acqua Buona, in swahili), John Tomno Kiplagat, kalenjin. «Hanno circondato la mia capanna e le hanno dato fuoco. Samy aveva 26 anni: l’hanno trafitto con una freccia, forse avvelenata». E’ vero che Samy era un’attivista del partito d’opposizione, Orange Democratic Movement di Raila Odinga? «Non dirgli la verità», interviene il capo della polizia Kello Arsama in swahili pensando che noi non capiamo la lingua. «Non lo so», risponde il padre evidentemente mentendo.
Il piccolo villaggio di Koiwoarusen è bruciato quasi integralmente. Sulla strada principale due uomini stanno trasportando le loro povere cose: un materasso pieno di macchie di grasso, una tanica vuota, uno scatolone con stracci, cavi elettrici e batterie per telefoni cellulari bruciacchiate e smozzicate. «E’ tutto ciò che è rimasto del mio negozio di elettricità, bruciato il 1° gennaio – spiega Paul Rungu Kory, kikuyu -. Lui – continua indicando l’amico – è Paul Samel Karioki. E’ kalenjin. Ci conosciamo da 20 anni e c’è molta solidarietà tra noi. Non è vero che tra kalenjin e kikuyu si odiano».
A Eldoret tra gli altri è stato ucciso Lukas Sang, medaglia d’argento nella staffetta 4 per 400 alle olimpiadi di Seul (1988). Era kalenjin ed era intervenuto per salvare un kikuyu dal linciaggio. L’uomo è scappato, ma un suo amico ha tirato un colpo di machete all’atleta, spaccandogli la testa. La chiesa battista piena di kikuyu è stata bruciata per vendetta.
Le violenze hanno provocato un’ondata di sfollati. Si calcola siano 250 mila. Nel parco della cattedrale cattolica del Sacro Cuore si sono rifugiati almeno 10 mila kikuyu. Li ospita il vescovo Cornelius Korir, kalenjin, che ha parole durissime contro i massacri: «Non c’è dubbio che siano stati pianificati, ma la loro causa va ricercata nella disoccupazione e nella povertà galoppanti. Kibaki non ha rispettato le promesse. E poi tra chi protestava si sono inseriti i criminali comuni che hanno tutto da guadagnare dal caos e dalla violenza. Solo un compromesso tra Raila Odinga e Mwai Kibaki può salvare il Kenya del baratro».

Articolo tratto da Corriere.it

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