08 novembre 2008

Speranze...


Un po' Clinton, un po' Reagan il nuovo stile della Casa Bianca

Afrontare subito il pubblico: lo fece soltanto il presidente Kennedy con i topolini della stampa. La battuta sul cane: sarà un incrocio come me.

Poiché la presidenza americana è stile, prima ancora che sostanza, se guidare una nazione di nazioni come questa è capacità di parlare direttamente alla gente, prima ancora di pretendere di governarla, è davvero cominciato un giorno nuovo, negli Stati Uniti.
Uno nel quale il futuro presidente sa addirittura prendere in giro sè stesso, non gli altri, e promette di regalare alle bambine un cagnolino senza pedigree, un mutt, un incrocio di razze, "come sono io", sdrammatizzando con una parola sola tutta la retorica debordante del "nero alla Casa Bianca". E ricordarci, sorridendo, che tutti, al mondo, siamo mutt, incroci di razze diverse, come lui.
Per fare quello che soltanto il suo ovvio modello, Kennedy nel 1960, fece, affrontare subito, a urne ancora calde l'esame pubblico della conferenza stampa per dirci, implicitamente e quasi subliminalmente, che lui non ha paura di quello che lo aspetta e dunque neppure noi dobbiamo avere paura, ha scelto un giorno di nuovi, e spaventosi scricchiolii dell'economia americana. 240 mila disoccupati in più, un milione e 200 mila posti di lavoro scomparsi soltanto quest'anno, la General Motors che fa sapere di avere finito i soldi.
Lo fa non perché abbia soluzioni miracolose da offrire per raddrizzare il bilancio catastrofico ereditato dal predecessore Bush, oltre l'attesa promessa di un "stimolo" di una nuova pioggia di assegni e di riduzioni fiscali per la classe media, ma per indicare da subito quale sarà il proprio stile di governo, la "trasparenza" che aveva promesso, quella voglia di "assumersi le responsabilità".
Come Reagan giocava al buon padre che rimbocca le coperte ai bambini la sera, così Barack Obama vuol dare il senso, e non ancora la sostanza, che lassù, all'ultimo piano del potere, sta entrando un giovane adulto. Non più un vecchio ragazzo.
John F. Kennedy, che adorava il rischio delle conferenze stampa e si divertiva a bluffare con i giornalisti, attese appena 48 ore, dalla vittoria strettissima dell'8 novembre al giovedì successivo, il 10, per convocare la stampa e affrontare subito il problema della Guerra Fredda. Lui ha aspettato 72 ore per mostrarci che cosa sarà "l'Obama Style", il doppio volto di un uomo capace di voli retorici quando servono per eccitare la folla, "Yes we Can!", di autoironia, per smontare il "culto" del "nero" e ricordarci che lui è, come il futuro cagnetto, tanto bianco quando nero, ma anche di gelida serietà, quando la festa finisce e arriva il conto.
Lo "stile Obama" non è quello di Kennedy, del gattone che gioca con i topolini della "press" e magari mente, come fece JFK negando di avere problemi di salute. Il "presidente eletto" come vuole il suo titolo prima del 20 gennaio, semmai ricorda quello di Franklyn Roosevelt e del suo "la sola cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa".
Obama è un centrista clintoniano, non quel "marxista in pectore" che la campagna avversaria aveva cercato invano di dipingere, un seguace di quel "parlare a sinistra e governare al centro" che Clinton, un altro che assaporava le conferenze stampa fino a quando fu costretto a parlare non di politica ma a mentire su "relazioni sessuali che non ho mai avuto", aveva adottato.
Governare al centro, per la classe media che è di operai come di impiegati e di "Joe l'Idraulico", è la sua proposta rivoluzionaria, dopo 8 anni di politica fiscale che aveva risucchiato la ricchezza proprio dalla classe media verso l'alto, senza ricadere. Riorientare la grande nave del governo federale verso i "paycheck" le buste paga, e non i dividendi o i bonus, è la prima cosa che ha detto ieri da "eletto", con quella serietà vellutata, ma ferrea, cordiale e distante, come vuole la "gravitas" delle istituzioni che è il suo "stile". Di uno che capito che questa terribile fine 2008 non è tempo di barzellette. Il coro muto dei clintoniani che gli facevano da sfondo, a cominciare dal suo nuovo capo di gabinetto, un altro prodotto di quella dura, cinica, realista "scuola politica di Chicago", Rahm Emanuel, era la testimonianza che il clintonismo senza Clinton è tornato alla Casa Bianca. Un Obama 1 che comincia a somigliare a un Clinton 3.
Chi ricorda le esitanti conferenze stampa di "W" Bush che le centellinava per paura, la rabbia torva di Nixon che gridava "non sono un mascalzone", sapendo di esserlo, il tedio mortifero dell'ingegnere Jimmy Carter che passava dal misticismo alla pignoleria del tecnico che spiega il funzionamento di un reattore, non può non rallegrarsi che alla Casa Bianca sia tornato qualcuno che avvicina l'abilità comunicativa di Reagan, la composta serietà di Bush il Vecchio, la capacità di sorridere, quando è giusto farlo, di Kennedy, discutendo anche del cagnetto per le bambine.
Scelta per la quale, "ho consultato ex presidenti e il presidente in carica", il cui terrier ieri ha morso la mano di un reporter, forse geloso del futuro "first dog" che lo soppianterà, del nuovo "cane supremo" e allegramente "bastardini".
Anche chi gli aveva votato contro, pensando all'arrivo di un ideologo con piani quinquennali in tasca, ha visto che alla Casa Bianca non è arrivato soltanto un uomo giovane, snello ed elegante. Ma qualcuno che invece di provare pietà per i poverelli, come proclamava Bush il "conservatore compassionevole", sa che la macchina del governo, la sola lobby dei senza lobby, deve riportarli al centro del proprio lavoro. O rischiare di distruggere il "sogno" di tutti, non soltanto quello, ora finalmente realizzato, di Martin Luther King.

Articolo tratto da Repubblica.it

Un'altra guerra senza fine


Congo, ancora scontri.
Dall'Onu appello alla pace


«La situazione nell'est del Repubblica congolese è drammatica, occorre un'immediata applicazione tutti gli accordi già firmati per garantire una pace e una stabilità durevoli nella regione».
A lanciare l'ennesimo allarme sulla crisi in Congo è stato il segretario delle Nazioni Unite, Ban
Ki-Moon, durante il summit internazionale tenutosi venerdì a Nairobi.
Al termine dei lavori, i capi di Stato hanno rivolto un appello per un «cessate il fuoco immediato» e la creazione di un corridoio umanitario per assistere la popolazione civile. A margine della conferenza, alla quale hanno partecipato anche i presidenti della Repubblica congolese, Joseph Kabila, e del Ruanda, Paul Kagame, i rappresentati degli Stati africani hanno dichiarato di essere disponib
ili a inviare forze di peacekeeper, e hanno chiesto all'Onu di rendere più forte il mandato dei caschi blu che operano già nella regione, rifornendoli di risorse adeguate. Immediata è stata la risposta delle milizie ribelli del Congresso Nazionale del Popolo, che hanno definito il vertice «un'altra riunione inutile».
Una
dichiarazione che rispecchia la chiusura di ogni fronte diplomatico e la drammaticità di un conflitto che rischia di estendersi a tutta la regione dei Grandi laghi africani. Intanto, nell'epicentro della guerra civile, la provincia settentrionale del Kivu, sono ripresi gli scontri fra i ribelli guidati da Laurent Nkunda e i Mai-Mai, i miliziani filo-governativi congolesi fiancheggiati adesso dalle truppe dell'Esercito angolano. Nella città di Kibati, a una decina di chilometri da Goma, capoluogo del Kivu, i combattimenti tra i fronti opposti hanno seminato il panico fra i rifugiati di un campo profughi, in attesa di ricevere cibo dal Pam, il Programma alimentare mondiale dell'Onu.
E a Goma, dove non si ferma l'esodo di migliaia di profughi, in fuga dalla scia di sangue provocata da ribelli e miliziani, la condizione dei rifugiati, in emergenza alimentare e sanitaria, è sempre più disperata. Secondo l'Onu, che ha inviato nel Kivu un'equipe di ispettori per indagare sulla violazione dei diritti umani e sul massacro di 20 persone da parte dei ribelli congolesi, gli sfo
llati nei campi di profughi a nord di Goma sarebbero almeno 65 mila, e altre migliaia starebbero per arrivare. L'unica notizia positiva arriva dal ministero degli Esteri tedesco, e riguarda Thomas Scheen, il giornalista belga corrispondente del quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung rapito martedì scorso nei territori a nord-est del Congo durante un combattimento tra miliziani e ribelli.
Scheen sarebbe in salvo e nelle mani della Monuc, la missione di caschi blu delle Nazioni Unite.

Articolo tratto da L'Unità.it

Lezioni di volo...per "ciechi"


Pilota perde la vista in volo per un infarto atterra guidato da un collega della Raf

E' successo nel Regno Unito. Alla guida di un piccolo Cessna, l'uomo ha lanciato l'allarme. Un comandante della Royal Air Force lo ha aiutato. Adesso è in ospedale.



Gli viene un infarto mentre pilotava un aereo, e perde la vista. Il pilota britannico, Jim O'Neill, ha lanciato subito l'allarme, ed è stato guidato nell'atterraggio da un pilota militare. Lo ha annunciato la Raf (Royal Air Force), l'aviazione militare britannica.
O'Neill ha chiesto aiuto dopo che improvvisamente ha perso la vista, 40 minuti dopo il decollo durante un volo in solitario dalla Scozia al Sud-Est dell'Inghilterra. Secondo la Bbc il pilota, che si trovava a bordo di un piccolo Cessna, ha perso la vista a 5.500 piedi (1.676 metri) di altezza. "E' stato terribile - ha detto il pilota - improvvisamente, non riuscivo a vedere il quadrante davanti a me".
In un comunicato stampa l'aviazione ha riferito che O'Neill ha inizialmente creduto di essere stato "abbagliato" dall'intensità della luce del sole e ha effettuato una chiamata d'emergenza chiedendo aiuto.
Successivamente si è reso conto che qualcosa di più serio stava accadendo e ha detto: "Voglio atterrare, il più presto possibile".
Il comandante della Raf, Paul Gerrard, stava proprio per fine un volo di addestramento nelle vicinanze ed è stato scelto per aiutare il pilota in panne. Il 65enne è in cura in ospedale dove sta iniziando a riacquistare la vista.

Articolo tratto da Repubblica.it