28 giugno 2008

Informazione alternativa


Una Tv per raccontare un'altra Nairobi

Slum TV è una televisione creata da un gruppo di giovani filmakers e fotografi kenioti di Mathare, una delle baraccopoli più violente e popolose di Nairobi. Nella loro tv storie di vita ordinaria e solidarietà.
Di Slum TV non si è mai occupato nessun quotidiano né rivista in Italia.


"Il mio nome è Cosmas Nganga. Sono nato a Mathare 31 anni fa. Ho fatto tante esperienze finora. Nascere in uno slum significa vivere una grande sfida. Dopo le elezioni presidenziali, ci sono stati scontri, molte persone sono state uccise, molte case bruciate. Molti hanno perso tutto quello che avevavo. Anche io non ho più nulla, l'unica cosa che mi resta sono questi pantaloni che indosso. I miei vicini appartengono alla tribù Luo, io sono l'unico kikuio e sono stato costretto a fuggire". Scorrono nitide come sequenze le immagini che evoca Cosmas Nganga, poche, lapidarie, drammatiche istantanee delle sue ultime giornate in una delle baraccopoli più violente di Nairobi: Mathare. Mathare: 400.000 abitanti, il 10 % della popolazione totale della capitale sopravvive in questa terra che si estende per 1,5 km². In un'area grande quanto 200 campi da calcio convivono 42 gruppi etnici. È la seconda baraccopoli per grandezza del Kenya e una delle più povere tra le 199 censite da Un Habitat, l'Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei senza casa a Nairobi. "Insediamenti informali", così sono definiti gli slum, occupazioni popolari non legali. Esistono, ma non sono riconosciuti dal governo. È il 30 dicembre scorso quando, dopo la proclamazione del presidente Mwai Kibaki contestata dal capo dell'opposizione Raila Odinga, hanno inizio gli scontri. Kibaki, leader del Pnu, è della dinastia Kikuyo, Odinga, leader dell'Orange democratic movement (Odm), è dei Luo. Il bilancio fornito da Abbas Guillet, responsabile della Croce Rossa locale, parla di oltre mille morti, migliaia di feriti e 304mila senza più un tetto. Un vero teatro di guerra civile, su cui sempre di più sembra calare il sipario del genocidio, lo stesso che ha chiuso e dannato nel silenzio un altro terribile palcoscenico della storia: il Ruanda. Nel corso di questi scontri un'intera parte di Mathare è stata saccheggiata, bruciata e poi rasa al suolo. Dietro le parole di Cosmas Nganga, aleggia il fantasma di uomini torturati e derubati. Arsi vivi insieme alle proprie abitazioni. In una spirale di violenza che ha affamato e armato di odio due etnie, Luo e Kikuyo, in una vera e propria carneficina che ora, dopo il mancato accordo tra il Presidente Mwai Kibaki e il Primo Ministro Raila Odinga per la formazione di un governo di unità nazionale, rischia di insanguinare di nuovo il paese. Eppure, dentro questa storia di sangue, odii e vendette, ce n'è un'altra, diversa, che aspetta di essere raccontata. A farlo è Slum TV, una televisione creata da un gruppo di giovani filmakers e fotografi keniani che vivono a Mathare. E che si sono mobilitati in segno di protesta contro la stampa internazionale. La loro prima denuncia arriva all'indomani dei primi scontri dal quotidiano britannico "The Independent": "I media hanno volutamente mostrato solo una parte della realtà, quella negativa" dice Benson Kamau, operatore che ha seguito e filmato il conflitto fin dall'inizio. "Noi mostriamo il bene e il male - continua Kamau - quello che succede dietro le quinte." Così mentre il mondo riprendeva solo le immagini degli scontri scoppiati dopo l'annuncio dei risultati elettorali, i giovani operatori e fotografi raccoglievano storie di solidarietà. Donne di etnia Luo che ospitavano famiglie di etnia kikuyo. Centri di assistenza gestiti da donne keniane nei luoghi in cui le agenzie internazionali non si avventurano, talmente alto è il rischio. Un gruppo di uomini che salvano la vita ad un uomo di un'etnia diversa dalla loro. Gli operatori hanno frequentato solo un corso di due settimane di ripresa e montaggio, imparando da soli le regole basilari del mestiere. Nelle loro mani, una sola videocamera. È un grande impegno: informare e poi formare gli altri attraverso dei corsi. Nata nella strada e per la strada, Slum tv vuole cogliere la vita e l'identità profonda di questa che è una vera e propria città nella città. Una volta al mese, i loro video vengono proiettati davanti a centinaia di persone nella baraccopoli. Nei suoi quasi due anni di vita i principali successi sono state proprio le testimonianze di vita ordinaria. Superando i confini del già visto, questi giovani sono riusciti a fermare quei gesti di umanità che si aprivano, improvvisi, tra lo scorrere di una quotidianità fatta di dolore e distruzione. Alexander Nikolic, artista di origine serba, ci racconta come il fine sia quello di lavorare insieme per realizzare alla fine un archivio, una memoria. "La gente del quartiere - dice Nikolic - guarda la televisione in pubblico: calcio inglese e bolckbusters hoollywoodiani. Abbiamo, dunque, pensato che sarebbe stato più facile applicare le regole della televisione delle origini, in cui qualsiasi proiezione nelle sale cinematografiche era sempre accompagnata da un notiziario. Che, poi, inseriamo in un archivio affinché non si perda. In futuro, quando i cellulari avranno delle telecamere migliori, i video potranno essere uploadati dovunque." Negli ultimi tempi, il principale operatore, Julius Mwelu, ha filmato uomini feriti a colpi di machete, poliziotti aprire il fuoco contro la folla con fucili AK47. "Fino ad oggi il nostro girato era più innocuo, ammette la coordinatrice del progetto, Sam Hopkins, ma quello che ha girato Jilius non è innocuo. Non credo che potremmo mostrarlo a Mathare." Oggi Slum tv rappresenta qualcosa di più e di diverso di una semplice emittente locale. È, prima di tutto, un segnale di speranza. Per Cosmas Nganga e per tutti gli altri giovani dello slum che si ritrovano e raccontano fin dal sito internet. Con il sogno di vedere, attraverso una nuova lente, un presente meno buio e un futuro di pacificazione più vicino. Con in mano la loro videocamera e una nuova storia da raccontare.

Articolo tratto da Korogocho.org

Sorpresa!!!


Un pitone di due metri spunta dal water

Spavento per il proprietario di un appartamento al decimo piano. «Il serpente ha viaggiato attravero le tubature».

Una scena degna di un film horror: un cittadino di Darwin, una città tropicale dell'Australia settentrionale, è andato in bagno e ha visto spuntare un pitone di quasi due metri dal suo water.
Il giornale locale "Northern Territory News" spiega che l'appartamento era al decimo piano di un condominio. Il cacciatore di serpenti Chris Peberdy ha detto al giornale che il pitone, che probabilmente è scappato dalla casa di qualcuno, ha viaggiato attraverso le fognature. «Quando l'ho visto sono rimasto scioccato - ha detto - Non c'è altro modo possibile in cui avrebbe potuto arrivare lì. L'ho dovuto lavare perché era tutto bagnato e un po' maleodorante».

Articolo tratto da Corriere.it

25 giugno 2008

Il reggi...vita...


Si perde sulle Alpi
salvata dal reggiseno
Jessica Bruinsma, un'alpinista americana di 24 anni, è rimasta isolata per quasi tre giorni in un crepaccio sulle montagne bavaresi. Sopravvissuta dopo un volo di quasi cinque metri, se l'è cavata allertando i soccorritori con un insolito sos.

Si è salvata usando il reggiseno come segnale di soccorso, dopo essere rimasta isolata per tre giorni in un angusto crepaccio sulle Alpi bavaresi. Jessica Bruinsma, un'alpinista americana di 24 anni, se l'è vista davvero brutta.
Di Jessica si erano perse le tracce il 16 giugno, dopo che era uscita con un amico per un'escursione vicino al confine austriaco. Sulla strada di ritorno, a causa del maltempo, è scivolata su una sporgenza rocciosa e ha fatto un volo di quasi cinque metri, lussandosi una spalla e ferendosi in maniera seria a una gamba.
Ma la giovane americana ha mantenuto il sangue freddo e ha reagito prontamente. "E' stata molto intelligente" ha commentato l'ufficiale di polizia che ha diretto i soccorsi."Ha continuato ad indossare giacca e maglietta per riscaldarsi, ma ha pensato subito che avrebbe potuto usare il reggiseno come segnale di soccorso". Jessica, che aveva con sé solo l'acqua della borraccia, ha attaccato il reggiseno a un cavo del meccanismo che i boscaioli utilizzano per spostare il legname in montagna.
Quando il sistema di trasporto dei tronchi si è rimesso in moto, quasi 70 ore dopo, i taglialegna, che erano stati informati della sua scomparsa, hanno notato il reggiseno e hanno subito allertato la polizia.
I soccorritori in elicottero hanno seguito il cavo e poco dopo hanno trovato Jessica, che faceva gesti con l'unico braccio sano. "Se l'è cavata - ha detto l'ufficiale di polizia - perché è in ottima forma fisica: si stava allenando per correre una maratona".
Jessica ha già messo l'incidente alle spalle. "Sono dispiaciuta, ero venuta in Germania per imparare il tedesco, ma ora ho voglia solo di tornare a Colorado Springs, a casa dei miei genitori. Non ho ancora rinunciato a correre la maratona, spero di guarire in tempo".

Articolo tratto da Gazzetta.it

18 giugno 2008

Ciao, ciao Francia!


Italia, la nottata perfetta. Ora i quarti con la Spagna



Gli azzurri superano 2-0 la Francia con Pirlo e De Rossi: domenica supersfida contro le Furie Rosse. Qualificazione possibile grazie all'Olanda che fa il suo dovere: 2-0 alla Romania.

Immagine tratta da Gazzetta.it

13 giugno 2008

Formazione anti - Romania

Archeologia cristiana


In Giordania la chiesa cristiana più antica del mondo


Una grotta, dimenticata sotto la più nota San Giorgio a Rihab, nel nord della Giordania. Sarebbe questa la più antica chiesa cristiana del mondo. La scoperta, resa nota dal Jordan Times, è di un gruppo di archeologi, che fanno risalire la costruzione a una data collocabile tra il 33 e il 70 d. C. "Crediamo si tratti della prima chiesa di tutta la cristianità", dichiara Abdul Qader al-Husan, capo del Jordan's Rihab Centre for Archaeological Studies. "Ci sono prove che abbia ospitato i primi cristiani, i 70 discepoli di Gesù, che fuggiti dalla persecuzione di Gerusalemme avrebbero riparato nella Giordania settentrionale, ai confini con la Siria", aggiunge l'archeologo. All'interno della cava sono presenti alcuni sedili di pietra, probabilmente destinati al clero, e un'area circolare che fa pensare all'abside. Un profondo tunnel, invece, conduceva ad una fonte d'acqua. Il vescovo ausiliare dell'arcidiocesi greco-melkita, Nektarious, definisce la scoperta "un'importante pietra miliare per i cristiani di tutto il mondo".

Articolo tratto da Repubblica.it

11 giugno 2008

Scempi paesaggistici

Antenne telefoniche selvagge, cartelloni pubblicitari che ostruiscono la vista di un paesaggio, scritte sui muri, costruzioni abusive. Il Fai (Fondo per l'ambiente italiano) e Intesa San Paolo lanciano la quarta edizione de "I luoghi del cuore". Non monumenti famosi o opere d'arte, ma i luoghi che più ci stanno a cuore, e sono deturpati da piccoli grandi brutture che ne offuscano la bellezza, sono al centro della campagna. Lo slogan è "Segnala ciò che rovina", Fai e Intesa San Paolo lo segnaleranno alle amministrazioni comunali perché prendano provvedimenti. «Scheletri di cemento abbandonati, selve di cartelli e gazebi improvvisati nei centri storici, manifesti che deturpano il paesaggio, parcheggi abusivi, scritte su monumenti artistici, boschi di parabole e antenne televisive: sono solo alcuni esempi di come uno sviluppo non pensato e progettato con coerenza danneggi continuamente i luoghi in cui viviamo. E noi – scrive il Fai nel comunicato che presenta l'iniziativa - finiamo per diventare due volte vittime: non solo perché il paesaggio che abbiamo negli occhi e nel cuore è pieno di queste ferite, ma anche perché talvolta finiamo addirittura per non accorgercene nemmeno più».
Sono già in molti i personaggi del mondo della cultura, delle istituzioni e dello spettacolo ad aver aderito alla campagna, che hanno scelto di partecipare. Primo fra tutti il commissario straordinario per l'emergenza rifiuti in Campania Guido Bertolaso. Ed è proprio la spazzatura di Napoli ciò che deturpa il "luogo del cuore" dell'ex capo della Protezione civile. «Ferisce la dignità dei cittadini campani e di quanti chiedono a questa regione di svelare i suoi immensi tesori, ora nascosti e resi irraggiungibili dall'accumularsi dei rifiuti». Ma non solo. C'è Beppe Grillo che, con il suo consueto stile, chiede che sia rimossa la centrale a carbone sotto la Lanterna, simbolo della sua Genova. E poi Lucio Dalla che non sopporta parabole e condizionatori nei centri storici delle città; il dj Linus che chiede di togliere le vecchie cabine, inutilizzate da anni, dal lungomare di Riccione e Lella Costa che vorrebbe che il Castello Sforzesco di Milano non fosse «illuminato come un lunapark».
Partecipare al censimento del Fai è molto semplice. Le segnalazioni si possono fare online sul sito www.iluoghidelcuore.it. Oppure spedendo volantini e coupon pubblicati su giornali e riviste o compilando le cartoline che è possibile trovare nelle sedi del Fai, in tutte le filiali Intesa San Paolo, nelle librerie Feltrinelli e Ricordi Mediastores. L'edizione 2008 de "I luoghi del cuore" prevede anche la collaborazione con le scuole primarie e secondarie. A loro è rivolto il concorso "Mi prendo a cuore". L'idea è semplice: trovare un luogo vicino alla scuola da rivalorizzare preparando un piano di interventi da realizzare. E poi inviare le foto del luogo, prima e dopo la cura. Le migliori saranno pubblicate sul sito faiscuola.it.

Articolo tratto da IlSole24Ore.com

"Urbanizzazione"


Vulcani pronti ad esplodere

In Africa, ogni anno, oltre 5 milioni di persone cercano un nuovo alloggio nelle periferie delle città. Spesso la popolazione delle baraccopoli è sottostimata. Privi di titoli di proprietà legali, gli abitanti sono costretti a una dipendenza quasi feudale dai politici e burocrati locali.

In Africa la popolazione delle grandi città è aumentata di 10-12 volte tra il 1960 e il 2005. Questo incremento non è stato associato a uno sviluppo eco­nomico correlato. Anzi: il prodotto in­terno lordo (Pil) si è ridotto dello 0,66% l'anno. Nondimeno, le città in Africa gio­cano un ruolo cruciale nella crescita delle economie nazionali. Oggi, in generale, il tasso annuo me­dio di crescita della popolazione africana s'aggira attorno al 4%, mentre quello del­le grandi città raggiunge l'8%, e non sono casi eccezionali quelli di città che crescono del 10% o più, specialmente in regio­ni in cui l'esodo rurale si accentua a causa di calamità naturali o fenomeni legati allo sviluppo disuguale del territorio.
Il tasso di crescita degli insediamenti urbani precari e marginali, inoltre, a vol­te è superiore al 25% annuo. Ogni anno, oltre 5 milioni di africani cercano una nuova sistemazione nelle periferie delle città. La grande maggioranza della nuo­va popolazione urbana sembra destina­ta a sopravvivere nella totale incertezza, nella precarietà, nella ricerca (priva di opportunità reali) di un miglioramento delle proprie condizioni di vita, ai mar­gini del "grande miraggio" rappresentato dalla città moderna.
Scriveva Peter C. W Gutkind, autorità mondiale nel campo dell'antropologia urbana, scomparso nel 2001: «Le città dell'Africa sono, per la maggior parte, nuove. La loro nascita è frutto della colonizzazione che ha model­lato la struttura urbana su modelli non africani, che favorivano un modo di vita completamente differente ed estraneo alla realtà locale». Il resto lo hanno fatto l'in­curia verso le zone rurali (mancanza di investimenti e di sostegno all'economia familiare e di politiche mirate alla prote­zione dei suoli) e l'assenza d'investimenti nell'edilizia popolare nelle città.
Il primo fattore, ovvero la mancanza di progetti tesi a proteggere le aree rurali, causa la fuga dai villaggi e determina la scelta di cercare altrove un luogo dove soddisfare i bisogni che la vita nei villag­gi non è in grado di soddisfare. Questa ricerca si concentra nella sola alternativa possibile: la città. Così, la presenza di un sistema urbano inarticolato implica e fa­vorisce la concentrazione di popolazione in pochissimi centri (uno o due), che de­vono accogliere flussi rilevanti di gente.

Crescita senza città

È una "crescita urbana senza città" che dà origine ai famigerati slum: spazi auto­costruiti su terreni demaniali, senza che vi sia un solo mattone, dove non è passata una sola putrella di ferro e non vi si tro­va un solo metro quadrato di vetro. «Nei paesi in via di sviluppo», ci ricorda il pro­fessor Claudio Stroppa, «la dissoluzione della struttura agraria acuisce l'esodo dei contadini senza terra; la bidonville li ac­coglie e svolge un ruolo di mediazione tra città e campagna. La bidonville molto spesso si consolida e offre ai suoi abitanti un "surrogato" di vita urbana, se si vuole miserabile, ma molto intensa».
Gli effetti di queste contraddizioni so­no evidenti nell'espansione delle città. Si tratta di spazi complessi, in cui sono pre­senti molti dei contrasti che caratterizza­no la vita del pianeta. Si tratta di città di­vise da numerosi confini, il cui semplice attraversamento produce il senso di pas­saggio da una frontiera all'altra. Ma sono frontiere non semplicemente fisiche: per entrare negli slum si passa dalla "frontie­ra della paura", mentre per accedere ai quartieri ricchi si attraversa il "confine del benessere".
Le città così frammentate, invece di essere il luogo dell'incontro e dell'inte­grazione tra gruppi sociali diversi per li­vello economico, cultura e provenienza, si trasformano in una sorta di arcipelago costituito da molte isole (island), segnate dalla qualità delle loro costruzioni, dalla presenza (o mancanza) di infrastrutture e servizi, dalle maggiori o minori condizio­ni di sicurezza.
Ovviamente, le isole comunicano, i loro abitanti intrecciano rapporti, e una chiave di entrata da un'isola all'altra è la convenienza economica, 'capace d'istitui­re relazioni e gradi di comunicazione. Ai ricchi serve la manodopera che costa po­co e i poveri hanno bisogno di lavorare. Nascono, così, gli scambi, i subappalti, la fornitura di servizi, il commercio negli slum di prodotti industriali. Protagonista di questo flusso è il settore informale del­l'economia, capace di generare posti di lavoro, reddito e capacità di risparmio per la maggioranza degli abitanti degli insediamenti informali.
Le island vivono fianco a fianco e, nel­la quotidianità, a volte si confondono. Ma presentano aspetti fortemente contrastan­ti: ci sono island city ("città-isola") ricche, del Primo mondo, e altre povere, del Ter­zo mondo. Da un punto di vista estetico, il moderno grattacielo e la baracca sono i simboli di città-arcipelago, come Nairobi, Johannesburg e Rio de Janeiro.
Le island city vivono su due livelli. Una parte "sta in alto", legata economicamen­te con il resto del mondo, perché la tec­nologia che sostiene la rete globale per­mette di lavorare e comunicare via etere. Questa parte dell'arcipelago sta al di so­pra dell'altra e, spesso, comunica di più in senso orizzontale (con le lontane città di pari grado) che non verticalmente (con il resto della città stessa). La parte povera dell'arcipelago, invece, è fortemente at­taccata alla terra, perché lotta ogni giorno per appartenere a quella terra, sia occu­pando le strade con i lavori informali, sia costruendo la propria casa, generalmente piccola, almeno all'inizio, per poter esse­re edificata nel minor tempo possibile.
Nell'Africa subsahariana, in Ameri­ca Latina, in Medio Oriente e in alcune regioni dell'Asia, l'urbanizzazione senza crescita è anche il risultato di una con­giuntura mondiale specifica - la crisi del debito della fine degli anni Settanta e la ristrutturazione delle economie in via di sviluppo sotto l'egida del Fondo moneta­rio internazionale (Fmi) negli anni Ottan­ta - più che l'esito di non si sa quale legge coercitiva del progresso tecnologico.
L'esplosione delle bidonville è stata analizzata dal rapporto del 2003 delle Nazioni Unite, The Challenge of Slums ("La sfida delle baraccopoli"). Il testo, primo vero studio su scala mondiale sulla povertà urbana, comprende intelligente­mente diverse inchieste locali, da Abidjan a Sydney, e statistiche globali che inclu­dono, per la prima volta, la Cina e i paesi dell'ex blocco sovietico. Il rapporto lancia un avvertimento sulla minaccia planetaria della povertà urbana. Gli autori definisco­no le bidonville come spazi caratterizzati da: sovrappopolamento, abitato precario o informale, ridotto accesso all'acqua cor­rente e ai servizi igienici, vaga definizione dei diritti di proprietà.
Si tratta di una definizione pluridi­mensionale e, in parte, restrittiva, sulla base della quale si stima, comunque, che la popolazione delle baraccopoli ammon­tava nel 2001 ad almeno 921 milioni di persone. Oggi gli abitanti di questi agglo­merati rappresentano il 78,2% della po­polazione urbana dei paesi meno svilup­pati e un sesto dei cittadini del pianeta. Se si considera la struttura demografica della maggior parte delle città del Terzo mondo, almeno metà di questa popola­zione ha un'età inferiore ai vent'anni.
Il tasso più alto di abitanti di barac­copoli è registrato in Etiopia e in Ciad (99,4% della popolazione urbana).
Se­guono Afghanistan (98,5%) e Nepal (92%). Tuttavia, le popolazioni urbane più nella miseria sono certamente quelle di Maputo (Mozambico) e Kinshasa (Rd Congo), dove il reddito di due terzi degli abitanti è inferiore al minimo vitale gior­naliero. A New Delhi, gli urbanisti deplo­rano l'esistenza di «baraccopoli all'inter­no di baraccopoli»: negli spazi periferici, alla storica classe povera della città espul­sa alla metà degli anni Settanta si aggiun­gono nuovi arrivi, che colonizzano gli ultimi interstizi liberi. Al Cairo (Egitto), i nuovi arrivati occupano e affittano parti di abitazioni sui tetti, generando nuove bidonville "sospese in aria".
La popolazione delle baraccopoli è spesso sottostimata, talvolta in grandi proporzioni. Alla fine degli anni Ottanta, per esempio, Bangkok (Thailandia) ave­va un tasso "ufficiale" di povertà solo del 5%, mentre alcuni studi dimostravano che un quarto della popolazione (1,16 milioni di persone) viveva nelle bidonvil­le e in abitazioni di fortuna.
Esistono oltre 250mila baraccopoli nel mondo. Le cinque grandi metropo­li dell'Asia del sud (Karachi, Bombay, Delhi, Calcutta e Dacca) ospitano quasi 15mila zone urbane tipo bidonville, per una popolazione totale di oltre 20 milioni di persone. Gli abitanti delle baraccopoli sono ancora più numerosi nella costa del­l'Africa Occidentale, mentre immense co­nurbazioni di povertà si estendono verso l'Anatolia e gli altopiani dell'Etiopia, coinvolgono le zone ai piedi delle Ande e dell'Himalaya, proliferano all'ombra dei grattacieli di Città del Messico, Johanne­sburg (Sudafrica), Manila (Filippine), Sào Paulo (Brasile) e colonizzano lè rive del Rio delle Amazzoni, del Congo, del Ni-ger, del Nilo, del Tigri, del Gange, dell'Ir-rawaddy e del Mekong.
I nomi del "pianeta-bidonville" sono tutti intercambiabili e, allo stesso tempo, unici nel loro genere: bustees a Calcutta, chawl e zopadpatti a Bombay, katchi abadi a Karachi, kampung a Giacarta, iskwater a Manila, shammasa a Khartoum, umjondo-lo a Durban, intra-muros a Rabat, bidon­ville a Abidjan, baladi al Cairo, gecekondou ad Ankara, conventillos a Quito, favelas in Brasile, villas miseria a Buenos Aires e co­lonias populares a Città del Messico.
Un recente studio, pubblicato dal­la Harvard Law Review, stima che l'85% degli abitanti delle città del Terzo mondo non possiede alcun titolo di proprietà le­gale. È all'opera una contraddizione stri­dente, perché il terreno dove crescono gli slum è di proprietà dei governi, mentre le case costruite sono di proprietà di pochi che impongono affitti salati ai poveri ur­bani, i quali non possiedono neppure la baracca in cui vivono.

Forme di insediamento

I modi di insediamento delle baracco­poli sono molto variabili: dalle invasioni collettive disciplinate di Città del Messico e Lima fino ai complessi (spesso illegali) sistemi di affitto di terreni alla periferia di Pechino, Karachi e Nairobi. In alcune cit­tà, per esempio Nairobi, lo stato è formal­mente proprietario della periferia urbana, ma la speculazione fondiaria permette al settore privato di realizzare enormi pro­fitti a spese dei più poveri. Gli apparati politici, nazionali e regionali, contribui­scono a questo mercato informale (e alla speculazione fondiaria illegale) e riescono addirittura a controllare i vassallaggi poli­tici degli abitanti e sfruttare un flusso re­golare di affitti e mazzette. Privi di titoli di proprietà legali, gli abitanti delle baracco­poli sono costretti a una dipendenza qua­si feudale dai politici e burocrati locali. Il minimo strappo alla legalità clientelare si traduce con l'espulsione.
L'offerta d'infrastrutture, al contrario, è lontana dai ritmi di urbanizzazione, e le baraccopoli spesso non hanno alcun accesso all'igiene e ai servizi del settore pubblico. Eppure, nonostante siano luo­ghi che si definiscono in termini di assen­za - ciò che non hanno dice ciò che sono -, gli slum raggiungeranno i 2 miliardi di abitanti nel 2030, perché rappresentano l'unica soluzione abitativa per l'umanità in eccesso del 21° secolo.
Le baraccopoli potrebbero trasfor­marsi in vulcani pronti a esplodere? E gli abitanti trasformarsi in soggetto politico capace di "fare storia"? Molto dipenderà dalla capacità di sviluppare una cultura di organizzazione collettiva, anche se, come spiegava Kapushinski, «i poveri, di solito, stanno zitti. La miseria non piange, non ha voce. La miseria soffre, ma soffre in si­lenzio. La miseria non si ribella. Infatti, i poveri insorgono solo quando pensano di poter cambiare qualcosa».
Sapremo essere parte di questo cam­biamento?

Articolo tratto da Korogocho.org

09 giugno 2008

La dea bambina


Nepal, la dea bambina rischia di sparire

Durante il regno la decisione spettava al sacerdote reale. Il governo studia un modo per modificare la tradizione.

Per il capo del tempio di Taleju a Bhaktapur e per il suo aiutante la scelta della nuova Kumari non è stata facile. Decine di bambine, tra i due e i sette anni, sono state passate in rassegna.
Per essere «eleggibili» le piccole devono venire dalle famiglie newar, gli Shakya, i primi abitanti della valle del Katmandu, discendenti di Buddha, e devono possedere le «32 perfezioni».
In primis l'aspirante dea deve essere bella, gli occhi neri, le ciglia come quelle di una mucca, le cosce di daino e l'organo sessuale non sporgente.
Ma è anche importante che la bimba non abbia subito perdite di sangue e sia priva di ferite o cicatrici.
E poi deve avere un completo controllo sulle sue emozioni: durante i riti un suo lamento o anche un battito di ciglia potrebbe essere interpretato come un segno di disgrazia per il Paese.
Per questo le candidate vengono sottoposte a prove crudeli che testino il loro carattere.
La monarchia nepalese non esiste più da due settimane, dopo 238 anni di regno incontrastato.
E anche le dee bambine dalla pelle dorata, adorate dal popolo in quanto incarnazioni della dea Durga, rischiano di seguire lo stesso destino.
Perché con la scomparsa del re e l'avvento dei maoisti non c'è più nessuno che possa nominarle.
Il problema è sorto in questi giorni nell'antica città di Bhaktapur dove il posto di Kumari reale (vergine, letteralmente) è vacante dal gennaio scorso quando Sajani Shakya, al centro di una polemica per un suo viaggio negli Usa che l'avrebbe contaminata, ha deciso di ritirarsi prima dell'arrivo delle mestruazioni, momento in cui la presenza divina abbandona la piccola dea.
A prevalere su tutte è stata Shreeya Bajracharya, sei anni. Soltanto lei è riuscita a dormire una notte intera senza piangere in una stanza buia tra le teste mozzate delle capre e dei bufali sacrificati in onore della dea Kali.
E non ha avuto difficoltà a riconoscere tra mille oggetti quelli appartenenti alla precedente Kumari.
Ora, però, la nomina finale spetterebbe al sacerdote del re, una figura che non esiste più.
È lui la persona preposta a verificare che l'oroscopo dell'aspirante dea sia compatibile con quello del sovrano. La tradizione vuole infatti che le Kumari reali di Patan, Kathmandu e Bhaktapur (gli antichi tre regni della valle) siano direttamente connesse con il re.
La dea bambina di Kathmandu, la più importante, è colei che pone la tika, il sacro segno rosso, sulla fronte del monarca, legittimando così il potere reale per un anno. Sebbene profondamente ateo, il partito comunista di Prachanda cerca di correre ai ripari sapendo che è impensabile privare un Paese così profondamente religioso dei suoi riti.
Del problema è stato investito il ministero delle Riforme.
Chissà se la neonata repubblica riuscirà a coniugare tradizione e modernità.


Articolo tratto da Corriere.it

08 giugno 2008

Ripensamenti


Diventò donna: ora risposa l'ex moglie

Dopo l'operazione nel 1972 c'era stato il divorzio ma i coniugi avevano sempre vissuto insieme nelle stessa casa.

È una favola d’amore dei tempi moderni e, come ogni fiaba che si rispetti, conserva il classico lieto fine. Protagonista di questa storia è l'ottantunenne Jan Morris, un tempo James Humphrey Morris, oggi una delle più celebri scrittrici inglesi. A distanza di 60 anni l’ex giornalista ha deciso di risposare Elizabeth Tuckniss, la donna che portò all'altare quando era ancora un uomo.
La notizia della loro nuova unione è stata data ai microfoni della Bbc durante la trasmissione radiofonica “Bookclub” dalla stessa Morris che stava presentando il suo ultimo libro di viaggi intitolato “Venice”. Nel 1949, quando era solo un promettente giornalista James Morris sposò Elizabeth e da lei nel corso degli anni ebbe 5 figli. Tuttavia nel 1972 dopo essersi sottoposto a un intervento chirurgico per cambiare sesso in Marocco, James decise di divorziare dalla moglie e divenne per tutti la scrittrice Jan Morris. Adesso grazie alla legge britannica che permette le unioni civili tra persone dello stesso sesso Jan ha ufficialmente rigiurato eterno amore all’ex moglie e promette di rimanere assieme a lei fino alla morte
In realtà i due coniugi, nonostante il divorzio, hanno continuato a vivere assieme nella loro casa di Llanystumdwy, nel Nord del Galles. Secondo quanto ha dichiarato la Morris, la cerimonia di unione civile tra i due ex sposi è stata celebrata lo scorso mese al comune di Pwllheli. Una coppia di amici avrebbe partecipato alla funzione in veste di testimoni e dopo la cerimonia si sarebbero trasferiti nella loro casa per gustare una tazza di tè. La scrittrice ha raccontato a Bbc radio: «Non l'ho ancora detto a nessuno. Ho vissuto con la stessa persona per 58 anni. Noi ci siamo sposati quando io ero giovane e lei al tempo prese il nome della mia famiglia. Poi ci fu la storia del cambiamento di sesso e fummo costretti a divorziare. Ma abbiamo vissuto sempre insieme. Così ho deciso di riunirmi a lei perché volevo chiudere le cose in bellezza».
Nella sua precedente vita da uomo la Morris ha partecipato alla Seconda Guerra Mondiale ed è stato un famoso redattore del quotidiano inglese The Times. Proprio per il giornale londinese seguì nel lontano 1953 la spedizione degli scalatori britannici che per primi riuscirono a raggiungere la vetta del Monte Everest. Nell’ultimo trentennio Morris è stato autore di numerosi libri di viaggio, di importanti opere storiche sull’impero inglese, ma la vera fama internazionale l’ha ottenuta nel 1974 quando presentò alle stampe il libro «Conundrum» (pubblicato in Italia col titolo di “Enigma”), un'autobiografia nella quale raccontava la sua vita e la consapevolezza di essere intrappolata in un corpo sbagliato. Anche per l’ex moglie e nuova compagna Elizabeth in questi anni il rapporto con la scrittrice non è cambiato: «Siamo tornate assieme ufficialmente - ha commentato la donna all’Evening Standard -. Dopo che Jan decise il cambiamento sessuale noi divorziammo. Ma ciò non ebbe alcun significato per me. Abbiamo avuto sempre la nostra famiglia. Continuiamo ad andare avanti assieme». A chi gli chiedeva del loro futuro le due compagne hanno ammesso di voler essere seppellite assieme e che sarebbero felici se sulla loro tomba fosse scritto in inglese e in gallese: «Qui riposano due amiche alla fine della loro comune vita».

Articolo tratto da Corriere.it

04 giugno 2008

La serpe in...braccio!


Arriva in ospedale a Caorle con una vipera attaccata al braccio

Un veneziano di 67 anni ha fatto ricorso alle cure del pronto soccorso visto che il rettile non lo mollava.

E' arrivato in ospedale con una vipera ancora attaccata al braccio che aveva morsicato poco prima. Un veneziano di 67 anni, in vacanza a Caorle (Venezia), ha fatto ricorso alle cure del pronto soccorso della località balneare dopo essere stato morso dal serpente. L'uomo si è recato dai medici con il rettile ancora attaccato al braccio ed ha raccontato di essere stato morso mentre apriva la bicicletta.
La possibilità di constatare direttamente il tipo di rettile autore del morso ha permesso di trovare subito il siero adatto e l'uomo è stato trattenuto solo in osservazione dopo essere stato trasportato all'ospedale di Porto Gruaro.

Articolo tratto da Corriere.it

"I buoni selvaggi"


Amazzonia, scoperta tribù di uomini rossi:
«Sono minacciati dall' industria mineraria»

L'agenzia per i diritti indios: «Crimine contro natura». 'Survival International': «Alcuni malanni per loro fatali»

Una delle ultime tribù indigene del Sudamerica, ancora isolata dal resto del mondoo, è stata fotografata da un aereo in una remota zona della selva amazzonica, al confine tra Brasile e Perù. Le immagini mostrano una quindicina di persone, i volti dipinti con pigmenti rossi e armate di arco, che guardano con terrore verso l'alto. In una foto si vedono chiaramente i guerrieri che tentano di colpire il velivolo con le frecce.
La spedizione era finanziata dal governo dello Stato brasiliano di Acre e l'agenzia governativa che difende i diritti degli indios in Brasile, il Funai, ha detto che le foto sono state scattate e divulgate per dimostrare l'esistenza della comunità e impedire che l'industria mineraria illegale distrugga il loro territorio. L'organizzatore della missione e coordinatore del Fronte della Protezione Ambientale del Funai, Josè Carlos dos Reis Meirelles, ha spiegato che le foto dimostrano che «i meccanismi per proteggere queste popolazioni non sono serviti». Il gruppo è probabilmente il più numeroso di quattro tribù isolate che ancora rimangono ad Acre e di cui era documentata la presenza dal 1910. Secondo 'Survival International', un'organizzazione che si batte per i diritti degli indios, sono circa 40, in Brasile, i gruppi indigeni che ancora non hanno stabilito contatti con il mondo esterno. Ma si calcola che le tribù che non hanno mai o quasi mai avuto contatti con la civiltà siano un centinaio in tutto il mondo.
Di solito formate da poche persone (quasi mai oltre il centinaio), queste tribù vivono nei luoghi più remoti della terra, in regione inesplorate, in cui la civiltà non è riuscita ad arrivare: isole sperdute o nel cuore delle selve vergini di Sudamerica, Asia e Oceania. Oltre la metà sono concentrate in Brasile e Perù. Sono le popolazioni più minacciate del pianeta, messe a rischio dall'industria mineraria e da quella del legname che disbosca i territori dove abitano, spesso decimate da un contatto anche fugace con gli estranei: malattie innocue per gli occidentali risultano completamente nuove e quindi letali per loro. «Malanni facilmente curabili per noi, per loro sono fatali - spiega Fiona Watson, di 'Survival international' -. E queste popolazioni sono uniche: una volta sparite, lo saranno per sempre». «Quel che sta accadendo in questa regione è un crimine enorme contro la natura, le tribù, la fauna e non è altro che la testimonianza dell'assoluta irrazionalità con cui noi, i 'civilizzati', trattiamo il mondo» aggiunge Josè Carlos dos Reis Meirelles. Secondo lui le comunità fotografate sono minacciate dall'attività mineraria: «Tutta l'illegalità che si può immaginare accade nell'Amazzonia peruviana. Dal lato brasiliano, la gente riesce a vivere isolata e a evitare invasioni».

Articolo tratto da Corriere.it