01 ottobre 2007

Birmania e Darfur...la situazione non migliora


Darfur, una strage contro la pace. Terrore tra i profughi, rifugiati senza aiuti.

I "caschi verdi" africani attaccati da una fazione di ribelli arabi. La carneficina ad Haskanita: si parla di dieci morti, ma forse sono decine.

Come riescano a viaggiare le notizie, in un deserto rovente dove manca tutto, è uno dei misteri del Sudan. Ma i volti dei pastori di cammelli, distesi ai lati della pista dopo un'altra notte insonne per il Ramadan, all'alba non sorridono più stancamente ai camion dei convogli umanitari. I posti di blocco, all'improvviso, si chiudono. Sospesi i permessi di transito da Khartoum. Il Darfur torna isolato dal mondo. Tra i rami dei tamarindi e dalle gigantesche acacie, che fino a poche ore fa hanno riparato i fuochi accesi per distillare il sorgo, tornano i penzolare i mitragliatori dai manici di legno.
Le agenzie ancora non diffondono i dettagli della carneficina nella base di Haskanita, sul confine tra il Nord e il S
ud. Nell'inferno dei campi dei rifugiati, due milioni e mezzo di esseri umani senza più speranza, però già monta la rabbia.
Un esercito di donne e bambini riprende la fuga da ciò che resta dei villaggi rasi al suolo in cinque anni di guerra civile.
"Questa strage - fa sapere Abu Bakr Kadu dal suo covo tra le montagne dello Jabel Marra - è contro i colloqui di pace del 27 ottobre in Libia e contro l'arrivo dei 26 mila uomini di Nazioni Unite e Unione africana".
Per il comandante dei ribelli dell'Esercito di liberazione del Sudan, il Darfur rischia di precipitare "dal genocidio degli africani, nell'abisso dello sterminio di tutti contro tutti".
La paura di un fallimento definitivo, capace di far riesplodere l'intero Corno d'Africa, si svela nel coprifuoco meridiano che svuota anche i miseri suk dove si scambiano sale, datteri, arachidi e teste di pecora. La verità frenata dal governo, dentro le baracche di fango e cartone, è nota dall'alba. Il più sanguinoso attacco dal 2004, ossia da quando in Darfur sono stati inviati i 7 mila soldati dell'Unione africana, avrebbe ucciso dieci militari delle forze di pace. Una dozzina i feriti.
Si devono però aggiungere una sessantina di dispersi. Il bilancio, con il passare delle ore, si aggrava. Tra i ribelli si dice che alla fine le vittime saranno non meno di ottanta.
"Un cumulo di cadaveri - dice Abdel Aziz el-Nur Ashr, comandante dei guerriglieri di Giustizia ed Eguaglianza - sbattuto in faccia alla comunità internazionale dal presid
ente Omar al-Bashir".
La zona della strage è off-limits.
Difficile verificare le voci ed accertare i fatti. Il portavoce dell'Unione africana, Noureddinne Mezni, sostiene che si è trattato di "un attacco in grande stile da parte di milizie non identificate". Sabato sera, appena calata l'oscurità e rotto il digiuno musulmano, una trentina di jeep con i mitra sul tetto sarebbero penetrate nel campo dei peacekeepers africani.
La base di Haskanita, dopo una notte di guerra, risulta rasa al suolo e bruciata. "Un'azione pianificata e mirata - dicono ora i caschi verdi - siamo sgomenti e sotto shock. Non si è solo interrotto il cessate il fuoco: per la prima volta sono state violate le garanzie internazionali di una forza di pace. Lo scenario, in Sudan, può precipitare".
Da un paio di mesi la zona è l'epicentro della resa dei conti tra le armate dei ribelli africani, le milizie arabe armate da Khartoum e i gruppi di banditi ormai fuori controllo. Quasi 47 mila rifugiati darfuriani, tra Haskanita e Ghannamah, non possono più ricevere gli alimenti distribuiti dall'Onu. La fame, terminata la stagione delle piogge, torna a ritirare il proprio carico di corpi.
La regione è ormai un gigantesco e impenetrabile lager, dove i civili vengono usati come ostaggi sia dagli insorti che dal governo. Chi riesce a fuggire, racconta della ripresa sistematica degli stupri e dei seque
stri dei bambini, venduti come schiavi nella capitale. Unica presenza internazionale, ad Al-Lait, quella della cooperazione italiana. La sua sede, ad una sessantina di chilometri da Haskanita, non risulta coinvolta nello scontro.
Il 10 settembre l'area era già stata massicciamente bombardata dall'esercito.
Antonov ed elicotteri, camuffati con le insegne delle Nazioni Unite, si erano vendicati per un'offensiva dei ri
belli di Ahmed Abdel Shafi. Qualcuno sostiene però che si sia voluto colpire il cuore di un'imminente alleanza tra gli insorti. Una tragedia: il conflitto ormai è sfuggito di mano a tutti e nessuno controlla più nulla. La "somalizzazione" della guerra in Sudan, mentre si avvicinano scadenze politiche cruciali per tutta l'Africa, si coglie anche nascosti su un camion di pompelmi partito dalle rive del Nilo Bianco.
Fino a metà giornata le dodici fazioni ribelli, moltiplicate in vista dei colloqui fissati a Tripoli dal segretario generale dell'Onu, Ban Ki-Moon, si sono accusate a vicenda del massacro di sabato. "Da quattro giorni non abbiamo più truppe ad Haskanita - assicura il portavoce di Giustizia ed Eguaglianza - e l'attacco è partito da tre fronti. Qualche fazione della guerriglia s
i è montata la testa e cerca di entrare nella spartizione della torta in Libia". Solo al tramonto i leader carismatici degli insorti concordano la condanna e puntano il dito contro l'esercito sudanese. "Sabato e fino all'alba di domenica - dice Abu Bakr Kadu - abbiamo combattuto contro i governativi.
Gli uomini dell'Unione africana si sono trovati in mezzo ai bombardamenti. Khartoum non si è lasciata sfuggire l'occasione per regolare i conti con le forze di pace e mandare un segnale politico forte all'Occidente".
Se gli autori della strage restano misteriosi, l'aggravarsi della situazione in Darfur è evidente
. Oltre 230 mila morti, 3 milioni di spettri rinchiusi nei campi per gli sfollati, non bastano. A fine mese è stato fissato l'avvio dei colloqui di pace.
I capi ribelli e i leader tribali, che si giocano potere, ricchezze e carriera nella capitale, hanno polverizzato lo schieramento degli insorti.
Alcuni, ora nel mirino del Palazz
o di Vetro, hanno già annunciato che non siederanno al tavolo delle trattative.
Entro dicembre dovrebbe poi arrivare in Sudan la "forza ibrida" di 26 mila uomini, la più imponente missione di pace mai varata dall'Onu. Caschi blu internazionali al fianco di caschi verdi africani, che hanno scandalosamente fallito. Il governo sudanese, pressato dagli estremisti islamici e minacciato da Al Qaida, si oppone però all'intervento di soldati occidentali.
Europa e Stati Uniti, fiaccati da Afghanistan e Iraq, temono di iniziare a contare i propri morti anche in Africa. Di qui, in queste ore, l'escalation della tensione a Khartoum e il riesplodere del caos nel Darfur. Ogni metro di terreno conquistato, ogni villaggio controllato, sarà giocato al traballante tavolo di Tripoli.

Un Darfur in fiamme, in vista delle elezioni legislative del 2009 e del referendum per l'indipendenza del Sud nel 2011, può spostare gli equilibri di un regime in lotta per spartire tra i clan il petrolio venduto alla Cina.
Nelle università di Khartoum e all'estero c'è già chi ha smesso di lavorare per la pace, puntando più semplicemente a travolgere la dittatura parlamentare del Sudan. La violenza irrompe così anche alle periferie d
elle città, minaccia Al Fashier, Nyala ed El Geneina, al confine con il Ciad, torna ad estendersi nel Sud e nell'Est del Paese.
Ribelli africani, milizie arabe e predoni tribali attaccano ormai anche gli aiuti internazionali, a caccia di fuoristrada, telefoni e denaro
. Da ieri notte in Darfur tutti sanno che gli annunciati preparativi di pace hanno innescato l'ultimo atto dello sterminio.
Nell'immenso campo di Dar al-Salam, sommerso di sabbia, escrementi e rifiuti, i maschi questa sera non hanno annegato la disperazione nelle ciotole ardenti della "Marissa".

Alcol e benzina, aromatizzati con qualche cereale, non assolvono dal dire la verità ai propri figli: "Da qui nessuno tornerà ai villaggi dove i padri dei nostri padri davano un nome a tutte le stelle".
Il vecchio Awad, col carbone, segna di nero i muri della capanna rossi di fango.
Inizia il calcolo dei caduti di quello che definisce "il nostro massacro definitivo
".

Articolo tratto da Repubblica.it



Birmania, inviato Onu: «Ultimo tentativo per incontrare la giunta»

Ultimo tentativo per incontrare il generale Than Shwe, capo della giunta militare al potere in Birmania.
L'inviato speciale dell'Onu, Ibrahim Gambari, rip
roverà per l’ultima volta ad ottenere un colloquio con il leader della giunta, dopo che domenica era fallito l’incontro con i vertici nella nuova capitale Naypyitaw.
Gambari era invece riuscito a incontrare per oltre un'ora domenica a Rangoon la leader dell'opposizione Aung S
an Suu Kyi, dopo aver discusso sabato nella capitale Naypyitaw con alcuni dirigenti birmani, ma non con il capo della giunta militare, generale Than Shwe, nè il suo vice, Maung Aye, come si era creduto in un primo tempo.
Intanto, a Rangoon e nelle altre città del Paese, migliaia di soldati continuano a presidiare strade, ponti e pagode per scongiurare nuove proteste.
Sono decine gli arresti di chiunque sia sospettato di aver orga
nizzato o guidato le manifestazioni dei giorni scorsi.
Gambari è stato inviato in Birmania dal Segretario generale dell'Onu
, Ban Ki-moon, con la missione di mediare tra le due parti per una soluzione pacifica della crisi in atto da mesi nel paese e sfociata nell'ultimo mese in imponenti marce di proteste e scontri con i militari.
L
'inviato Onu si è recato sabato a Naypyitaw, a circa 385 chilometri a nord di Rangoon, quindi è rientrato a Rangoon. Subito rientrato a Rangoon, Gambari è stato condotto in una residenza su University Avenue, la strada dove si trova l'abitazione del Premio Nobel per la Pace Suu Kyi, costretta da anni agli arresti domiciliari.
L'incontro tra l'inviato Onu e Suu Kyi è durato circa 90 minuti. Al momento non si hanno dettagli dell'incontro.

La missione Onu si è resa urgente dopo la violenta repressione messa in atto dai militari contro i manifestanti birmani scesi in piazza dal 19 agosto scorso per protestare contro il rincaro del prezzo del carburante.
La mobilitazione ha suscitato l'interesse della comunità internazionale quando la guida delle proteste è stata assunta da migliaia di monaci buddisti, al fianco della gente per denunciare la brutalità del regime e chiedere negoziati di riconciliazione nazionale.

Il regime ha risposto anche questa volta con la forza, aprendo il fuoco sulla folla e causando almeno 10 morti, anche se fonti dell'opposizione parlano di un bilancio molto più sanguinoso.
A
lmeno 1.000 le persone arrestate, tra cui centinaia di monaci.
Nei giorni scorsi, i militari hanno occupato e isolato i principali monasteri di Rangoon e Mandalay per impedire ai religiosi di scendere di nuovo in piazza.


Articolo tratto da
L'Unità.it

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