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08 novembre 2008

Un'altra guerra senza fine


Congo, ancora scontri.
Dall'Onu appello alla pace


«La situazione nell'est del Repubblica congolese è drammatica, occorre un'immediata applicazione tutti gli accordi già firmati per garantire una pace e una stabilità durevoli nella regione».
A lanciare l'ennesimo allarme sulla crisi in Congo è stato il segretario delle Nazioni Unite, Ban
Ki-Moon, durante il summit internazionale tenutosi venerdì a Nairobi.
Al termine dei lavori, i capi di Stato hanno rivolto un appello per un «cessate il fuoco immediato» e la creazione di un corridoio umanitario per assistere la popolazione civile. A margine della conferenza, alla quale hanno partecipato anche i presidenti della Repubblica congolese, Joseph Kabila, e del Ruanda, Paul Kagame, i rappresentati degli Stati africani hanno dichiarato di essere disponib
ili a inviare forze di peacekeeper, e hanno chiesto all'Onu di rendere più forte il mandato dei caschi blu che operano già nella regione, rifornendoli di risorse adeguate. Immediata è stata la risposta delle milizie ribelli del Congresso Nazionale del Popolo, che hanno definito il vertice «un'altra riunione inutile».
Una
dichiarazione che rispecchia la chiusura di ogni fronte diplomatico e la drammaticità di un conflitto che rischia di estendersi a tutta la regione dei Grandi laghi africani. Intanto, nell'epicentro della guerra civile, la provincia settentrionale del Kivu, sono ripresi gli scontri fra i ribelli guidati da Laurent Nkunda e i Mai-Mai, i miliziani filo-governativi congolesi fiancheggiati adesso dalle truppe dell'Esercito angolano. Nella città di Kibati, a una decina di chilometri da Goma, capoluogo del Kivu, i combattimenti tra i fronti opposti hanno seminato il panico fra i rifugiati di un campo profughi, in attesa di ricevere cibo dal Pam, il Programma alimentare mondiale dell'Onu.
E a Goma, dove non si ferma l'esodo di migliaia di profughi, in fuga dalla scia di sangue provocata da ribelli e miliziani, la condizione dei rifugiati, in emergenza alimentare e sanitaria, è sempre più disperata. Secondo l'Onu, che ha inviato nel Kivu un'equipe di ispettori per indagare sulla violazione dei diritti umani e sul massacro di 20 persone da parte dei ribelli congolesi, gli sfo
llati nei campi di profughi a nord di Goma sarebbero almeno 65 mila, e altre migliaia starebbero per arrivare. L'unica notizia positiva arriva dal ministero degli Esteri tedesco, e riguarda Thomas Scheen, il giornalista belga corrispondente del quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung rapito martedì scorso nei territori a nord-est del Congo durante un combattimento tra miliziani e ribelli.
Scheen sarebbe in salvo e nelle mani della Monuc, la missione di caschi blu delle Nazioni Unite.

Articolo tratto da L'Unità.it

23 maggio 2008

Streghe e fantasmi...della fame


Caccia alle streghe in Kenia: 11 bruciati vivi

La folla inferocita lincia 8 donne e 3 uomini: «Sono muganga, devono morire».

Undici
persone (otto donne e tre uomini) accusate di stregoneria sono state bruciate vive a Nyakeo, 300 chilometri a ovest di Nairobi in Kenia. La notizia è stata confermata al Corriere dalla polizia, che però non ha voluto aggiungere nessun dettaglio tranne: «Erano accusate di essere muganga», una parola che in swahili vuol dire «stregone ». Secondo altre fonti, qualcosa di poco chiaro è successo nei dintorni del villaggio (forse due bambini sono morti) e la collera della popolazione è montata. Qualcuno ha indicato alcune donne come colpevoli di un malefizio e così è partita la spedizione punitiva. Gruppi di uomini, armati di bastoni, sono andati casa per casa alla ricerca dei presunti stregoni.
Una volta scovati, sono stati picchiati dalla folla esaltata ed eccitata e, dopo essere state cosparsi di benzina, accesi come fiammiferi. In tutta l'Africa centrale la magia nera è una pratica comune.
Rivolgersi allo stregone quando si è malati, no
n per avere medicine adeguate, ancorché tradizionali, ma per «togliere dal corpo il maligno che ha causato l'infermità», è considerata una prassi normale, specie nelle zone rurali.
Gli stregoni in cambio della speranza ricevono i mezzi di sostentamento, cibo e denaro. Naturalmente la magia può essere usata per malefici e fatture. E così ogni tanto le cose per il «muganga» si mettono male. In caso di calamità, catastrofi o lutti occorre trovare un colpevole e lo stregone del villaggio viene accusato di essere la causa di tutti i mali. I «muganga» sono comuni nelle comunità cristiane e animiste, ma anche fra gli islamici. Nei Paesi di cultura musulmana subsahariani vengono chiamati «marabù».
In Kenia la stregoneria è talmente diffusa che nel 1992 l'ex parlamentare, ex ministro delle amministrazioni locali e ora consigliere speciale del presidente Mw
ai Kibaki, Musikari Kombo (l'uomo che assieme al ministero dell'ambiente italiano doveva chiudere la discarica più penosa e disumana del Paese, Dandora) fu dichiarato colpevole di praticarla contro i candidati rivali. Fu squalificato per cinque anni e allontanato così dal processo elettorale. In Liberia si diceva che il vecchio presidente Charles Taylor, gran pontefice di una setta esoterica, amasse mangiare il fegato crudo dei nemici uccisi. Lui non smentiva perché i suoi «sudditi» erano terrorizzati da queste pratiche. In Kenia la legge bandisce la stregoneria come reato penale e se si è condannati si rischia una multa di 5 euro o sei mesi di prigione.

Articolo tratto da Corriere.it





Allarme-cibo. Fao e Ocse: prezzi alti per 10 anni
I prezzi internazionali dei prodotti alimentari non torneranno ai livelli precedenti all'attuale crisi per almeno dieci anni. Lo afferma un rapporto congiunto dell'Ocse e della Fao.


Nel 2017,
prevede il rapporto, l'olio di semi costerà (dato depurato dell'inflazione generale) il 33% in più rispetto alla media del periodo 2005-2007, il mais il 15% in più, il frumento il 2% e il riso l'1% in più. «È probabile - afferma il testo - che tutti i prezzi medi reali, senza eccezione, rimarranno al di sopra di quelli osservati tra il 1985 e il 2007». Secondo il documento, intitolato "Agricultural Outlook 2008-2017", i prezzi offriranno tuttavia respiro nel breve periodo, con un calo già quest'anno rispetto ai record registrati nei mesi passati. «I prezzi alimentari rimarranno considerevolmente più alti in termini nominali che nel passato ma al di sotto degli attuali record», sottolinea una fonte Ocse.

Articolo tratto da IlSole24Ore.com

12 maggio 2008

I "ricchi scemi"?!


Dall’Africa accuse alla Fao: va abolita

Il presidente senegalese Wade: «La crisi alimentare è colpa sua».

A meno di un mese dalla sua conferenza sulla «Sicurezza alimentare» che porterà a Roma una trentina tra capi di Stato e di governo da varie parti del mondo, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per il cibo e agricoltura si è trovata attaccata alle spalle: dal presidente di un Paese dell’Africa, il continente più interessato all’azione internazionale contro fame e miseria. «È uno spreco di danaro e va abolita», ha detto della Fao il senegalese Abdoulaya Wade, capo sia dello Stato sia del governo in una Repubblica presidenziale, leader a Dakar del Partito democratico che aderisce all’Internazionale liberale. E, dettaglio non secondario, connazionale di Jacques Diouf, il senegalese che dal 1994 guida la Fao con la carica di direttore generale. In passato, Wade aveva sostenuto che la sede centrale dell’organizzazione andava trasferita da Roma alla capitale di una nazione africana. «Ma questa volta mi spingo oltre: voglio che sia abolita», ha dichiarato senza mezzi termini l’altro ieri il presidente alla radio e alla televisione del suo Paese. Dal 3 al 5 giugno prossimi, la conferenza internazionale in Italia su sicurezza alimentare, cambiamenti climatici e bioenergia avrebbe dovuto offrire a Diouf una cornice solenne e pacata dalla quale chiedere al mondo ricco ulteriori fondi per gli aiuti. Il segretario generale, di certo, sperava di poter esporre in un clima privo di rumorose interferenze la sua tesi secondo la quale gli aumenti generalizzati dei prezzi dei cereali—dovuti all’impennata del petrolio, alla crescita della domanda di cibo in Cina e India, alla speculazione, alle coltivazioni per biocarburanti e ad altri fattori— vanno colti come opportunità per rilanciare l’agricoltura. Wade non gli ha dato una mano. La Fao, secondo il presidente del Senegal, è un doppione di altre diramazioni del Palazzo di Vetro e dovrebbe trasmettere i suoi «utili» al Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo, l’Ifad, un’istituzione finanziaria dell’Onu con quartier generale a Roma da spostare in Africa. A giudizio di Wade, i finanziamenti della Fao spesso finiscono a «organizzazioni non governative ingorde e divoratrici di aiuti... le quali li useranno in ogni genere di trucco, amministrazione, viaggi, hotel di lusso». E «l’attuale situazione è in gran parte un suo fallimento ». In Senegal, uno degli Stati africani che più assorbe aiuti internazionali, nei mesi scorsi l’aumento del prezzo dei cereali ha già prodotto rivolte. Wade, tuttavia, ha ritenuto di dover affermare che «in Senegal non c’è fame e non ce ne sarà». Allora per capire meglio il senso dell’attacco alla Fao vanno tenuti presenti anche altri elementi. Le stime del Programma alimentare mondiale portano a ritenere che nel Paese diWade le scorte alimentari non siano al livello delle necessità. Uno Stato non può ottenere aiuti internazionali se non lancia un appello urgente. Il governo di Dakar non lo ha lanciato. La Fao, che di sicuro ha inefficienze e sprechi, può diventare però un bersaglio esterno, utile, verso il quale indirizzare malumori e rabbia destinati altrimenti contro il governo. Anche a Dakar, in più, esiste una politica interna fatta di cariche e poltrone. Il direttore generale della Fao Diouf non ha proclamato ambizioni presidenziali, comunque potrebbe avere i titoli per puntare, un domani, alla posizione di capo dello Stato. Il Diouf che Wade ha avuto come predecessore prima di vincere le elezioni è soltanto un omonimo. Ma non si sa mai.


Articolo tratto da Corriere.it

23 novembre 2007

Guerra dimenticata


Somalia, fuga dall'inferno: viaggio nella città degli orrori

Tra bande di ribelli e militari, dove a un anno dall'invasione etiope e dalle bombe Usa regna la più crudele anarchia. Negli ultimi dieci giorni sono scappati in 250mila.

Dopo 14 conferenze di pace, a quasi un anno dall'invasione etiope e dai bombardamenti Usa, giustificati con la necessità di fermare l'avanzata di Al Qaeda in Africa, la Somalia precipita sempre di più nel dramma. Una settimana fa, infatti, dall'Etiopia sono arrivati altri 20 mila uomini e 52 carri armati con un ordine semplice: fare una strage. Comincia da qui il viaggio nell'inferno della Somalia, paese senza pace, dove centinaia di conflitti sono stati coperti dal marchio globale di una guerra civile che dura da 17 anni. I militari del presidente provvisorio sono alla fame, i civili allo stremo (quattromila i morti nel 2007): donne, bambini e vecchi scappano a piedi. Un popolo in fuga dalla capitale e che si rifugia nelle tendopoli. Sperando nell'aiuto della Comunità internazionale.
Adesso, con un lampo strano negli occhi, lo chiamano "la scimmia". Hawo Ali, da due settimane, vive sospeso tra gli spini del secondo ramo di una grande acacia. È il segreto degli sfollati nel campo di Elasha, a sud della capitale. L'eroe dell'ultima battaglia di Mogadiscio ha 11 anni. Per due ore ha trascinato per le vie del grande mercato di Bakara il cadavere di uno dei sette soldati etiopici ammazzati dai ribelli al governo di transizione. La notte prima era stato costretto ad assistere allo sterminio della sua famiglia. Assieme alle vedove del clan è stato scelto dalle milizie degli shabaab, i giovani delle corti islamiche in rotta, per offrire un macabro regalo agli invasori di Addis Abeba.
Nel 1993 era successo con gli americani. Lo choc popolare aveva costretto Bill Clinton a ritirare le truppe. Oggi non è andata così. Gli etiopici hanno arrestato venti maschi somali, rastrellati a caso nel quartiere di Yagshid. Venti uomini vivi in cambio di un cadavere preso a calci dalla folla? Ai mercanti del porto è sembrato che il nemico cedesse. L'errore l'hanno capito l'altra notte. Nel quartier generale dell'esercito governativo è entrata la salma dell'occupante, avvolta in un lenzuolo bianco. Dal carcere sono usciti venti sacchetti di nylon blu, riempiti con i pezzi degli ostaggi, irriconoscibili, mescolati alla rinfusa.
È scattata così l'ultima vendetta etiope contro il popolo somalo, scudo per la nuova resa dei conti tribale. Un ordine semplice: consumare una strage senza limiti, decimare la capitale, seminare il terrore e la disperazione in ogni zolla del Paese. Per questo Hawo Ali ora deve nascondersi da tutti. Il 4 novembre è stato il volto dell'insurrezione ispirata dai fondamentalisti, decisi a innescare una rivoluzione nazionalista. Ha fallito. Ora, per tutti, è solo il colpevole del più crudele massacro del Corno d'Africa dall'inizio della guerra civile in Somalia. È un bambino, ma ha capito. Rifiuta la razione di mais. La sua patria è un altoforno in fiamme, il destino ha spento la sua stella.
Dieci chilometri a nord, poco sotto lo stadio di Mogadiscio, tocca a Fortun Abdullahi Ali Afrah assistere alla catastrofe. Un proiettile le è esploso negli occhi. Ha sedici anni, nessuno ha il coraggio di portarla in un ospedale. La madre al mattino la depone su una sedia, in mezzo alla strada. Se non può vedere, che almeno senta quello che succede a chi può camminare. La città è un misterioso, imprevedibile, deserto campo di battaglia. Tra le macerie, squarci e spazi aperti dai bombardamenti sono vuoti. Negozi, mercati, scuole, uffici, università e porto sono chiusi.
Ciò che resta della popolazione passa il giorno barricato nelle buche scavate sotto il pavimento delle case. Sono quasi tutti maschi, rimasti a difendere le proprietà. Chi deve uscire in cerca di acqua e di cibo, corre ricurvo tra auto bruciate e muri crollati. Cadaveri e feriti vengono lasciati dove cadono. Un'aria spessa, bollente e polverosa, stende su tutto una nebbia affumicata. Negli ultimi giorni non si spara più solo di notte.
Gli insorti combattono in campo aperto. Ore di battaglia intensa cedono a lunghe pause di silenzio. Il terrore dirada gli scontri. Soldati etiopici e squadre fedeli al governo rastrellano però senza sosta, edificio per edificio. Circondano un quartiere e chi è all'interno è perduto. Ufficialmente danno la caccia ai terroristi vicini alle Corti islamiche, in fuga da gennaio. I superstiti raccontano invece un'altra storia. I militari armati dal presidente provvisorio, Abdullahi Yusuf del clan darod, da mesi non vedono un soldo.
Alla fame, come la gente, aggrediscono e rapinano chi non confessa di sostenere la jihad. Chi ammette è giustiziato sul posto, quindi mutilato. Chi resiste viene decapitato. Membra umane sono state appese in una macelleria, come lezione collettiva. Centinaia le donne stuprate davanti ai parenti. Il primo ministro, Ali Gedi del clan hawiya, è stato costretto a dimettersi e a rifugiarsi in Kenya. La capitale torna nelle mani dei "signori della guerra", dei darod che garantiscono a Yusuf il controllo di porto e aeroporto: mezzo milione di dollari al giorno, in contanti. Sindaco e capo della polizia impongono il loro dazio a chi scappa. Per i bambini sotto i 12 anni la tariffa è doppia. I ribelli, non solo fondamentalisti, si preparano ad una lunga resistenza. Nel quartiere "Mar Nero", attorno al grande mercato e a Wahara Adde, si scavano trincee e cunicoli sotto le macerie. Dopo 14 conferenze di pace, a quasi un anno dall'invasione etiope e dai bombardamenti Usa, giustificati con la necessità di fermare l'avanzata di Al Qaida in Africa, la Somalia precipita in un massacro dominato dall'anarchia.
Centinaia di conflitti coperti dal marchio globale di una guerra civile che dura da 17 anni: vendette tra clan, tribù e famiglie; lotte di potere tra generali e criminali che hanno spodestato Siad Barre; contese tra le bande che alimentano il più fiorente mercato africano di armi, droga e scorie nucleari; guerra santa dei fondamentalisti islamici, finanziati dal mondo arabo attraverso l'Eritrea; invasione colonialista dell'Etiopia, appoggiata dagli Usa per assicurarsi il controllo di petrolio e uranio; infine Somaliland e Puntland che reclamano indipendenza, l'irredentismo che riesplode nell'Ogaden, la resistenza nazionalista che spinge il nord contro il centro e questo contro il sud. In mezzo al caos, i caschi verdi dell'Unione africana. Avrebbero dovuto essere 8 mila. Meno di duemila ugandesi invecchiano assediati nelle caserme. Sabato notte i ribelli islamisti hanno obbedito all'appello di uno dei loro capi, Abu Mansur.
Il quartiere generale di Mogadiscio è stato bombardato. Una capitale devastata attende l'ultimo atto della propria tragedia: l'esplosione degli attentati contro i contingenti stranieri, qui come ad Addis Abeba, o nel resto del Corno d'Africa. Per questo una folla sterminata, che aveva fin qui sopportato povertà e dolore come nessun altro, ora scappa. Vede che la criminalità rapace, l'indifferenza e l'idiozia della comunità internazionale, hanno sostituito il fondamentalismo degli islamisti, rinvigorito dall'intervento degli Usa. Il popolo in fuga non tenta solo di sottrarsi alla morte: non accetta di essere testimone passivo dalla propria autodistruzione, come un cuore sul fondo dell'abisso.
Un fiume di scheletri neri, apatici e muti, emerge da quartieri isolati dal mondo. Nella capitale il cibo sta finendo e manca l'acqua potabile. I mercati, con la scusa di tagliare il sostegno popolare alle milizie shabaab, sono stati devastati e chiusi dall'esercito. Donne, bambini e vecchi scappano a piedi. I carretti, trainati da asini, sono colmi di materassi, stracci, pentole. Il racket dei miserabili vende posti su stipati pullmini, schiacciati dalla folla che si arrampica sui tetti. La popolazione si perde tra cammelli, capre, mucche, galline e cani, pure in fuga dalle esplosioni.
Lungo i bordi dell'unica pista allagata, che collega Mogadiscio con il Sud, si affittano alberi per ripararsi dalla pioggia torrenziale. Le donne si fermano nelle pozzanghere per riempire di un liquido fangoso taniche gialle barattate con ciotole di riso. Si cucina, ci si lava, con la melma. Per accendere il fuoco i pochi maschi abbattono piante di cinnamomi e cespugli. Nei canali si ammassano le carcasse degli animali morti.
Per mangiare si spara a branchi di scimmie grigie che, al tramonto, raggiungono la strada adescate con banane verdi. Bande di ragazzi si appropriano delle buche più profonde, le spianano e vi si stendono davanti. Chiedono cibo ai veicoli che scelgono di passarci sopra. I malati, oltrepassata la piazza K7 (sigla che indica la distanza dal centro di Mogadiscio), si fermano appena possono. Verso Lafole, i pozzi di Elasha e fino ad Afgoy, una distesa compatta di ramaglie, coperte con vestiti consumati e letame, protegge i reduci dagli orrori. Cinquanta, forse centomila ripari pieni di fori.
Non si muore solo per l'assenza di cibo, o avvelenati dall'acqua infetta. Fanno strage la malaria, il colera, la tubercolosi e la bilarziosi. Non esistono latrine. Centinaia i feriti da proiettili vaganti, schegge, mine. Makagedi Wasuge è stata centrata alla gola mentre fuggiva con il figlio in braccio. Era nato da sei giorni. Lo ha perduto e chiede agli amici di ucciderla. Poche, generiche, le medicine. Nei campi di rifugiati a Lafole, Alabaray e all'Università di Agricoltura, opera un solo medico. Abdulrahman Abdi Haline, ortopedico, distribuisce sedativi a quasi ottantamila persone. Ne ha poche scatole, manda i vecchi a raccogliere certe erbe tra le dune.
Ribelli vicini alle Corti islamiche e giovani insorti vengono curati clandestinamente. La massa è corrosa dall'odio contro l'Etiopia e contro "un governo agli ordini di Bush" che non controlla più nemmeno Villa Somalia, la propria sede dopo l'originaria a Baidoa. Fadumo, un anno fa, avrebbe impiccato chi le aveva imposto il velo integrale e chiuso caffè, cinema, radio e discoteche. Da questa mattina è volontaria tra i giacigli degli insorti. Fascia le ferite di chi, nel nome di Allah, le ha sgozzato il padre e un fratello.
Tra la capitale e Afgoy la tendopoli misura ormai cinquanta chilometri. Negli ultimi dieci giorni i fuggiti all'inferno di Mogadiscio sono stati oltre 250 mila. Mezzo milione da gennaio, un milione negli ultimi due anni. Un milione di esseri umani che hanno perso tutto, privi di un luogo dove vivere. Da fine ottobre i civili uccisi sono circa 500, duemila i feriti. Quattromila le vittime della guerra nel 2007, oltre 10 mila i feriti. Solo in novembre, ogni giorno, a Mogadiscio sono morti 25 abitanti. Quasi sempre madri con i figli. Si avvicinano ai mercati in cerca di cibo, vengono freddati dai cecchini. Ieri sera è capitato anche a Madina Elmi, famosa come "general". Ai tempi di Aidid era la donna dei "signori della guerra" che taglieggiavano gli innocenti.
Pentita, ha dedicato la vita alla pace. È stata colpita alla schiena mentre distribuiva pomodori agli orfani, ammassati poco fuori città. "Se la comunità internazionale non si sbriga - dice Tahlil Mahamud - tra un mese non avremo più sabbia per seppellire i cadaveri". È il capo di 2200 rifugiati, nascosti tra i cespugli che la stagione delle piogge fa rifiorire di giallo in un deserto rosso. Nelle ultime due settimane le 422 famiglie del suo clan hanno ricevuto 5 chili di riso e 10 di mais. I convogli umanitari sono al centro di un fuoco incrociato. L'esercito governativo li blocca per impedire i rifornimenti di cibo agli insorti. I fuggitivi li assaltano per una manciata di farina. I ribelli li rapinano per barattare cibo con armi. Sospesa tra guerra santa, conflitto civile, battaglia tribale e insurrezione patriottica, la Somalia è sconvolta dal compimento della più temuta catastrofe umanitaria del mondo.
Il futuro, la prevedibilità degli eventi, si estendono ad un paio di ore. "Non vogliamo il ritorno delle Corti islamiche - dice il vecchio Sheikh Osman Hamsow-Abd vicino alla moschea di Al Idayha, nella capitale - ma i responsabili di questa carneficina se ne devono andare".
Nelle ultime ore gli sfollati sono sempre più deboli. Mogadiscio si svuota. Per accorciare la marcia i più vecchi passano dalla spiaggia affacciata sull'oceano indiano. Camminano fino a Merca, cento chilometri a sud. Questa notte tre anziani sono morti sulla riva. I corpi, secchi come conchiglie spezzate, giacciono accanto ad una scuola mobile, allestita sotto una tenda per i figli dei rifugiati. I bambini, accanto, continuano a giocare a pallone prendendo a calci una sfera di alghe. In una capanna, costruita con i carapaci delle testuggini giganti, è riunita la "polizia".
Affitta scorte alle organizzazioni non governative che tentano di fronteggiare l'emergenza. Ora stanno concordando le tariffe, come fossero taxi. Ma la polizia, in Somalia, non esiste. Milizie claniche controllano porzioni di territorio. Se cambia la zona, cambia la scorta, composta da poveracci alla fame, in ciabatte, con il kalashnikov in mano. Tutto dipende da chi possiede più armi. Un terrorista delle Corti può finire a spalleggiare un "signore della guerra", passando dai ribelli all'esercito governativo, o viceversa. Si cambia casacca per una cesta di manghi, nessuno ci bada. Al riparo dei gusci di tartaruga i capi attendono l'annuncio del nome del nuovo primo ministro. Sarà un hawiya, Nur Hassan Hussein, della famiglia Abgal. Domani decideranno a chi passa la sicurezza e chi tocca fuggire. "Per parlare di riconciliazione - dice il sultano Moaim Adnan Osman - è necessario che un nuovo governo dialoghi con l'opposizione, coinvolgendo tutti i clan, aprendo ai moderati delle Corti islamiche ed emarginando i fondamentalisti. Gli invasori etiopici, i loro amici della Cia, se ne devono andare, consentendo l'invio delle forze di pace africane delle Nazioni Unite. Solo così, con il sostegno di Unione europea e Lega araba, potremo arrivare al disarmo, all'elezione di istituzioni autorevoli e alla ricostruzione del Paese".
Sembra un sogno, tutti lo raccontano come automi, nessuno ci crede. Chiudere i mercati e il porto di Mogadiscio significa scegliere di annientare la propria gente. Sparare sulla folla in fuga vuol dire rendere insuperabile l'odio tra Somalia ed Etiopia, tra mondo islamico e Occidente. Hassan Mursal lo sa. Per questo ieri mattina è partito. Ha un bastone, un camicione bianco e rigido come fosse di calce. Ad Afgoy dice di cercare la famiglia di suo fratello, scomparsa da aprile. Perché è rimasto solo, perché va verso sud, dove pensa di arrivare digiuno e a piedi scalzi, cosa deve annunciare ai nipoti? Non risponde alle domande. Alza le spalle, come andasse di fretta ad un appuntamento.
Tutti, qui, capiscono che saranno i loro corpi, la loro carne, a dare infine un senso fisico all'essenza del destino. Dietro ad Hassan inizia a muoversi un popolo. Non sa dove andare: ma forse, scappando in massa dall'orrore, protestando con il sacrificio estremo di se stesso, rifiutandosi di morire, sta trovando la sua strada.

Articolo tratto da Repubblica.it

12 settembre 2007

L'Africa si connette e il peyote sparisce


Cellulari contro la povertà: presto reti di telefonia mobile in 79 villaggi africani


Circa mezzo milione di persone, che le Nazioni Unite definiscono "i più poveri tra i poveri" presto saranno in grado di fare telefonate con i cellulari. Abbattere il digital divide nei paesi economicamente svantaggiati è una priorità che riguarda tutto il mondo industrializzato. Le iniziative sono molteplici e tra queste si inserisce il programma Millennium Villages dell'Onu, che si pone come obiettivo quello di estendere le reti della telefonia mobile in quelle zone che non vengono considerate importanti dalle società telefoniche perché non garantiscono un adeguato ritorno degli investimenti. Parliamo dell'Africa rurale, in particolare di 79 villaggi di 10 regioni africane.
Tutte aree – ha sottolineato l'Onu – dove la denutrizione è cronica ed è spesso accompagnata da malattie (curabili nei Paesi industrializzati), impossibilità di accedere alle cure sanitarie e grave carenza di infrastrutture. L'iniziativa, che vede la collaborazione dell'Earth Institute della Columbia University, è partita nel 2004 a Sauri, in Kenya e prevede che nei prossimi mesi sarà possibile dotare 79 villaggi africani di regioni come il Mali, l' Uganda, il Senegal e l'Etiopia, di reti mobili che potrebbero notevolmente migliorare la qualità della vita degli abitanti di queste aree, che molto spesso non hanno accesso a servizi basilari come l'acqua corrente o l'energia elettrica. Per Jeffery Sachs, consigliere speciale Onu, «il ruolo delle tecnologie mobili si sta notevolmente rafforzando, specialmente nelle aree remote, dove la capacità di comunicare è vitale».
È ormai dimostrato infatti che l'uso delle comunicazioni mobili è un potente traino per la crescita economica: secondo la London Business School , una penetrazione mobile del 10% è in grado di spingere la crescita annuale di un Paese dello 0,6%, dal momento che in molti Paesi in via di sviluppo i cellulari rappresentano l'unica infrastruttura disponibile in grado di migliorare la produttività. Le infrastrutture, così come i pannelli solari per ricaricare i telefoni, sono state fornite gratis da Ericsson Mobile, ma i servizi saranno fatti funzionare ed addebitati agli operatori locali.
Nella maggior parte dei paesi, Ericsson installerà una rete 2G, in grado di maneggiare le chiamate in voce come pure i trasferimenti dati via satellite alla velocità di 200 kilobit al secondo (kbps). «Una rete a banda larga di buona qualità che permette ai portatili di collegarsi ad Internet» spiega Carl-Henric-Henric Svanberg, Ceo di Ericsson ai microfoni della Bbc. Svanberg ha inoltre assicurato che la ditta istallerà presto reti 3G. Gli investimenti nel settore delle telecomunicazioni, secondo i dati dell'Itu (International Telecommunication Union) hanno raggiunto in Africa gli 8 miliardi di dollari nel 2005 contro i 3,5 miliardi del 2000. Le spese hanno riguardato un po' più le reti di telefonia mobile, il cui numero si è moltiplicato per cinque durante lo stesso periodo.
Tuttavia resta ancora molto da fare, rispetto al resto del mondo, per quanto riguarda la copertura internet. Nel 2005 meno del 4% degli Africani aveva accesso alla rete, contro il 9% di media dei Paesi in via di sviluppo. La banda larga non raggiunge l'1% della popolazione. Le lacune delle infrastrutture si traducono con dei costi d'uso più elevati sia per i singoli utenti che per le aziende, il 70% del traffico internet africano passa su reti impiantate fuori dal continente. Senza contare che le moderne tecnologie mobili e wireless dovrebbero garantire l'accesso a internet a banda larga, permettendo di bypassare la necessità di costruire infrastrutture fisse. Il segretario generale dell'Itu, Hamadoun Touré, ha proposto un Piano Marshall per lo sviluppo delle tecnologie di informazione e comunicazione in Africa.
Touré ha ricordato l'obiettivo delle Nazioni Unite è di collegare tutti i villaggi del mondo a internet per il 2015, essenziale per creare le condizioni di uno sviluppo economico più vasto. Per indirizzare le sue azioni, l'Itu organizza per il 29 e 30 ottobre un summit a Kigali su "Connettere l'Africa". Questo importante appuntamento nella capitale del Rwanda chiamerà a raccolta i rappresentanti dei governi, ma anche quelli del settore privato e delle organizzazioni internazionali.La realizzazione di reti mobili nei villaggi più poveri dell'Africa diventerebbe cruciale anche per l'educazione dal momento che non solo i bambini di questi villaggi potrebbero acquisire abilità informatiche, ma anche avere accesso a "un mondo di informazioni". Secondo un rapporto della Banca Mondiale, negli ultimi 25 anni, i Paesi in via di sviluppo hanno visto crescere in maniera considerevole la possibilità di accesso alle tecnologie ICT, soprattutto intese come linee telefoniche.
Tra il 1980 e il 2005, il numero di utenti dei servizi telefonici è cresciuto di oltre 30 volte. Lo sviluppo maggiore si è registrato nell'Europa dell'est e in Asia Centrale, dove dal 2000 al 2004 il numero di linee telefoniche è più che raddoppiato a 730 persone su 1000. Nell'Africa Sub Sahariana, il livello di linee è triplicato ma la percentuale di utenti è ancora molto bassa, a 103 persone su 1000.
Durante lo stesso periodo, la crescita maggiore nel numero di utenti Internet si è registrata nell'aria Medio Oriente – Nord Africa, che ha registrato un +370%. La strada da fare perché l'Icu divenga catalizzatore di crescita e progresso, però, è ancora lunga, dal momento che in quasi la metà dei Paesi del mondo i servizi di linea fissa e Internet sono forniti da monopoli, cosa che rende i costi di tali servizi inaccessibili alla maggior parte della popolazione.

Articolo tratto da IlSole24Ore.com

Forse riusciamo a dare l'opportunità a tutti di entrare nel sistema (giusto o meno che sia questo è un altro discorso)...



Addio al peyote della beat generation: Cactus dei sogni a rischio estinzione
Saccheggiata per decenni, la pianta dello "sballo" sta scomparendo. Cresce in Messico e Usa. E' usata anche dagli indios nelle cerimonie religiose.

Addio al peyote, il cactus magico degli indios del Messico che ha "fatto sognare" generazioni di giovani turisti europei ed americani trascinandoli carponi nella ricerca del frutto tra i sassi della Sierra. Addio a quel minuscolo ciotolo secco e immangiabile che sa di calce e anche alla mescalina di cui è ricco, quella che ha regalato allucinazioni e visioni agli scrittori beat in fuga dal Moloch dell'imperialismo. Addio miraggi. Secondo il Financial Times, che riprende un articolo uscito sull'Universal di Città del Messico, il "Nahuati" (o "Lophophora williamsii", nel suo nome scientifico) sarebbe ormai in via d'estinzione. Un fantasma. Non ci sarebbero - spiega l'articolo - prove concrete della sua prossima estinzione ma fonti accademiche segnalano che è sempre più difficile trovare il cactus nel deserto a nord del paese.
Il peyote è una pianta molto particolare, ci mette trent'anni a crescere e il saccheggio di mezzo secolo l'ha fatta diventare quasi introvabile. Fu infatti negli anni Sessanta che, sulla scia dei libri dell'antropologo Carlos Castaneda - A scuola dallo stregone su tutti - , centinaia di giovani americani, Kerouac compreso, fecero il viaggio nel deserto dal Texas alla scoperta del peyote e delle sue allucinazioni. E, spiegano gli esperti, iniziarono a provocarne la perdita perché invece di tagliare solo la sua corona verde offrendo al cactus la possibilità di rigenerarsi, di solito i turisti strappano tutta la pianta, uccidendola.
Oggi, quel che più preoccupa gli accademici come il professor Pedro Medellin dell'Università di San Luis Potosì non è la riduzione della biodiversità o la perdita del flusso di turisti occidentali a caccia di mondi virtuali ma la difesa della cultura degli huicoles, gli indios che da sempre usano il peyote nelle loro cerimonie religiose. Per loro le allucinazioni sono una forma di comunicazione con gli dei ed ogni anno, una volta all'anno, gli sciamani huicol camminano a piedi anche per 500 km in cerca dei loro cactus. "Vorremmo proteggerlo - dice a l'Universal uno sciamano che si chiama Andrés Carrillo - ma nessuno rispetta il peyote. La prima volta che lo mangiai avevo nove anni e ce n'era tantissimo, oggi è quasi introvabile". Ma la cosa che più lo preoccupa è che senza peyote - dice - i bambini huicol non potranno capire. "Il peyote è un libro, un maestro. Non puoi apprendere se non hai mai mangiato il peyote". L'uso del peyote risale ad oltre duemila anni fa. Insieme alle cerimonie religiose gli indios lo usavano contro il mal di denti, come analgesico, ma sembra che abbia poteri curativi anche per l'asma e i reumatismi. Come la foglia di coca è una pianta sacra, venerata per le sue proprietà. E come con la cocaina siamo stati noi, dopo averla scoperta, a renderla pericolosa, costosa, illegale. E in via d'estinzione.

Articolo tratto da Repubblica.it

Nooooo!!! Adesso Homer come farà a parlare con i coyote?!

01 agosto 2007

L'intervento in Darfur e il volontariato come "redenzione"




Darfur, in arrivo 26mila caschi blu


Svolta al Palazzo di Vetro sul Darfur.
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato ieri all'unanimità la risoluzione 1969 sostenuta da Italia, Francia, Gran Bretagna, Belgio, Congo, Perù e Slovacchia, che prevede l'invio di una forza di peacekeeping di 26mila caschi blu nella tormentata regione occidentale del Sudan, teatro di un conflitto che dal 2003 ha causato oltre 200mila morti e due milioni e mezzo di sfollati.
La forza sarà composta sia da uomini dell'Onu sia dell'Unione africana e avrà il compito di contribuire a stabilizzare l'area.
La missione, il cui costo è stimato in due miliardi di dollari per i soli primi dodici mesi, affiancherà i 7mila uomini del contingente dell'Unione Africana presenti nella regione da oltre un anno, che però hanno avuto scarso peso nell'arginare il conflitto anche a causa delle loro limitate risorse.
Il nuovo contingente ibrido, United Nations-African Mission in Darfur (Unamid), sarà formato da 19.555 soldati e 6.432 agenti di polizia. Tutti opereranno sulla base del capitolo 7 della Carta Onu, che autorizza l'«uso della forza per proteggere i civili» e per «prevenire attacchi armati che ostacolino l'adempimento della missione».
I caschi blu delle Nazioni Unite e i baschi verdi dell'Ua potranno usare la forza anche «per proteggere il personale, le basi, le installazioni e l'equipaggiamento, per assicurare la sicurezza e la libertà di movimento del proprio personale e degli operatori umanitari». A differenza poi di quanto previsto dalle precedenti bozze, il contingente non potrà sequestrare le armi rinvenute, ma sarà solo autorizzato a monitorarne i traffici. Infine, la risoluzione impone a tutte le parti in conflitto di cessare le ostilità.
La missione stabilirà il quartier generale non più tardi di ottobre e il 31 dicembre avverrà il passaggio di consegne con il contingente Ua, che sarà integrato nella struttura Unamid. Unamid che sarà guidata dal generale nigeriano Martin Agwai, mentre il responsabile civile sarà l'ex ministro degli Esteri del Congo Rodolphe Adada. Il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon ha definito quella in Sudan una «operazione storica e senza precedenti, un chiaro e inequivocabile segnale » della volontà di aiutare il popolo del Darfur.
Grande soddisfazione emerge anche dal commento di Marcello Spatafora, il rappresentante permanente dell'Italia, uno dei Paesi co-sponsor della risoluzione: «È solo l'inizio, non la conclusione, di un nuovo impegno della comunità internazionale. La forza di mantenimento della pace rappresenta una componente essenziale dell'azione internazionale volta a riportare la pace in Darfur».
Dopo un estenuante braccio di ferro del Palazzo di Vetro con il Governo di Khartoum e la Cina, la decisione positiva sulla risoluzione, fortemente sostenuta da Gran Bretagna e Francia, aveva cominciato a configurarsi nei giorni scorsi, con Pechino che per la prima volta sembrava aprire spiragli. Il primo ministro britannico Gordon Brown in una visita ufficiale a Palazzo di Vetro aveva annunciato di attendersi un imminente accordo: «Lavoreremo sodo per raggiungere un'intesa. Ma bisogna essere chiari: se qualcuno blocca la decisione (il Governo di Khartoum ndr) e le uccisioni continuano, io e altri imporremo sanzioni ancor più rigide».
Il Governo sudanese, che aveva criticato duramente diversi aspetti delle precedenti bozze, alla vigilia del voto si era dichiarato soddisfatto della risoluzione approvata.

Articolo tratto da IlSole24Ore.com

Finalmente si sono decisi?!




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"Caro Occidente smetti di salvare l'Africa"
L'accusa di uno scrittore americano-nigeriano che vive tra Lagos e gli Usa. Nel mirino star, O.N.G. e mobilitazioni studentesche: "Basta umanitarismo sexy"

L'autunno scorso, poco dopo il mio ritorno dalla Nigeria, mi sono sentito chiamare da una disinvolta studentessa, una bionda che
portava intorno alla vita un filo di perle africane intonate ai suoi occhi azzurri. "Salviamo il Darfur!" gridava la ragazza da dietro un tavolo coperto di opuscoli che esortavano gli studenti a mobilitarsi subito: "Take Action Now! Stop Genocide In Darfur!". Data la mia avversione per la facilità con cui gli studenti dei college si imbarcano nelle cause più in voga, stavo passando oltre; ma la ragazza mi ha bloccato gridando: "Non vuole aiutarci a salvare l'Africa?".
A quanto pare, in questi ultimi tempi l'Occidente, oppresso dai sensi di colpa per la crisi che ha creato in Medio Oriente, si rivolge all'Africa per redimersi. Studenti idealisti, celebrità come Bob Geldof e politici come Tony Blair si sentono investiti della missione di portare la luce nel Continente Nero. E atterrano qui per partecipare a seminari e programmi di ricerca, o per raccogliere bambini da adottare - un po' come i miei amici di New York quando prendono la metropolitana per andare al canile municipale a cercare un randagio da portarsi a casa.
Questa la nuova immagine che l'Occidente dà di se stesso: una generazione sexy e politicamente attiva, che per diffondere il verbo privilegia i paginoni dei rotocalchi con in primo piano la foto di qualche celebrità, su uno sfondo di africani stremati. E non importa se a volte le star impegnate nei soccorsi hanno volti emaciati - sia pure volontariamente - quanto quelli degli affamati che vogliono soccorrere.
L'aspetto più interessante è forse il linguaggio usato per descrivere quest'Africa da salvare. Ad esempio, la campagna pubblicitaria di "Keep a Child Alive" ("Mantieni in vita un bambino"), che ha scelto lo slogan "Io sono africano", presenta le foto di celebrità occidentali, per lo più di pelle bianca, con la faccia dipinta di "segni tribali", sotto la scritta "I am African" in lettere cubitali; e in basso, in caratteri più piccoli: "Aiutaci a fermare la strage". Ma per quanto benintenzionate, le campagne di questo genere promuovono lo stereotipo dell'Africa come una sorta di buco nero di malattia e di morte.
Le
notizie di stampa si concentrano invariabilmente sui leader corrotti del continente, sui signori della guerra, sui conflitti "tribali", sul lavoro minorile e sulle donne sfigurate da abusi e mutilazioni genitali. Per di più, queste descrizioni sono spesso precedute da titoli del tipo: "Riuscirà Bono a salvare l'Africa?"
Oppure: "Brangelina salverà l'Africa?" Anche se i rapporti tra l'Occidente e il continente africano non sono più apertamente basati su idee razziste, questi articoli hanno molto in comune con i resoconti dei tempi d'oro del colonialismo, quando i missionari europei venivano inviati in Africa per portarci l'istruzione, Gesù Cristo e la "civiltà".

Non c'è un solo africano che come me non apprezzi gli aiuti provenienti dal resto del mondo. Ma ci chiediamo fino a che punto quest'aiuto sia genuino, o se non venga dato nello spirito dell'affermazione di una superiorità culturale. Mi sento avvilito quando prendo parte a manifestazioni di solidarietà ove il conduttore recita l'intera litania dei disastri africani, prima di presentare qualche personaggio, per lo più bianco e facoltoso, che elenca le sue iniziative in favore dei poveri africani affamati.Vorrei sparire ogni volta che sento uno studente benintenzionato descrivere le danze dei villaggi come segno di gratitudine delle popolazioni per i soccorsi ricevuti. O quando un regista di Hollywood gira l'ennesimo film sull'Africa con un occidentale nel ruolo di protagonista - mentre noi africani, che pure siamo esseri umani in carne ed ossa, veniamo usati al servizio delle fantasie proiettate dall'Occidente su se stesso.
Queste descrizioni, oltre a passare sotto silenzio il ruolo preminente del mondo occidentale in molte delle situazioni più disastrose del continente, ignorano il lavoro incredibile che gli africani hanno compiuto e continuano a compiere per risolvere i loro problemi. Perché i media parlano spesso dell'indipendenza "concessa agli Stati dell'Africa dai dominatori coloniali", dimenticando le lotte e il sangue sparso dagli africani per conquistarla?
Come mai l'impegno per l'Africa di Bono o Angelina Jolie sono oggetto di smisurate attenzioni, mentre l'opera di africani come Nwankwo Kanu o Dikembe Mutombo è praticamente ignorata?
E come si spiega che in Sudan le esibizioni da cow boy di un diplomatico Usa di medio livello ricevano più attenzione degli sforzi di numerosi Paesi dell'Unione africana, che hanno inviato aiuti alimentari e truppe, e si sono impegnati in negoziati estenuanti nel tentativo di raggiungere un accordo tra le parti coinvolte in questa crisi?
Due anni fa ho lavorato in Nigeria in un campo di accoglienza per profughi interni, sopravvissuti a una rivolta che ha causato un migliaio di morti e circa 200.000 rifugiati. I media occidentali, fedeli alla solita formula, hanno riportato le notizie delle violenze, ignorando però gli interventi umanitari in favore dei superstiti da parte dello Stato e dei governi locali, che non hanno potuto contare su molti aiuti internazionali. In molti casi gli assistenti sociali hanno speso, oltre al loro tempo, anche una parte del loro salario per soccorrere i connazionali in difficoltà.
Questa è la gente che lavora per la salvezza dell'Africa, come tanti altri in tutto il continente, senza alcun riconoscimento per il loro impegno. Il mese scorso, il Vertice degli 8 Paesi industrializzati si è incontrato in Germania con un gruppo di celebrità per discutere, tra l'altro, su come salvare l'Africa.
Io mi auguro che prima del prossimo incontro di quest'organizzazione ci si renda conto di una cosa: l'Africa non vuol essere salvata.
Ciò che l'Africa chiede al mondo è il riconoscimento della sua capacità di avviare una crescita senza precedenti, sulla base di un vero e leale partenariato con gli altri membri della comunità globale.

Articolo tratto da Repubblica.it

Niente da dire!