12 maggio 2008

Miglioramenti


Dalla lettera inviata da Don Gabriele dell'Associazione Saint Martin.


"...I giornali non parlano più delle vittime della violenza e così è facile convincersi che non ce ne siano, invece un prezzo molto alto continua ad essere pagato dalle persone più deboli. Brian è uno di loro, vittima della disperazione della sua mamma. Entrambi sono sieropositivi. Fuggiti assieme dai luoghi degli scontri tribali, sono arrivati a Nyahururu. Qui la sua mamma non ha trovato le medicine di cui aveva bisogno, peggiorando a tal punto da renderla incapace di procurare da mangiare per il suo bambino. Allora ha deciso di abbandonare Brian in ospedale ed è fuggita, ma è stata rintracciata e picchiata per quello che ha fatto. Le è stato riconsegnato suo figlio, intimandole di non farsi più vedere. Disperata, ha abbandonato il suo bambino nella piccola stanza che aveva preso in affitto. I vicini hanno sentito il bambino piangere a lungo; il giorno seguente un silenzio preoccupante e nessuno che andava e veniva dalla stanza. Il terzo giorno sono venuti ad informarci. Assieme alla polizia, abbiamo sfondato la porta. Brian sedeva per terra, consumato dall’angoscia e sfinito dalla fame. L’abbiamo accolto al Talitha-Kum, con grande festa degli altri bambini. Adesso Brian ha ritrovato il sorriso, grazie al clima di fiducia e di pace attorno a lui. La gente del Kenya non ha ritrovato la fiducia e la pace come Brian, ma voglio darvi una buona notizia: non si vive più nella paura. Certamente non mancano motivi di preoccupazione per un governo di coalizione che vive nel sospetto reciproco e per i rifugiati che stanno affrontando il dramma di una vita precaria, tuttavia non si vive nella paura. Non c’è più l’incertezza del futuro, l’angoscia che gli eventi possano scivolare in un genocidio, il timore di parlare di quello che è successo. La gente dorme la notte e le minaccie di vendetta si sono allontanate. Non viviamo più nella paura, ma l’ingiustizia e la violenza hanno lasciato ferite profonde e ci vorranno lunghi anni per guarirle. Lo sanno bene i nostri operatori che lavorano con i rifugiati e si dedicano all’ascolto delle tante donne che sono state violentate e di coloro che hanno perso i loro cari durante gli scontri. Hanno bisogno di cibo, ma più forte è la fame di rispetto e dignità. Hanno la necessità di un alloggio, ma più ancora cercano accoglienza. Chiedono medicine, ma più profondo è il bisogno di guarire il cuore..."

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