05 marzo 2008

La società civile


Terra contesa

È tra i dieci paesi dove la sperequazione tra ricchi e poveri è maggiore. L’ineguaglianza è abissale. Anche nella ridistribuzione della terra. Gli scontri etnici più cruenti di questi mesi, infatti, sono avvenuti nella Rift Valley, la zona più fertile. Tuttavia, gli avvenimenti tragici hanno fatto emergere anche la forza di un attore di cui si parla poco in Africa: la società civile. Seconda settimana di febbraio. Di ritorno da Marsabit, il capoluogo della provincia orientale, ai confini con l’Etiopia, atterro all’aeroporto Wilson, quello adibito ai voli interni. Un gruppo di turisti – tutti rigorosamente in tenuta kaki, cappello a falde larghe, armati di macchina fotografica o telecamera ultimo modello – si preparano a imbarcarsi sull’aereo che li porterà al parco del Maasai Mara. Il clima è sereno, direi quasi spensierato. Mi sembra di sognare: ma è questo il Kenya delle rivolte nelle baraccopoli di Mathari e di Kibera e degli eccidi nella Rift Valley? Due Kenya contrapposti. Salgo su un taxi, che mi porta a casa. Lasciando Kibera, passo davanti a un centro commerciale. Il parcheggio è stracolmo di auto e di gente che fa le spese per il fine-settimana. Lì ci sono negozi con articoli di lusso che non hanno niente da invidiare a quelli occidentali. Ma è questo il Kenya della miseria abietta e degli scontri etnici? Due Kenya, lontani anni luce. Il giorno dopo, mi capita di passare per Kileleshwa, una delle zone signorili di Nairobi: ville immerse nel verde e gente rilassata che passeggia per strada. Un Kenya quasi ovattato. Mi fermo per acquistare il quotidiano. Le prime pagine riportano foto e notizie dei 300mila rifugiati e sfollati, degli oltre mille morti, delle violenze inaudite... Ma di quale Kenya stiamo parlando? Un Kenya dissociato. Un paese malato. Ma non da ora. L’isola felice circondata da vicini instabili è un sogno del passato che, forse, è esistito solo nei dépliant turistici o nelle cancellerie occidentali. In questo paese c’è una divisione scandalosamente abissale tra ricchi e poveri. Uno studio pubblicato nel 2004, intitolato Pulling Apart. Facts and Figures on Inequality in Kenya, mostra una realtà sconvolgente. Un Kenya diviso, appunto, che si basa sull’ineguaglianza sistematica. C’è, quindi, un Kenya del povero e uno del ricco; delle province del centro, più ricche, e di quelle del nord, più povere; dell’uomo e della donna; di chi è malato e può curarsi e di chi non può avere le medicine; di regioni dove l’aids è endemico e di quelle dove è quasi inesistente; di chi ha acqua e di chi non ce l’ha; di chi va a scuola in strutture decenti e di chi non ci va. Insomma: un Kenya schizofrenico. Lo stesso studio afferma che il 10% delle famiglie più ricche controlla il 42% della ricchezza nazionale, mentre al 10% più povero rimane lo 0,76%. Per ogni scellino kenyano che i poveri guadagnano, i ricchi ne guadagnano 56. Il Kenya è tra i dieci paesi dove la sperequazione tra ricchi e poveri è maggiore. Come meravigliarsi, quindi, se la distribuzione della ricchezza sia stato uno dei punti forza della campagna elettorale dell’opposizione e se molta gente, con la mancata elezione dell’opposizione alla presidenza, si sia sentita negata dei suoi diritti fondamentali? Ma, si sa, niente qui è solo politico o economico: le recriminazioni si sono rivolte contro gruppi etnici, accusati di eccessivi privilegi a danno di altri. Ma c’è anche una crisi sociale particolarmente acuta: erosione dei valori culturali; aumento della criminalità; numero sempre maggiore di giovani senza lavoro; un sistema scolastico e sanitario in decadenza; collasso di molte comunità rurali; aumento della violenza familiare; la piaga dell’aids; un’urbanizzazione selvaggia, che fa di Nairobi la città africana con la più estesa baraccopoli, Kibera. A questi problemi se ne associano altri, di dimensioni più planetarie, ma che acutizzano le difficoltà locali: il cambiamento climatico e la globalizzazione del commercio e della finanzia, che mira solo al profitto e alla privatizzazione. La mancanza di rispetto dei diritti umani e l’aumento del divario tra ricchi e poveri sono le conseguenze più perverse di questa globalizzazione economica, che prende le forme di un capitalismo neo-liberista. E una forte crisi sociale è un potente carburante di instabilità. Se ne è avuta la prova in queste settimane. Le bande che distruggevano e uccidevano erano formate da giovani e giovanissimi. La tolleranza e il dialogo, retaggio della migliore cultura africana, sembravano persi nella follia generale. Ma c’è anche l’insoluto problema della distribuzione della terra. L’opposizione parlava di majimbo nel suo manifesto elettorale, cioè di federalismo, decentramento dei poteri dal centro alla periferia. Non si tratta di una proposta di semplice riorganizzazione statale. Molti altri fattori entrano in gioco. Primo fra tutti la distribuzione della terra e, quindi, il diritto di amministrare la terra “ancestrale” da parte delle popolazioni autoctone, con l’esclusione degli “stranieri”, cioè dei non originari del luogo (particolare, questo, che porta in sé pericolosi risvegli del demone dell’ideologia della differenza tribale, dell’odio e dello scontro etnico). Ho avuto una riprova di come la terra sia il problema fondamentale in Kenya durante lo stesso viaggio di ritorno da Marsabit, con un piccolo aereo Cessna a cinque posti. Vista mozzafiato: sotto di me il deserto, immenso, uniforme, scarsamente abitato e lo sguardo che sembrava perdersi all’orizzonte. Man mano, però, che mi avvicinavo al Monte Kenya, il paesaggio cambiava: il giallo del deserto si tramutava nel verde delle colline e dei campi coltivati. Ogni metro messo a coltura. Gli agglomerati urbani molto più popolati e gli spazi decisamente più stretti. Impressionante la densità della popolazione in queste zone. Questo è un altro problema: due terzi del territorio è coperto da zone aride e semiaride, inadatte alla coltivazione. Se si collega questo dato al fatto che la popolazione è quadruplicata negli ultimi 40 anni, ci si può rendere conto di come la questione della terra sia diventata vitale. E, appunto, la sua distribuzione è stato un secondo cavallo di battaglia dell’opposizione, con evidenti ricadute etnico-tribali. Il problema non è di facile soluzione. Gli scontri etnici più cruenti sono avvenuti nella Rift Valley, cioè nella zona più fertile del Kenya. Terra ancestrale del gruppo linguistico kalenjin, era stata presa d’assalto da popolazioni di etnia diversa fin dal tempo dell’indipendenza del paese (1963), quando Jomo Kenyatta, il primo presidente, cominciò a ridistribuire le terre lasciate dai coloni bianchi, favorendo sfacciatamente, però, la sua etnia, i kikuyu. In seguito, anche altri gruppi vi si stabilirono in modo permanente. Su questi altopiani, considerati il granaio del Kenya, gli scontri etnici non sono nuovi. Sono avvenuti nel 1992, poi nel 1997 e, infine, nel 2007, sempre in connessione con le elezioni politiche. Ma il vero problema non è la politica, e nemmeno l’etnia. È la terra e una popolazione, in continua espansione, che la reclama. Quindi, la Rift Valley, denominata la “Valle felice” al tempo della colonizzazione inglese, è stata ora ribattezzata la “Valle della morte”. Oltretutto, alcune famiglie (i Kenyatta, i Moi, i Kibaki, tanto per citare i nomi dei primi tre presidenti “padroni” del paese), sono grandi proprietari terrieri, con possedimenti proprio in questa valle. La ridistribuzione equa della terra diventa, quindi, un problema di giustizia sociale, oltre che di stabilità sociale. A lottare per la terra non sono solo le popolazioni sedentarie. Anche le etnie di pastori nomadi e seminomadi del nord vedono le aree da pascolo ridursi a vantaggio di altri usi per altre popolazioni. Qui il problema assume un carattere regionale, perché coinvolge gruppi di confine, in costante lotta per i pascoli e le riserve d’acqua: i karimojong dell’Uganda, i topossa del Sud Sudan, i pokot e i turkana del Kenya, i borana e i gabbra, lungo la frontiera tra Kenya ed Etiopia. Qui il conflitto è esacerbato dalla disponibilità e dall’acquisto di armi automatiche, che rendono le zone di confine endemicamente insicure. Un libro pubblicato nel 2000, Kenya at the Crossroads (“Il Kenya al crocevia”), descriveva alcuni possibili futuri scenari per il paese. Uno di questi – che prevedeva con precisione ciò che sta accadendo oggi – pronosticava la dissoluzione dello stato nazionale e l’emergere di entità territoriali su base etnica. La gente si sarebbe ritirata nel proprio territorio ancestrale, consolidando la propria appartenenza clanica. Le milizie etniche si sarebbero trasformate in veri e propri eserciti. Uno scenario terrificante, pronosticato come «molto probabile». Tutto ciò oggi sembra realtà: le popolazioni si spostano verso le loro terre d’origine, dove si sentono più sicure. A Nairobi, ogni giorno, si vedono persone che caricano le proprie masserizie su carretti o camioncini e si spostano verso aree dove il proprio gruppo etnico è prevalente. Nonostante questo possibile scenario apocalittico, rimango ottimista. Non solo per i molti atti di eroismo di singole persone e per la significativa presenza di chi ha parlato con la voce della ragione in un momento di pazzia collettiva. Ma anche – e soprattutto – perché questi avvenimenti tragici hanno fatto emergere la forza e la vivacità di un attore di cui non si parla molto in Africa. Un attore che diventerà il vero motore del cambiamento in questo paese. Un attore che, già in questi mesi, ha dato voce alla tolleranza e al dialogo. Il suo nome? Società civile. Al di là delle morti e delle distruzioni, e ben oltre le mediazioni internazionali che non sembrano sortire accordi, vedo il prezioso lavorio di tanti movimenti di organizzazioni non governative, di gruppi religiosi, di giornalisti ed editori, di artisti e imprenditori e sindacalisti... che vogliono un Kenya nuovo, più vivibile, più giusto. Io scommetto su di loro.

Articolo di Mariano Tibaldo - Nigrizia marzo 2008

Articolo tratto da Korogocho.org

Foto di Riccardo Villani tratte da Nigrizia.it

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