Un film sul bimbo ebreo mascotte delle SS
L'incredibile storia del bambino che fu «il più giovane soldato del Reich».
I genitori uccisi, la fuga, un soldato che ne nascose le origini e gli mise una divisa.
Ora ha 70 anni e il figlio fa un film su di lui.
All’età di cinque o sei anni (lui stesso non ricorda con precisione la data di nascita) un ragazzino della

Solo mezzo secolo dopo il protagonista di questa vicenda, che oggi si chiama Alex Kurzem, ha settant’anni passati e vive a North Altona, in Australia vicino a Melbourne, con la moglie, i figli e i nipoti, ha trovato la forza mentale per ricostruire con fatica il passato. Un passato sul quale la rete televisiva australiana ABC ha realizzato un film-documento e il figlio Mark, che vive in Inghilterra dove è docente di antropologia all’Università di Oxford, ha pubblicato recentemente un libro, The Mascot. «Delle mie origini e della mia storia – racconta Ilya/Alex – io non avevo mai parlato neppure a mia moglie Patricia

Poi, con il passare del tempo, mio figlio mi aveva convinto a cercare di sapere tutto quello che non ricordavo, o che avevo rimosso». E’ stato così che, incoraggiato dal figlio antropologo, Kurzen dieci anni fa ha deciso di fare con lui un lungo viaggio in Europa alla riscoperta del proprio passato. E facendo ricerche nel poco che rimaneva dell’archivio dell’attuale Dzeshinsk e andando perfino a studiare gli archivi del periodo nazista in Lettonia, padre e figlio hanno ricostruito alla fine la verità. A cinque anni Ilya, ultimo nato di una famiglia di ebrei bielorussi sterminati dalle SS incredibilmente era stato «adottato» come mascotte del corpo di spedizione in Russia della Wehrmacht e, addirittura, fotografato più volte con l’uniforme nazista come modello di «soldato bambino», a scopi di propaganda.
Nei cinegiornali del Terzo Reich si può infatti riconoscere l’immagine di Alex quando aveva forse sei anni, vestito con l’uniforme delle SS completa di stivaloni di cuoio, fucile e di pistola giocattolo, che lo speaker definisce con voce marziale «il più giovane soldato del Reich».
L’adozione del piccolo orfano ebreo, da parte delle truppe che avevano praticato a Koidanov la «soluzione finale» voluta da Hitler, non era avvenuta certo per spirito umanitario

«Dopo avere rivisto i luoghi della mia infanzia e quelle mie foto con la divisa - racconta Alex - tutto mi è tornato chiaro. Le SS, circondato il villaggio, misero in fila gli uomini ebrei e li fucilarono, uno per uno. Mi sono ricordato la voce di mia madre che fra i singhiozzi ci diceva sconvolta: ‘ecco, hanno ucciso vostro padre e domani tocchera a noi’. E io le gridavo piangendo: “io no, io non voglio morire!’».
Poi nella notte il bambino, incoraggiato dalla madre, fuggì e rimase da solo per tutto l’inverno, nel bosco. Passarono così nove mesi e alla fine un uomo consegnò il fuggitivo a una squadra di poliziotti della Lettonia, che collaboravano con i nazisti nel dare la caccia agli ebrei.
Ma uno di loro inaspettatamente, un sergente lèttone di nome Kulis, invece di mettere il ragazzino nel gruppo con la stella di Davide dei condannati alla fucilazione, gli propose una via di fuga, preparandogli un foglio di via con un nome falso prima di consegnare ai tedeschi quel patetico «orfano russo», ormai solo al mondo.

Poi la «sindrome di Stoccolma», che con il tempo crea un inaspettato legame fra il persecutore e la vittima e il carceriere, ha avuto il suo effetto. Adesso però, a settant’anni passati, per questo superstite dell’Olocausto, al trauma infantile dell’avere avuto salva la vita dallo sterminio cancellando la propria origine, fino a diventare strumento inconsapevole di propaganda nazista, si aggiunge anche il trauma della non-accettazione dalla sua stessa gente. La storia di Ilya Galperin/Alex Kurzem, sostiene Phillip Meisel dello Holocaust Centre di Melbourne, avallando il sospetto di collaborazionismo, «non è credibile».
Articolo tratto da Corriere.it
1 commento:
molto intiresno, grazie
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