17 aprile 2008

Il punto di vista interno


Ingiustizia terrena

La sommossa seguita alla contestata rielezione di Mwai Kibaki è stata letta da più parti come un rigurgito di odio interetnico. In realtà alla base della violenza vi sono ragioni più profonde, anzitutto la diseguale distribuzione della terra. L'analisi di un ricercatore kenyano.

Il regime coloniale britannico in Kenya (fine XIX sec.-1963) ha avuto un profondo impatto sulla proprietà delle terre nella Rift Valley (a Ovest del Paese). Ha creato relazioni tra gruppi etnici che in precedenza non avevano un'interazione significativa e ha alterato in modo definitivo la composizione etnica della regione. Tra il 1899 e il 1915, una serie di leggi sulla terra espropriò gli abitanti autoctoni della maggior parte delle terre migliori, assegnandole ai coloni bianchi. L'amministrazione coloniale diede vita a politiche per escludere gli africani dalla proprietà della terra in quest'area e costringerli in riserve. I gruppi dediti alla pastorizia, che avevano goduto di diritti consuetudinari sulle terre, si trovarono esclusi dalle aree che avevano utilizzato in passato. La creazione di questa area bianca, riservata ai coloni britannici, obbligò migliaia di africani che avevano vissuto nella Rift Valley a emigrare.Inoltre, il governo coloniale introdusse misure coercitive per creare un'ampia forza lavoro africana a basso costo, al servizio delle farm dei coloni bianchi. Prive di esperienza agricola, le popolazioni dedite alla pastorizia nell'area non erano però adatte come manovalanza per le attività agricole dei coloni. Così, per ovviare alla mancanza di manodopera, l'amministrazione coloniale iniziò a reclutare lavoratori nelle aree vicine.Il problema dell'alienazione delle terre e il crescente malcontento nei confronti del repressivo governo coloniale portarono alla nascita di un movimento nazionalista per l'indipendenza. Nel 1952 gli inglesi dichiararono lo stato d'emergenza a causa della crescita di un movimento indipendentista armato conosciuto come Mau Mau, formato prevalentemente da kikuyu. Altre comunità, in altre parti del Paese, si opposero in vari modi al governo britannico.
All'indipendenza del Kenya, nel 1963, il problema della terra non fu efficacemente affrontato, visto che il primo governo guidato dal presidente Jomo Kenyatta mantenne la legislazione coloniale che tutelava i diritti dei proprietari terrieri. La costituzione, negoziata alla Lancaster House di Londra, prevedeva un'attenta tutela della proprietà privata, senza prendere in considerazione come tali proprietà fossero state acquisite. Gli interessi dei coloni britannici ancora presenti sul territorio venivano salvaguardati, ma non venne fatto alcuno sforzo per rispondere alle rivendicazioni di quei gruppi etnici dediti alla pastorizia cacciati dai britannici dalla Rift Valley, e della manodopera che si era trasferita abusivamente su quelle terre (squatter). Agli allevatori britannici, che erano meno di mille e possedevano i terreni migliori del Paese pari a oltre 8 milioni di acri (3,2 milioni di ettari), venne data la possibilità di conservare la terra che avevano espropriato. Per chi avesse voluto vendere la propria terra, esisteva un regolamento approvato dai britannici e dal nuovo governo. I kenyani, che fino ad allora avevano lavorato come bassa manovalanza, potevano acquistare la terra sia individualmente, sia attraverso organizzazioni quali cooperative, associazioni o società. Tuttavia, non tutti gli ex squatter erano in grado di acquistare i terreni agricoli, pertanto i coloni bianchi rimasti o i nuovi borghesi li accolsero come braccianti. Altri aderirono a cooperative o a società che avevano acquistato grandi tenute successivamente suddivise e ripartite tra i vari membri (ancora oggi sono attive alcune cooperative che suddividono i terreni e li ripartiscono tra i loro membri). Il processo non fu privo di difficoltà: errori, astuzie e sottili giochi di potere furono perpetrati senza scrupoli. A dirigere le fila c'era la nuova borghesia che sfruttava la sua influenza per acquisire più terra da assegnare a uomini politici fidati. Allo stesso tempo, il governo introdusse provvedimenti alternativi e a basso costo per assegnare una terra a chi ne era privo. Nel 1965 entrò in vigore lo Squatter Settlement Scheme, grazie al quale il governo recuperava terreni attraverso l'esproprio, la confisca di tenute mal gestite e le donazioni. Questi provvedimenti erano mal applicati a causa delle pressioni esercitate dai politici per premiare i loro sostenitori. I regimi di Kenyatta e Moi furono famosi in tal senso. Ancora oggi, i vecchi coloni possiedono migliaia di acri di terra, gestiti come ranch o come riserve naturali. Allo stesso modo, le ex milizie di Kenyatta, i collaboratori di Moi e alcuni politici di vertice possiedono ancora migliaia di acri a suo tempo acquisiti in modo dubbio. I governi che si susseguirono dopo l'indipendenza confermarono l'inviolabilità dei terreni privati a scapito di un vasto numero di kenyani espropriati dal colonialismo che li aveva resi abusivi sulle loro terre d'origine o poveri nullatenenti. È importante notare che tra i kenyani ci sono etnie prevalentemente agricole (kikuyu, gusii e luhya) e altre dedite alla pastorizia (masai e kalenjin). I kikuyu, in particolare, cercarono di approfittare dell'opportunità di acquistare terreni. Incoraggiati e sostenuti dal presidente Kenyatta, negli anni Sessanta e Settanta molti kikuyu acquistarono terreni nella Rift Valley e si trasferirono dalla sovrappopolata Provincia centrale in varie parti della Rift Valley, formando enclave cresciute nel corso delle successive generazioni. Allo stesso modo, altri gruppi, in particolare i gusii, dal Nyanza si spostarono nella Rift Valley, acquistando terreni e iniziando a coltivarli. Queste tenute furono fra quelle al centro degli episodi di violenza sin dai primi anni Novanta. Il problema delle gravi ingiustizie storiche è stato ripetutamente affrontato da varie commissioni istituite dal governo, inclusa la Constitution of Kenya Review Commission. La stessa bozza della costituzione del Kenya, bocciata dal referendum del 2005, riconosceva il problema di queste ingiustizie e chiedeva al governo di affrontarle. L'incapacità dei governi ha accresciuto il malcontento e il problema si è trasformato in una crisi nazionale. Negli anni Novanta, i rapporti di agenzie governative e non governative denunciavano che la classe politica sfruttava questo malcontento per fomentare i conflitti e gli scontri violenti sulle risorse terriere nella Rift Valley e in altre parti del Paese. In Kenya, come in altri Paesi africani, la terra non è solo una proprietà, è un'identità culturale e come tale deve essere protetta e salvaguardata.
Le diseguaglianze in Kenya si manifestano in varie forme. Differenze nella ripartizione del reddito e dei servizi sociali sono diffuse tra regioni, generi e anche segmenti specifici della popolazione. Come conseguenza dell'iniqua ripartizione dei terreni nella maggior parte del Paese, si è verificata una costante migrazione di giovani dalle zone rurali a quelle urbane, in cerca di sussistenza. A Nairobi, più del 60% della popolazione vive negli slum (baraccopoli), proprio accanto ai quartieri più lussuosi della città. Una parte degli abitanti degli slum discende dagli squatter dell'epoca pre-coloniale. In termini di disparità di ricchezza, il Kenya è il 10° Paese più «diseguale» del mondo, il 5° dei 54 Paesi africani. Nel 2004, il rapporto del Programma di sviluppo dell'Onu stabiliva che i kenyani più ricchi guadagnano 56 volte quelli più poveri: il 10% più ricco della popolazione controlla il 42% della ricchezza nazionale, mentre il 10% più povero possiede lo 0,76%. Secondo il rapporto, la diseguaglianza interessa ogni aspetto della vita dei kenyani, con enormi disparità sia nella capitale, sia a livello nazionale, in quasi ogni sfera della vita: reddito, istruzione, acqua e salute, aspettativa di vita e diffusione dell'Hiv-Aids. Il tema della diseguaglianza dovrebbe essere affrontato in modo diretto, sincero e onesto per garantire una soluzione concreta e possibile. È importante sottolineare che la diseguaglianza cela in sé l'enorme potenziale di distruggere un'intera nazione diffondendo divisioni, odio e alimentando crimini e violenza, specialmente tra gli esclusi e gli emarginati. Affrontare la diseguaglianza assicurando un'equa distribuzione e responsabilità delle risorse nazionali rappresenta l'inizio dello sviluppo per le regioni più svantaggiate nonché un metodo sicuro per coinvolgere la popolazione nei programmi di sviluppo, una condizione imprescindibile per arrivare a risultati concreti. Come dimostrano le violenze e gli scontri degli ultimi mesi, non è più possibile ignorare il problema.

Michael O'maera, programme officer per la ricerca, le pubblicazioni e la comunicazione del Jesuit Hakimani Centre

Articolo tratto da Korogocho.org

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