06 febbraio 2008

La guerra tribale come scusa


L’odio ancestrale è una possibile lettura dell’incendio kenyano. La più diffusa e utilizzata da media e analisti in queste settimane post-elettorali, che hanno avvolto il paese in una spirale di violenza. Ma il ricorso all’interpretazione etnicista è la sola? Dev’essere la prevalente?


Per noi, quella esplosa in Kenya resta una crisi politica e sociale, alimentata anche dalle differenze etniche. È vero, la campagna elettorale ha trasformato la mappa tribale del paese in mappa politica. Molti kenyani sono apparsi imprigionati in una logica etnica, che li ha costretti a esprimere fedeltà alle persone della propria “famiglia”, indipendentemente dai loro reati o errori. Tuttavia, l’odio atavico non spiega tutto. Anzi. Il paese, oggi in preda all’incertezza, era andato al voto pieno di speranze, convinto che le vecchie forme di potere stessero per crollare. Speranze imprigionate per troppo tempo in strutture costruite da una classe politica vecchia e inadeguata. Quest’anno il Kenya indipendente compie 45 anni. Ma in tutto questo tempo ha finto di essere un’unica nazione. Il sogno dell’“era kenyattiana” s’è infranto. Quello adottato è solo un nazionalismo imperfetto e incompiuto. Siamo di fronte a un paese dall’identità nazionale incerta. Regnano le dinastie, che ridistribuiscono all’interno della propria corte le fette di potere e di denaro. I coinquilini entrati in conflitto tra loro, Mwai Kibaki e Raila Odinga, appartengono a queste diverse caste. I tatticismi e i divieti reciproci, che i due hanno imposto dal giorno in cui la violenza è diventata un’attrice delle vicende kenyane, ci dicono che Kibaki e Odinga hanno guardato più agli interessi privati e alle lotte di potere che al bene del paese. «Più che di scontri etnici, si tratta di uno scontro di classe. Prova ne sia che la violenza è scaturita negli slum e nelle zone povere del paese», la chiave fornita da Arthur Muliro, kenyano, da più di dieci anni vicedirettore della Society for International Development, che in uno studio sul livello di disuguaglianza degli stati africani piazza il Kenya al quinto posto. Probabilmente, non è molto lontano dal vero chi afferma che le reali “tribù” in questo paese sono solo due: quella dei poveri e quella dei ricchi. Dualismo che disegna un tessuto sociale disgregato. Una spaccatura profonda. Non aveva forse alimentato questo sogno di rinnovamento e di unità l’ascesa alla presidenza di Kibaki nel 2002? Non doveva rappresentare la fine di una dittatura mascherata, rappresentata dai 24 anni di regno di Daniel arap Moi? La candidatura del kikuyu Kibaki — condivisa da una larga fetta di partiti dell’opposizione — doveva rompere il vaso dei favoritismi che si erano perpetuati fin dagli anni ’60 a favore di una certa classe dirigente. Ridistribuzione del potere (con una nuova costituzione) e lotta alla corruzione, i cavalli di battaglia del neo capo di stato. Traditi nei cinque anni successivi, nei quali il paese è apparso, per l’ennesima volta, ostaggio del suo presidente. E non solo perché Kibaki s’è inebriato con i profumi del potere. Ma perché è stato imbrigliato, nelle sue scelte, dalla cosiddetta “mafia del Monte Kenya”, fatta d’intrecci politico-affaristico-criminali, che impedisce un vero cambiamento nel paese. Così, la corruzione ha continuato a farla da padrona (si parla di un miliardo di dollari stornati dalle casse dello stato e finiti nelle tasche degli “amici” di Kibaki). Fino al punto che due ministri chiave dell’esecutivo, quello delle finanze e quello della giustizia, sono stati costretti a dimettersi, travolti da gravi scandali finanziari. Ma poi reintegrati dallo stesso presidente, quando le indagini su di loro non erano ancora state chiuse. Nel disprezzo delle regole democratiche. Così, l’economia del paese continua a rimanere nelle mani di una ristretta cerchia di persone legate al governo. Il populista Odinga, a parole, voleva spezzare proprio questo grumo di potere. Ma la caccia al kikuyu — seguita ai risultati elettorali e, di fatto, da lui avallata — ne ha offuscato l’immagine. Si fa fatica, ora, a spegnere quei focolai di violenza accesi dalla fine di un’illusione. Le vie del compromesso sono lastricate di problemi. Ma il Kenya non può restare “incendiato” per molto tempo. Non è nell’interesse né delle grandi nazioni né dei paesi confinanti. L’Occidente, che per decenni ha coccolato Nairobi, non può accettare la destabilizzazione di quest’ex colonia britannica. Già ci sono troppi problemi nel Corno d’Africa e nel Sudan per poter anche solo ipotizzare l’apertura di un nuovo fronte in Kenya. L’instabilità, inoltre, non sarebbe un bel ricostituente per gli interessi economici occidentali nel paese. Infine, anche Kampala, Kigali e Bujumbura guardano con terrore al perdurare della crisi kenyana, visto che un quarto del Pil dell’Uganda e del Rwanda e un terzo di quello del Burundi passano per il Kenya. Così, se dovesse fallire anche il tentativo dell’ex segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan, di trovare una composizione alla ferita aperta, Nairobi correrebbe il rischio di sanzioni, con l’Unione europea pronta a rivedere le sue relazioni con il paese. Ue e Onu potrebbero assumersi il compito di supervisori di una transizione pacifica, in attesa di nuove consultazioni elettorali. Nel frattempo, si potrebbe riprendere in mano quella riforma costituzionale che prevedeva l’introduzione della figura di un primo ministro forte, per togliere potere e influenza al presidente. Riforma fino a ora sacrificata sull’altare del dio potere.



IL RACCONTO DELLA SPERANZA: "I RIFUGIATI NEL MIO GIARDINO"

La scorsa settimana 150 donne e bambini in fuga dalla violenza tribale del Kenya hanno cercato rifugi
o a casa di Juliet Barnes nella Rift Valley. Questo è ciò che accadde dopo.

"La scorsa settimana forti venti secchi sollevavano la polvere in aria in tunnel vorticosi, attizzando fuochi sulle colline circostanti. Più di 150 donne e bambini arrivarono, e si accovacciarono dietro la mia casa nella speranza che qui avrebbero potuto salvarsi. Perfino i bambini sedevano silenziosi e guardavano gli orizzonti foschi per il fumo Ogni nuova esplosione di fiamme poteva essere la loro stessa casa, i loro averi e il raccolto che finivano in cenere. Io sono nata a Nyeri, vicino al Monte Kenya, dove i miei nonni erano agricoltori. Ora vivo in una casa appartata in un podere nella spettacolare Rift Valley. Giusto più di un mese fa, stavo chiacchierando con tre amici e vicini di tribù differenti, a proposito delle imminenti elezioni. Kamau, un Kikuyu, disse: “Io temo queste elezioni: si dice che il Kenya può diventare come il Rwanda”. “Non lo credo” ho risposto. “I Keniani sono gente di pace”. Kamau era incerto per chi votare. Forse per l’opposizione Orange Democratic Movement (ODM), “perché abbiamo bisogno di un cambiamento”. Mohamed, un Borana del nord, era deciso a dare il voto all’ODM perché il suo leader, Raila Odinga, “ sostiene la gente di tutte le religioni”. Rachel, una Kalenjin, disse che avrebbe votato per il Party of National Unity (PNU), il partito del Presidente Mwai Kibaki, “ perché come facciamo a sapere che anche Odinga non è corrotto?” Io mi sentivo incerta, nauseata dalla nostra storia di chiassosa corruzione e dall’attuale crescente spaccatura tra ricchi e poveri. Di lì a poco tempo un numero record di Kenyani andò a votare in un’atmosfera di fiduciosa eccitazione. Poi seguì l’annuncio della supposta vittoria di Kibaki – e le immediate accuse di brogli da parte dell’opposizione. In paesi e città ebbe inizio la violenza. I Kenyani sono da sempre conosciuti per il loro fascino cordiale. Fu un incredibile shock quando i Kalenjin cominciarono a bruciare, saccheggiare ed uccidere i Kikuyu nel Kenya occidentale. Noi eravamo in lacrime : non era possibile che questo stesse accadendo. Una dozzina di membri della famiglia di Kamau arrivarono dall’ovest. Avevano perso amici, separati dalle spose e dai bambini. “Abbiamo dormito nella foresta per una settimana,” mi disse la sorella di Kamau. “Hanno bruciato le nostre case, tutti i nostri averi, il raccolto e il pollame. Hanno rubato le nostre mucche. Hanno ucciso la gente: i corpi venivano mangiati dai cani perché i parenti non potevano avvicinarsi. Hanno lasciato le teste nelle strade per far capire ai Kikuyu che dovevano andarsene.” Perché persone che avevano vissuto fianco a fianco, pregando insieme e insieme andando a scuola, improvvisamente si erano rivoltati così brutalmente contro i loro vicini? “Sono pagati per uccidere e distruggere”, ha detto il fratello di Kamau, “da un politico dell’ODM.” Nel giro di una settimana Nakuru, habitat di milioni di fenicotteri rosa e il parco più visitato del Kenya, era diventato un’altra tragedia. I Kikuyu avevano preso le armi contro i Kalenjin e questo era ancora più terribile ora che stava accadendo nel paese a noi più vicino. Nella notte di venerdì, 25 gennaio, arrivarono i bambini e la sorella più giovane di Rachel, dopo una camminata di due ore dal villaggio vicino. La sorella di Rachel disse di aver ricevuto minacce, che intimavano ai Kalenjin e ai Luo di andarsene oppure sarebbero morti: “I nostri genitori sono rimasti per proteggere la nostra proprietà, ma dormono fuori per timore di essere bruciati nelle loro case.” Mohamed ci chiamò fuori casa:”Guardate quelle luci.” Eravamo in una strada polverosa sotto stelle brillanti e osservavamo una dozzina di fari che squarciavano il buio delle colline e delle valli circostanti. “Autocarri,” disse Mohamed. “Forse l’esercito è venuto ad aiutarci,”suggerì Rachel. In tutto questo c’era qualcosa di intenzionale ma anche qualcosa di sinistro. Mezz’ora dopo ritornò il buio e il silenzio. Sopra di noi, uno stormo di fenicotteri rumoreggiava socievolmente volando verso il sud. La mattina seguente Rachel andò a prendere sua madre. Ritornò con brutte notizie:“Quegli autocarri nella notte portavano giovani Kikuyu. Sono venuti attraverso il nostro villaggio. Cercano la vendetta. Si dice che un politico del PNU stia sostenendo questo esercito dei Kikuyu.” Circa ogni ora passava un aereo militare che puntava verso Nakuru. Un meccanico arrivò per dirci che un anziano Kalenjin era stato colpito a morte da una gang Kikuyu. La sera seguente cominciarono ad arrivare a piedi donne e bambini che cercavano la salvezza nel piccolo accampamento dietro la nostra casa. Portavano pochi averi e niente cibo o acqua: erano Kisii, Maragoli, Kalenjin, Luo e Borana, che fuggivano dalla violenza delle zone circostanti. Udimmo racconti di bande di Kikuyu che seminavano il terrore nella città di Naivasha, fermando i veicoli, chiedendo l’identità e uccidendo i nonKikuyu. La mattina seguente il cielo era scuro di fumo. Parecchi chilometri lontano la gente si stava ammazzando con archi e frecce e machete. Il pomeriggio seguente il fratello di Rachel arrivò da Naivasha. La sua casa era stata bruciata e indossava gli stessi indumenti da quattro giorni. “Brutte notizie da Naivasha,” disse. La Rift Valley è diventata troppo pericolosa per la gente Kalenjin. Dobbiamo andarcene da qui in fretta prima che uccidano tutti noi – e i nostri bambini.” Altra gente stava arrivando nell’accampamento compresi i Kikuyu, alcuni molto vecchi. Rachel e Mohamed arrivarono con la notizia che la notte scorsa una nonna Kalenjin e suo figlio erano stati colpiti a morte nel villaggio. Un anziano Kikuyu mi parlò brevemente. “Questo non è soltanto per i risultati delle elezioni o il tribalismo,” disse, “si tratta di profondi rancori per la questione della terra.” Trovammo un camion per mettere in salvo le tante persone che ora stavano nel nostro accampamento. Quando se ne andarono, salutandoci e affermando che Dio avrebbe concesso a noi tutti una lunga vita, io infine crollai e piansi per il mio paese. Rachel e la sua famiglia restarono, ma giovedì scorso la sorella di Rachel chiamò da Nakuru per dire che il suo principale era riuscito a noleggiare un camion per condurli via il giorno dopo se ci fosse stato modo di raggiungere la stazione di polizia del villaggio. Rachel era incerta se andare o rimanere e suggerì che noi tutti avremmo dovuto pregare insieme. Stavamo in cerchio sotto le stelle: la famiglia Cristiana Kalenjin, due guardie notturne musulmane ed io, non un seguace di qualche particolare fede. Pregavamo per il Kenya e per un miracolo. Venerdì, nella luce rosa e arancione dell’alba, ci stipammo tutti nella mia Land Rover, trascurando il fatto che un pneumatico stava per sgonfiarsi, e io li condussi alla stazione di polizia. Più tardi appresi che la famiglia di Rachele si era rifiutata di partire sul camion. Incapace di reprimere il mio senso di fastidio, la contattai. “E’ stato perché tutti i nostri vicini Kikuyu ci hanno fermato,” ha detto. “ Sono venuti al camion e hanno scaricato tutti i nostri bagagli, dicendoci che questa è la nostra casa, che non dovevamo partire e che si sarebbero presi cura della nostra casa, dei nostri averi e di noi……E’ un miracolo.”

Articoli tratti da Korogocho.org

Immagini tratte dal blog InsightKenya

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