27 febbraio 2008

Il retaggio del colonialismo


Kenya, un conflitto per la terra

Gli squilibri nella distribuzione tra le etnie sono all'origine delle divisioni
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«Quando i missionari ven­nero per la prima volta in Kenya loro avevano le Bibbie e noi ave­vamo la terra, cinquant'anni do­po noi avevamo le Bibbie e loro avevano la terra». Sorride con ironia Uhuru Kenyatta, il figlio di Jomo, quando ricordo queste parole del padre rimaste famose all'epoca della lotta anti-coloniale. «Mio padre - aggiunge Uhu­ru, il cui nome significa "libertà" - però ci ha anche insegnato che bisogna imparare dalla storia ma non vivere nel passato». Uhuru Kenyatta, 47 anni, ministro dei governi locali con Kibaki, è stato rieletto con una valanga di voti al­le ultime elezioni, uno dei pochi dell'antica nomenklatura a non essere stato punito dalle urne. La sua famiglia, simbolo della predominanza dell'etnia kikuyu ma anche del sogno nazionale in­franto, possiede oggi 2mila chilo­metri quadrati di terra arabile sui 113mila del Paese. Ma questo non meraviglia nessuno, dopo i Kenyatta è toccato a Daniel Arap Moi, successore alla presi­denza di Jomo, diventare un grande proprietario e favorire per un ventennio a colpi di puli­zia etnica la sua tribù, i kalenjin. Il capo dell'opposizione, Raila Odinga, rivale del presidente Mwai Kibaki - manco a dirlo un altro latifondista - è un luo, etnia che si è sentita storicamente emarginata dai kikuyu, ma Raila a sua volta è un ricco signore, mi­liardario in dollari, con un passa­to marxista e forti legami con le multinazionali. Il negoziato tra Kibaki e Odinga, con la media­zione di Kofi Annan e ora anche di Condoleezza Rice, è una trat­tativa politica ma anche d'affari: potere e denaro qui sono un'ac­coppiata inscindibile. «Non cerchiamo rivoluzionari dove non esistono - scrive Mukoma Wa Ngugi, poeta e saggista - la maggioranza dei kenyani, che siano luo, kikuyu, luhya o altro, sono poveri, il 60% vive con meno di due dol­lari al giorno e questo riguarda tutti, senza differenze. I ricchi kikuyu prosperano a spese dei poveri kikuyu e lo stesso avvie­ne per gli altri. Il richiamo etni­co viene sfruttato dalle élite tribali, in modo occulto o palese, per nascondere le cause pro­fonde del disagio». Ma la questione della terra ri­mane all'origine del conflitto in Kenya, come in altri stati della regione, dal Ciad al Sudan allo Zim­babwe, e percorre la storia di questo Paese con memorie san­guinose e incancellabili. «La ter­ra è un campo di battaglia, lo era all'epoca dell'occupazione britannica quando a migliaia dovet­tero fare spazio ai coloni occi­dentali, ed è stato così anche do­po l'indipendenza», dice Wangaari Maathai, fondatrice del Green Belt Movement e Nobel per la pace del 2004. Alla fine della prima guerra mondiale l’1°/o della popolazione bianca del Kenya possedeva il 25% delle terre coltivabili. «So­no nata nel 1940 - racconta Wangaari - nella regione centrale, da­vanti al Mount Kenya: i coloni in­glesi arrivarono con i documen­ti che comprovavano la proprie­tà dei terreni migliori e migliaia di abitanti, compresi i kikuyu, furo­no obbligati a trasferirsi nella Rift Valley. All'inizio degli anni '50 circa 40mila coloni, per lo più britannici, possedevano 2.500 fattorie negli Altipiani Bianchi». Deportati allora nella Rift Val­ley, i kikuyu sono stati cacciati via ora da luo e kalenjin nella pu­lizia etnica post elettorale, così come i luo hanno dovuto abban­donate le aree dominate dai kikuyu. Cacciati via ma per tor­nare dove? La mappa del Kenya è stata sconvolta dalla più gran­de migrazione etnica dai tempi del regime coloniale britannico. «Molti tornano nelle aree di ori­gine ma tanti finiranno per in­grossare le periferie, innescan­do un'altra bomba demografi­ca e sociale», sostiene Odenda Lumumba della Kenyan Land Alliance. Davanti ai binari della ferro­via che taglia in due Kibera, uno degli slum di Nairobi teatro de­gli scontri etnici tra luo e kikuyu, è andata in scena una guerra di poveri, a colpi di machete e panga, tra una popolazione dove il 50% è senza lavoro. La maggio­ranza dei 37 milioni di kenyani vi­ve nelle baraccopoli, cioè occu­pa meno del 10% del territorio. La metà delle terre arabili oggi è invece in mano al 15% della popo­lazione, i due terzi possiedono meno di un acro. Certo questo Kenya appare in stridente contrasto con l'imma­gine di terra di safari e vacanze che ha goduto negli ultimi cin­que anni di una crescita annua del 6 per cento. Così come non si può ignorare che rispetto agli Stati vicini, devastati da guerre e conflitti etnici, è l'unico a vanta­re una consistente classe media. «Su una popolazione di circa 37 milioni, quattro milioni appar­tengono alla middle class, con entrate da 2.500 a 40mila dollari l'anno», stima l'economista Ja­mes Shikwati che riceve in un uf­ficio nel quartiere degli affari, se­de di agenzie dell'Onu e multina­zionali, a due chilometri in linea d'aria dagli slum. Ma anche il Kenya affluente risente pesante­mente della crisi. Il turismo, che sta chiudendo un hotel dopo l'al­tro anche sulla costa, rimasta del tutto estranea agli scontri et­nici, ha incassato nel 2007 un mi­liardo di dollari, da lavoro diret­tamente a 25omila persone e so­stiene i bilanci di milioni di ken­yani. Per ogni otto turisti si crea un posto di lavoro e ogni posto di lavoro fa mangiare da sette a dodici persone. La questione della terra conti­nua però a incombere come una maledizione. Così come il passa­to coloniale, a cui si oppose il mo­vimento dei Mau Mau, la confra­ternita dei Kikuyu che negli anni '50 si proponeva la cacciata dei bianchi. Per otto anni condusse­ro una guerriglia descritta dagli inglesi come criminale ed effera­ta: in realtà soltanto 32 bianchi fu­rono vittime dirette dei Mau Mau mentre sui massacri britan­nici calò un velo, sollevato sol­tanto di recente dal libro di Caro­line Elkins, «II Gulag britannico in Kenya», vincitore di un Pulitzer: le vittime kenyane furono dalle 300 alle 400mila, non le 10mila ufficiali, e un milione finì nei campi di concentramento. Il movimento dei Mau Mau riven­dicava la restituzione delle terre ma quando Kenyatta salì al pote­re nel '63 li deluse. Il carismatico Jomo, "la lancia fiammeggian­te", concordò che i coloni inglesi potessero restare nello loro farm oppure vendere le terre all'elite kikuyu. Fu così che iniziò la crisi post coloniale: i kikuyu acquistarono le terre della Rift Valley, un tem­po appartenute ai kalenjin e co­minciarono i guai, proseguiti con Arap Moi, un kalenjin che ha distribuito territori demaniali ai suoi accoliti e favorito la pulizia etnica di quelli che gli davano fa­stidio. Prima di queste disgrazia­te elezioni, nella regione dell'Elgon, ai confini con l'Uganda, c'erano già stati 400 morti e 80mila profughi, vittime della pulizia etnica delle bande dei Sa­baot i difensori della terra. La vera colpa del Governo Ki­baki, che per restare presidente ha imbrogliato più o meno nella stessa misura di quanto è avve­nuto nei feudi di Odinga, è stata quella di non avere saputo rom­pere con il passato, con la corru­zione, con la "mafia" del Mount Kenya. E gli uomini di Odinga non hanno esitato a strumenta­lizzare le bande armate per otte­nere con la violenza etnica quel­lo che non avevano conseguito con il voto. Ma i conflitti sulla ter­ra, tra le etnie, il regionalismo spinto, sono soltanto una parte di questa vicenda, quella più appariscente. Sullo sfondo si agitano la lotta per la conquista del Kenya, le manovre di destabilizzazione dell'Africa orientale, di una vasta area strategica ricca di petrolio e risorse. E la terra africana torna a essere un campo di battaglia, que­sta volta in nome di interessi eco­nomici e politici globali.

Articolo tratto da IlSole24Ore.it

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