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Il retaggio del colonialismo
Kenya, un conflitto per la terra
Gli squilibri nella distribuzione tra le etnie sono all'origine delle divisioni.
«Quando
i missionari vennero per la prima volta in Kenya loro avevano le Bibbie e noi avevamo la terra, cinquant'anni dopo noi avevamo le Bibbie e loro avevano la terra». Sorride con ironia Uhuru Kenyatta, il figlio di Jomo, quando ricordo queste parole del padre rimaste famose all'epoca della lotta anti-coloniale. «Mio padre - aggiunge Uhuru, il cui nome significa "libertà" - però ci ha anche insegnato che bisogna imparare dalla storia ma non vivere nel passato». Uhuru Kenyatta, 47 anni, ministro dei governi locali con Kibaki, è stato rieletto con una valanga di voti alle ultime elezioni, uno dei pochi dell'antica nomenklatura a non essere stato punito dalle urne. La sua famiglia, simbolo della predominanza dell'etnia kikuyu ma anche del sogno nazionale infranto, possiede oggi 2mila chilometri quadrati di terra arabile sui 113mila del Paese. Ma questo non meraviglia nessuno, dopo i Kenyatta è toccato a Daniel Arap Moi, successore alla presidenza di Jomo, diventare un grande proprietario e favorire per un ventennio a colpi di pulizia etnica la sua tribù, i kalenjin. Il capo dell'opposizione, Raila Odinga, rivale del presidente Mwai Kibaki - manco a dirlo un altro latifondista - è un luo, etnia che si è sentita storicamente emarginata dai kikuyu, ma Raila a sua volta è un ricco signore, miliardario in dollari, con un passato marxista e forti legami con le multinazionali. Il negoziato tra Kibaki e Odinga, con la mediazione di Kofi Annan e ora anche di Condoleezza Rice, è una trattativa politica ma anche d'affari: potere e denaro qui sono un'accoppiata inscindibile. «Non cerchiamo rivoluzionari dove non esistono - scrive Mukoma Wa Ngugi, poeta e saggista - la maggioranza dei kenyani, che siano luo, kikuyu, luhya o altro, sono poveri, il 60% vive con meno di due dollari al giorno e questo riguarda tutti, senza differenze. I ricchi kikuyu prosperano a spese dei poveri kikuyu e lo stesso avviene per gli altri. Il richiamo etnico viene sfruttato dalle élite tribali, in modo occulto o palese, per nascondere le cause profonde del disagio». Ma la questione della terra rimane all'origine del conflitto in Kenya, come in altri stati della regione, dal Ciad al Sudan allo Zimbabwe, e percorre la storia di questo
Paese con memorie sanguinose e incancellabili. «La terra è un campo di battaglia, lo era all'epoca dell'occupazione britannica quando a migliaia dovettero fare spazio ai coloni occidentali, ed è stato così anche dopo l'indipendenza», dice Wangaari Maathai, fondatrice del Green Belt Movement e Nobel per la pace del 2004. Alla fine della prima guerra mondiale l’1°/o della popolazione bianca del Kenya possedeva il 25% delle terre coltivabili. «Sono nata nel 1940 - racconta Wangaari - nella regione centrale, davanti al Mount Kenya: i coloni inglesi arrivarono con i documenti che comprovavano la proprietà dei terreni migliori e migliaia di abitanti, compresi i kikuyu, furono obbligati a trasferirsi nella Rift Valley. All'inizio degli anni '50 circa 40mila coloni, per lo più britannici, possedevano 2.500 fattorie negli Altipiani Bianchi». Deportati allora nella Rift Valley, i kikuyu sono stati cacciati via ora da luo e kalenjin nella pulizia etnica post elettorale, così come i luo hanno dovuto abbandonate le aree dominate dai kikuyu. Cacciati via ma per tornare dove? La mappa del Kenya è stata sconvolta dalla più grande migrazione etnica dai tempi del regime coloniale britannico. «Molti tornano nelle aree di origine ma tanti finiranno per ingrossare le periferie, innescando un'altra bomba demografica e sociale», sostiene Odenda Lumumba della Kenyan Land Alliance. Davanti ai binari della ferrovia che taglia in due Kibera, uno degli slum di Nairobi teatro degli scontri etnici tra luo e kikuyu, è andata in scena una guerra di poveri, a colpi di machete e panga, tra una popolazione dove il 50% è senza lavoro. La maggioranza dei 37 milioni di kenyani vive nelle baraccopoli, cioè occupa meno del 10% del territorio. La metà delle terre arabili oggi è invece in mano al 15% della popolazione, i due terzi possiedono meno di un acro. Certo questo Kenya appare in stridente contrasto con l'immagine di terra di safari e vacanze che ha goduto negli ultimi cinque anni di una crescita annua del 6 per cento. Così come non si può ignorare che rispetto agli Stati vicini, devastati da guerre e conflitti etnici, è l'unico a vantare una consistente classe media. «Su una popolazione di circa 37 milioni, quattro milioni appartengono alla middle class, con entrate da 2.500 a 40mila dollari l'anno», stima l'economista James Shikwati che riceve in un ufficio nel quartiere degli affari, sede di agenzie dell'Onu e multinazionali, a due chilometri in linea d'aria dagli slum. Ma anche il Kenya affluente risente pe
santemente della crisi. Il turismo, che sta chiudendo un hotel dopo l'altro anche sulla costa, rimasta del tutto estranea agli scontri etnici, ha incassato nel 2007 un miliardo di dollari, da lavoro direttamente a 25omila persone e sostiene i bilanci di milioni di kenyani. Per ogni otto turisti si crea un posto di lavoro e ogni posto di lavoro fa mangiare da sette a dodici persone. La questione della terra continua però a incombere come una maledizione. Così come il passato coloniale, a cui si oppose il movimento dei Mau Mau, la confraternita dei Kikuyu che negli anni '50 si proponeva la cacciata dei bianchi. Per otto anni condussero una guerriglia descritta dagli inglesi come criminale ed efferata: in realtà soltanto 32 bianchi furono vittime dirette dei Mau Mau mentre sui massacri britannici calò un velo, sollevato soltanto di recente dal libro di Caroline Elkins, «II Gulag britannico in Kenya», vincitore di un Pulitzer: le vittime kenyane furono dalle 300 alle 400mila, non le 10mila ufficiali, e un milione finì nei campi di concentramento. Il movimento dei Mau Mau rivendicava la restituzione delle terre ma quando Kenyatta salì al potere nel '63 li deluse. Il carismatico Jomo, "la lancia fiammeggiante", concordò che i coloni inglesi potessero restare nello loro farm oppure vendere le terre all'elite kikuyu. Fu così che iniziò la crisi post coloniale: i kikuyu acquistarono le terre della Rift Valley, un tempo appartenute ai kalenjin e cominciarono i guai, proseguiti con Arap Moi, un kalenjin che ha distribuito territori demaniali ai suoi accoliti e favorito la pulizia etnica di quelli che gli davano fastidio. Prima di queste disgraziate elezioni, nella regione dell'Elgon, ai confini con l'Uganda, c'erano già stati 400 morti e 80mila profughi, vittime della pulizia etnica delle bande dei Sabaot i difensori della terra. La vera colpa del Governo Kibaki, che per restare presidente ha imbrogliato più o meno nella stessa misura di quanto
è avvenuto nei feudi di Odinga, è stata quella di non avere saputo rompere con il passato, con la corruzione, con la "mafia" del Mount Kenya. E gli uomini di Odinga non hanno esitato a strumentalizzare le bande armate per ottenere con la violenza etnica quello che non avevano conseguito con il voto. Ma i conflitti sulla terra, tra le etnie, il regionalismo spinto, sono soltanto una parte di questa vicenda, quella più appariscente. Sullo sfondo si agitano la lotta per la conquista del Kenya, le manovre di destabilizzazione dell'Africa orientale, di una vasta area strategica ricca di petrolio e risorse. E la terra africana torna a essere un campo di battaglia, questa volta in nome di interessi economici e politici globali.
Articolo tratto da IlSole24Ore.it
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